Il secondo disastro della funivia del Cermis
25 anni fa i cavi si ruppero, com'era già successo nel 1976: questa volta però a tranciarli era stato un aereo americano
Alle 15:13 del 3 febbraio 1998 un aereo militare statunitense decollato dalla base aerea di Aviano, in Friuli Venezia Giulia, in volo sulla Val di Fiemme, tranciò i cavi della funivia del Cermis, nei pressi di Cavalese, a circa 60 chilometri da Trento. La cabina precipitò per oltre 100 metri. A bordo c’erano venti persone, 19 turisti e il manovratore: morirono tre italiani, sette tedeschi, cinque belgi, due polacchi, due austriaci e un olandese. L’aereo, come appurò l’inchiesta, volava al di sotto della quota consentita.
Non fu il primo incidente occorso alla funivia di Cavalese. Il 9 marzo 1976 la funivia che scendeva dall’alpe del Cermis era precipitata in seguito alla rottura della fune portante. Quel giorno morirono 42 persone. In quel caso a provocare l’incidente fu l’accavallamento di due funi: una tranciò l’altra.
L’incidente causato dal jet americano provocò ulteriori tensioni nei rapporti diplomatici tra Italia e Stati Uniti. Nelle stesse settimane era scoppiato infatti il conflitto nel Kosovo, una delle repubbliche rimaste a far parte della Federazione jugoslava che aveva dichiarato la propria indipendenza. La NATO si era schierata a favore degli indipendentisti e aveva autorizzato attacchi aerei sul territorio della Jugoslavia: la base di Aviano, in Friuli, che è un’infrastruttura militare italiana utilizzata dalla forze aeree americane, era strategicamente fondamentale, così come era fondamentale uno stretto coordinamento tra l’aeronautica militare italiana e quella americana. Ciò che avvenne il 3 febbraio 1998 rischiò così di incrinare rapporti che fino a quel momento erano stati saldissimi: nel marzo del 1999, un anno dopo, gli aerei appartenenti a 13 paesi della NATO, tra cui l’Italia, iniziarono i bombardamenti in Jugoslavia. Molti degli aerei partirono proprio dalla base di Aviano.
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Nel 1998 a far precipitare la funivia fu la manovra di un aereo militare americano, un Grumman EA-6B Prowler del 1971, che quel giorno era decollato dalla base aerea di Aviano alle 14:35. A bordo c’erano il capitano dei Marines Richard J. Ashby, l’ufficiale di rotta Joseph Schweitzer e i due addetti ai sistemi di guerra elettronica William Rancy e Chandler Seagraves. Alle 15:07 l’aereo sorvolò il lago di Garda e raggiunse, volando a 900 chilometri all’ora, la Val di Fiemme.
L’esercitazione prevedeva un volo a bassa quota ma le regole imponevano che comunque il velivolo non dovesse mai scendere sotto i 610 metri. Secondo quanto riportato negli atti di un’inchiesta del parlamento italiano, «l’aereo ha impattato i cavi della funivia del Cermis ad una quota approssimativa tra 111 e 113 metri sul terreno; ha colpito due dei tre cavi della funivia in movimento verso il basso e ha volato sotto i tre cavi della funivia in movimento verso l’alto».
Repubblica scrisse: «la cabina che stava scendendo verso Cavalese si è schiantata al suolo poco lontano dal greto del fiume Avisio, precipitando nel vuoto per più di 100 metri» mentre una seconda cabina, che era in salita, «è stata bloccata dai congegni di sicurezza a un centinaio di metri dalla stazione di arrivo. Il manovratore, che era solo sulla cabina, è stato portato a valle in stato di choc dai soccorritori e ricoverato all’ospedale di Cavalese».
Dopo l’impatto, i sistemi di allarme a bordo del caccia americano iniziarono a suonare e il velivolo perse fluido idraulico. L’ufficiale di rotta Joseph Schweitzer disse, in un documentario di National Geographic, che fu come se l’ala destra del velivolo «fosse stata attraversata da una motosega» mentre la cloche tremava «come se dieci serpenti a sonagli si muovessero dentro».
Dopo aver tranciato i cavi, l’aereo si diresse verso la base di Aviano, lanciando il mayday, il segnale che indica l’immediata richiesta d’aiuto, e chiedendo l’autorizzazione a un atterraggio d’emergenza. Come da procedura, dopo l’atterraggio i due addetti alla guerra elettronica si allontanarono dal velivolo mentre il pilota e l’ufficiale restarono al loro posto.
La procura di Trento il giorno dopo mise l’aereo sotto sequestro. Fu immediatamente verificato che un frammento di un cavo della funivia era rimasto incastrato nella fusoliera. I carabinieri piantonarono l’aereo per evitare qualsiasi manomissione delle prove. I pubblici ministeri che indagarono sull’incidente chiesero che i quattro militari americani venissero processati in Italia, ma il ministero della Giustizia italiano, allora presieduto da Giovanni Maria Flick, stabilì che in base alla convenzione di Londra del 1951 la giurisdizione sul caso dovesse essere quella statunitense. Si tratta di un accordo firmato da tutti i paesi aderenti alla NATO e ratificato in Italia con la legge 1335 del 1955. Stabilisce che:
Le autorità dello Stato d’origine avranno il diritto di esercitare sul territorio dello Stato di soggiorno i poteri di giurisdizione penale e disciplinare loro conferiti dalla legislazione dello Stato d’origine su tutte le persone soggette alle leggi militari dello Stato.
In pratica, quindi, il trattato di Londra prevede che i militari stranieri imputati di reati in Italia, commessi nello svolgimento delle loro mansioni, debbano essere giudicati nel loro paese d’origine.
Lo stesso accordo dice anche che:
Le autorità dello Stato di soggiorno e d’origine si presteranno reciproca assistenza nello svolgimento delle inchieste, nella ricerca delle prove, compresi il sequestro e, se del caso, la consegna degli elementi di prova e dei corpi del reato.
Le indagini americane vennero affidate a Mark Fallon, detective federale dell’NCIS, Naval Criminal Investigation Service. I quattro componenti dell’equipaggio dissero di aver rispettato i piani di volo e di essere stati ingannati da un malfunzionamento dell’altimetro. Il detective recuperò l’altimetro e trovò sull’aereo anche una videocamera amatoriale e la custodia di una cassetta. I quattro militari sostennero di non saperne nulla.
Il Mission Data Recorder, MDR, la scatola nera, dimostrò che durante il volo il pilota era sceso più volte sotto i 350 metri e nel contempo aveva superato i limiti di velocità imposti dall’Aeronautica militare. L’inchiesta rivelò anche che quel volo sarebbe stato l’ultimo di Ashby a cui era stata già comunicata la promozione a pilota di caccia intercettori da combattimento. Venne ipotizzato che quel giorno i quattro militari a bordo stessero festeggiando l’avvenimento. Tutti e quattro risultarono comunque negativi agli esami tossicologici.
A essere processato fu solo il pilota Richard J. Ashby. Il procedimento si svolse a Camp Lejeune, nel North Carolina, Stati Uniti. Venne accertato che le mappe di bordo non segnalavano la presenza dei cavi della funivia ma anche che le regole imponevano all’aereo di non volare sotto i 2 mila piedi (610 metri), mentre il cavo fu tranciato a un’altezza di poco più di 360 piedi (110 metri). Il pilota disse di non essere a conoscenza delle restrizioni sulla velocità e che solo per questo motivo non le aveva rispettate. Disse anche che in quel momento l’altimetro non funzionava.
Richard Ashby venne assolto. Lui e Joseph Schweitzer furono poi giudicati per aver distrutto una videocassetta girata quel giorno a bordo dell’aereo. Entrambi furono degradati e rimossi dal servizio. Ashby fu anche condannato a sei mesi di carcere che poi divennero quattro mesi e mezzo grazie alla sua buona condotta. Dieci anni dopo i due militari fecero ricorso contro la loro radiazione, ma la condanna venne confermata. I due ex militari sostennero che all’epoca del processo era stato fatto un accordo tra accusa e difesa per far cadere l’imputazione di omicidio plurimo e che la condanna per intralcio alla giustizia era stata decisa solo per le pressioni che arrivarono dall’Italia.
Nel 2012, intervistato da National Geographic, Joseph Schweitzer ammise che in effetti a bordo era stata registrata una cassetta video ma che poi lui stesso aveva deciso di distruggerla perché, spiegò, «non volevo che la CNN mandasse in onda il mio sorriso e poi il sangue delle vittime».
Le famiglie delle vittime vennero risarcite nel 1999 con 3,8 miliardi di lire ciascuna, corrispondenti a circa 2,6 milioni di euro di oggi. A versare la cifra fu la provincia autonoma di Trento risarcita poi dallo Stato italiano in base a una legge approvata nel dicembre del 1999. In seguito a un accordo bilaterale, gli Stati Uniti hanno poi rimborsato all’Italia il 75% di quella cifra.