Si farà mai la “autonomia differenziata”?
Il governo ha avviato ieri una riforma complicata e dal tortuosissimo iter legislativo, che potrebbe finire nel nulla
Giovedì sera il governo ha approvato un disegno di legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata”, cioè la riforma che si propone di modificare la suddivisione di alcune competenze fra lo Stato centrale e le singole regioni. È una riforma promessa da anni dalla Lega, il secondo partito per numero di parlamentari nella maggioranza di governo e radicato specialmente nelle regioni del Nord, le più interessate storicamente all’autonomia e ai supposti vantaggi che ne trarrebbero.
Ma l’approvazione di ieri è soltanto il primo passaggio di un lungo e tortuosissimo iter legislativo: nel migliore dei casi l’autonomia differenziata sarà attuata solo fra qualche anno, mentre nel peggiore la sua approvazione si bloccherà per ragioni politiche, burocratiche o per i lunghissimi negoziati previsti dal decreto stesso.
Sui quotidiani di oggi diversi commentatori ipotizzano che la riforma potrebbe non essere mai davvero portata a termine, per via di questi molti potenziali ostacoli. E fanno notare che il governo ha deciso di avviarne l’iter legislativo a pochi giorni di distanza da due importanti elezioni regionali, verosimilmente per avere qualche argomento in più negli ultimi giorni di campagna elettorale. Il 12 e il 13 febbraio si voterà in Lombardia – una regione a cui la Lega tiene particolarmente, e dove negli ultimi tempi è molto in difficoltà – e nel Lazio.
La prima difficoltà che la riforma potrebbe incontrare è di natura politica. La necessità di applicare l’autonomia differenziata è sostenuta soprattutto da ministri e parlamentari della Lega: un partito che sta vivendo una specie di scissione, in cui molti dirigenti e militanti accusano il segretario Matteo Salvini del recente crollo di consensi soprattutto nelle regioni del Nord. La Lega insomma nei prossimi mesi potrebbe non avere il capitale politico sufficiente per imporre un’approvazione spedita della riforma.
Al contrario Fratelli d’Italia, che nei sondaggi è dato stabilmente oltre il 30 per cento dei voti e verosimilmente uscirà rafforzato dalle imminenti elezioni regionali, è molto più freddo a riguardo. La leader del partito e presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha detto più volte che la riforma sull’autonomia differenziata dovrà procedere in parallelo a quella sul presidenzialismo, che invece prevede di accentrare diversi poteri in una sola figura legata per forza di cose allo Stato centrale.
Ci sono inoltre molte perplessità sull’iter legislativo che dovrà seguire la riforma per essere approvata in via definitiva e attuata, che prevede diversi potenziali colli di bottiglia e passaggi avanti e indietro fra governo, parlamento e organi regionali.
Nelle prossime settimane il testo del decreto approvato giovedì sarà esaminato dalla Conferenza unificata, un organo di coordinamento fra Stato centrale, regioni, province e comuni, che potrà proporre modifiche o approvarlo così com’è. A quel punto il testo tornerà in Consiglio dei ministri per una seconda approvazione, per poi iniziare il suo iter parlamentare: sembra scontato che arriveranno centinaia di richieste di modifiche, sia da parte dell’opposizione sia da parte dei parlamentari della maggioranza che non appartengono alla Lega.
Nel frattempo una apposita e separata cabina di regia, cioè un’assemblea di esperti nominata del governo, dovrà definire i cosiddetti Livelli essenziali di prestazione (Lep). Sono dei parametri che furono inseriti nell’articolo 117 della Costituzione dalla riforma sulle autonomie approvata dal centrosinistra nel 2001: servono a stabilire, attraverso degli indicatori numerici frutto di stime, il livello minimo dei servizi – dalla sanità all’istruzione – a cui ha diritto di accedere ciascuna persona a prescindere dalla regione o dal comune in cui abita. La cabina di regia si prenderà un periodo di tempo non inferiore ai sei mesi per calcolarli.
Una volta definiti i Lep e concluso l’iter parlamentare, dovrà essere emanato un decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) per ogni Lep: ciascun decreto dovrà essere preventivamente approvato dalla Conferenza unificata. Anche i Lep dovranno poi essere discussi e approvati dal parlamento. A quel punto però inizierà un’altra fase ugualmente lunga e complessa: il governo dovrà trattare con ogni singola regione la nuova suddivisione delle 23 competenze interessate dal decreto (ce ne sono anche di molto delicate come istruzione, sanità, produzione di energia e tutela dell’ambiente).
Ciascuna regione deve scegliere quale delle 23 competenze chiedere al governo: a quel punto dovrà negoziare col ministero degli Affari regionali per definire esattamente come intende garantire i Lep e la transizione di queste competenze. Una volta trovato l’accordo, il testo dovrà essere approvato sia dalla Conferenza unificata sia dal parlamento sia dalla regione interessata. Infine, per ogni regione, il governo dovrà stabilire il disegno di legge definitivo che dovrà essere approvato dal parlamento.
Praticamente a ogni passaggio dell’iter la riforma rischia di rallentare, bloccarsi o saltare del tutto, nel caso sia impossibile trovare dei compromessi: per esempio nel corso dell’iter parlamentare, visto che la stessa maggioranza sembra divisa sulla forma definitiva che dovrà assumere la riforma, o nel negoziato fra ministro degli Affari regionali e regioni sulle singole competenze.
Il primo passaggio della riforma è stato approvato da meno di un giorno, inoltre, e stanno già emergendo pareri molto critici su alcuni suoi aspetti. Giovedì il presidente dell’Ordine nazionale dei medici, Filippo Anelli, ha chiesto che il testo attuale della riforma venga modificato perché in materia di sanità pubblica rischia di «non colmare le differenze che, purtroppo, esistono sul territorio nazionale». Anche i sindacati della scuola temono che la riforma aumenti le disuguaglianze già esistenti nei sistemi scolastici delle varie regioni.
Tutto fa pensare che la riforma possa essere approvata e attuata solo con un grande dispendio di energie e di capitale politico da parte del governo di Meloni, almeno per i prossimi due anni.