Il cartone della pizza andrebbe migliorato
Prima che arrivi a casa di solito la condensa rende tutto freddo e gommoso, ma le alternative sperimentate finora sono troppo scomode
La pizza è sempre stato un cibo popolare, senza troppe pretese, il più delle volte economico, anche se in tempi recenti ingredienti e preparazioni sofisticate hanno fatto aumentare spesso i prezzi. Fin da quando esiste, comunque, la pizza si è prestata a un consumo estemporaneo, da asporto o, più recentemente, consegnata a domicilio. Per trasportare le pizze, che siano tonde o al taglio, il contenitore standard e più diffuso è il cartone quadrato che è indubbiamente comodo e conveniente: non costa molto, occupa poco spazio, si maneggia facilmente e quando è pulito può essere riciclato.
Tuttavia il cartone ha anche un difetto non indifferente: mantiene la pizza in buone condizioni solo per poco tempo, ma già dopo un quarto d’ora la qualità del prodotto viene in parte compromessa, per due motivi. Innanzitutto perché nei primi minuti, quando la temperatura è ancora alta, l’acqua contenuta nella pizza evapora in condensa che rimane intrappolata dentro al cartone, finendo di nuovo sulla pizza stessa e rendendola meno fragrante; e poi perché in seguito a questo processo, soprattutto in inverno, la temperatura della pizza cala progressivamente. Se viene mangiata dopo più di venti minuti nel cartone, insomma, è molto probabile che sia fredda e gommosa.
È un problema che riguarda i prodotti da forno in generale, infatti quando capita di comprare il pane ancora caldo i commessi raccomandano di non chiudere la busta di carta proprio per evitare quell’effetto. Risolvere il problema però non è facile né economico, perché non ci sono supporti in grado di battere la convenienza del cartone. Tuttavia aziende e ricercatori stanno cercando di introdurre migliorie alla scatola e alle modalità di consegna: dalle prese d’aria per far uscire il vapore a un innovativo processo che prevede l’abbattimento della temperatura prima di inscatolare la pizza.
In Italia ma anche all’estero c’è una consapevolezza diffusa dei difetti del cartone, nonostante sia ormai diventato uno standard adottato praticamente ovunque. I primi a pensare di infilare la pizza in una scatola per l’asporto furono gli americani negli anni Sessanta, poi nei decenni successivi l’idea si diffuse anche in Europa (il primo brevetto italiano arrivò nel 1985, registrato dall’azienda Trebox di Sergio Boscolo). Normalmente le prese d’aria sono sempre presenti, anche nelle scatole più tradizionali: sono delle incisioni circolari sui lati, con cui i pizzaioli possono aprire dei fori mentre preparano il cartone prima della consegna e che servono anche a montare la scatola.
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Alcune aziende hanno tentato di rendere più efficienti queste prese d’aria, facendole più piccole e posizionandole nel margine superiore del cartone, in modo da agevolare la fuoriuscita del vapore. Già nel 2010 Comieco, un’azienda specializzata nel recupero degli imballaggi, aveva realizzato un cartone con prese d’aria di questo tipo, appositamente per la pizza napoletana. Poi negli anni successivi altri produttori hanno adottato una soluzione simile e apportato altre migliorie: l’azienda Hot Dry Delivery, per esempio, ha brevettato un sistema “anticondensa” fatto di prese d’aria maggiorate sul margine alto del cartone, e piccolissimi fori sulla base, per ridurre la formazione di condensa anche sotto la pizza.
Un sistema simile l’ha adottato KEEPizza: dentro ai suoi cartoni, che sono un po’ più alti della media, viene messa una specie di griglia rialzata di cartone, con grandi fori, in modo da separare la pizza dalla base e ridurre l’effetto “sauna” che si crea dopo aver chiuso il cartone. Un problema di questi cartoni è che montarli è un po’ più laborioso rispetto ai cartoni tradizionali.
Un’altra soluzione tentata è di modificare i materiali piuttosto che la forma: per esempio l’azienda friulana ODF produce cartoni con l’interno rivestito in PET (il materiale plastico comunemente utilizzato per bottiglie e contenitori per cibi) metallizzato. Secondo l’azienda il rivestimento plastico fa sì che la pizza «non saprà più di cartone» e sarà «calda più a lungo». Un’altra invece, Pizzeria Ricca, è passata a produrre direttamente scatole per pizza in plastica, per la precisione in polistirene alimentare. La scatola si chiama “Ciro” e ha una base punteggiata di spessori in rilievo, con dei fori sul coperchio per far uscire l’aria, ma ha almeno due difetti: costa leggermente di più di qualsiasi cartone tradizionale e pone un problema ambientale, visto che il cartone si decompone in molto meno tempo rispetto ai materiali plastici, polistirene compreso.
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Secondo Ciro Salvo, proprietario della famosa e premiata pizzeria napoletana 50 Kalò, nessuno di questi nuovi contenitori potrebbe sostituire il cartone tradizionale. «La plastica fa ancora più condensa del cartone, a casa arriverebbe una pizza in un contenitore praticamente bagnato» dice Salvo. «E poi nessun pizzaiolo comprerebbe contenitori che costano più di 50 centesimi o addirittura un euro, non è sostenibile». Salvo utilizza i cartoni tradizionali, quelli con i buchi circolari ai lati: il loro prezzo attualmente si aggira sui trenta centesimi l’uno, peraltro già aumentato nell’ultimo anno, dopo la guerra in Ucraina e i rincari delle materie prime, tra cui la carta.
Salvo è un po’ pessimista: è consapevole dei difetti del cartone ma dice che al momento non esiste una soluzione alternativa migliore. Potrebbe essere mitigato l’effetto “sauna” aggiungendo un supporto alla base che non faccia aderire la pizza al cartone, un po’ come fa KEEPizza, e aggiungendo fori di uscita del vapore sul coperchio invece che ai lati, visto che l’aria calda va verso l’alto. Ma sarebbero comunque soluzioni parziali: i fori sul coperchio per esempio diventano inutili quando bisogna trasportare più pizze, perché impilandole verrebbero ostruiti.
Per quanto migliorato e modificato, insomma, non esiste un cartone che eviti del tutto la formazione di vapore e condensa. Partendo da questo presupposto, quindi, un gruppo di ricerca dell’Università Federico II di Napoli ha sperimentato un processo spostando l’attenzione dal cartone alla pizza stessa. «È una soluzione che abbiamo scoperto un po’ per caso» racconta Paolo Masi, docente di ingegneria alimentare all’Università di Napoli. «Nel corso di una ricerca lunga anni sulla pizza napoletana e sulle sue proprietà, abbiamo cotto varie pizze nel nostro forno a legna del laboratorio. Per non sprecare le pizze le abbiamo messe in un abbattitore, poi facendole rinvenire in un secondo momento con il forno elettrico ci siamo accorti che le proprietà organolettiche della pizza rimanevano praticamente intatte».
Masi avviò questo progetto di ricerca nel 2017, con i fondi del ministero dell’Istruzione. L’idea di iniziarlo gli venne in seguito a un famigerato servizio di Report che causò polemiche e contestazioni, perché in sintesi sosteneva che la pizza napoletana fosse dannosa per la salute. La ricerca si chiama The Neapolitan pizza: processing, distribution, innovation and environmental aspects ed è una sorta di studio definitivo sulla pizza napoletana, che analizza scientificamente ogni suo aspetto: chimico, organolettico, nutrizionale. I risultati sono finiti in una serie di articoli scientifici e il convegno finale del progetto si è tenuto lo scorso dicembre.
Tra i vari aspetti esaminati c’è anche il problema di trovare un modo per trasportare la pizza senza comprometterne la qualità: secondo Masi mettere la pizza nell’abbattitore, portandola rapidamente a -20 °C subito dopo la cottura, è la soluzione migliore. «I clienti si porterebbero a casa una pizza congelata, che poi devono solo riscaldare a 220 gradi per farla rivenire». Con questo metodo si risolve il problema della condensa e della gommosità, tuttavia è anche vero che aggiungere un passaggio tra l’arrivo della pizza a casa e il momento in cui viene mangiata potrebbe rendere l’operazione meno pratica, quando la praticità è proprio uno dei motivi del successo della pizza d’asporto.
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