Perché Israele demolisce le case degli attentatori palestinesi
Sostiene che scoraggi altre persone a compiere attacchi, ma da anni ci sono molte critiche sulla legittimità ed efficacia di questa pratica
Domenica l’esercito israeliano ha sigillato porte e finestre della casa dell’uomo che venerdì aveva ucciso sette persone fuori da una sinagoga a Gerusalemme est, in uno degli attentati più sanguinosi degli ultimi anni compiuti da un palestinese. Nello stesso giorno il governo ha ordinato una misura simile per la casa del 13enne palestinese che sabato aveva ferito gravemente due israeliani, sparandogli addosso.
La pratica di sigillare o demolire le case dei palestinesi responsabili o anche solo sospettati di avere compiuto atti di violenza contro israeliani è piuttosto consolidata in Israele. Eppure non ha precedenti o paragoni con quello che avviene in altri paesi. Diversi esperti di diritto internazionale la ritengono illegale ed esistono vari pareri, anche interni all’esercito israeliano, che la considerano crudele e inefficace nel prevenire ulteriori attacchi.
In un rapporto dell’ufficio del relatore speciale dell’Onu, pubblicato nel 2020 e relativo alla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati da Israele, si legge che dal 1967, cioè da quando iniziò l’occupazione militare di Israele della Cisgiordania e di Gerusalemme est, l’esercito israeliano ha sigillato o demolito circa duemila case in questi due territori (una piccola minoranza di case è stata demolita o sigillata dentro al territorio di Israele). Dal 2014 a oggi sono state demolite 75 case o stanze di sospettati di attentati, mentre altre 12 sono state sigillate. La decisione coinvolge vari livelli dell’esercito israeliano, dell’intelligence interna, della magistratura e del governo. Per un ordine definitivo di demolizione o sigillatura serve che la richiesta ufficiale dell’esercito venga approvata sia dal procuratore generale civile sia dal procuratore generale militare.
La demolizione viene decisa nei casi più gravi e prevede solitamente l’intervento di ruspe e mezzi pesanti. Nei casi meno gravi viene decisa la sigillatura: la casa o la stanza del sospettato vengono riempite di cemento, in modo che non siano più utilizzabili.
Nelle ultime settimane l’esercito israeliano sta adottando un nuovo metodo. Prima della demolizione o sigillatura, due pratiche che hanno effetti permanenti, le case dei sospettati vengono sigillate temporaneamente: porte e finestre vengono saldate o coperte senza l’uso di cemento, in attesa di una decisione definitiva. La casa dell’uomo che venerdì ha ucciso sette israeliani è stata temporaneamente sigillata: il quotidiano israeliano Haaretz scrive che alla fine verosimilmente l’esercito cercherà di demolirla.
Alcuni soldati israeliani sigillano temporaneamente la casa dell’uomo che ha ucciso 7 persone a Gerusalemme est, venerdì
Il governo israeliano giustifica la decisione di demolire o sigillare le case dei sospettati con l’articolo 119 del vecchio codice di leggi applicato dal Regno Unito, che fino al 1948 governava gli attuali territori di Israele, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Gran parte di quel codice fu assorbita nella legislazione dello stato israeliano, che fu fondato nel 1948, e gli articoli che non sono stati esplicitamente abrogati sono rimasti in vigore.
L’articolo 119 in particolare prevede che ogni edificio in cui si pensa siano nascoste delle armi, oppure si sospetta sia stato usato da una persona che ha commesso un crimine, o anche solo dai suoi complici, possa essere requisito e demolito.
La principale critica dal punto di vista giuridico a questa pratica si basa sull’articolo 53 della Quarta convenzione di Ginevra, l’ultimo dei quattro principali trattati internazionali sul diritto di guerra firmati nel 1949. L’articolo 53 vieta a una potenza occupante, come Israele in questo caso, di «distruggere beni mobili o immobili appartenenti individualmente o collettivamente a privati, allo stato o a enti pubblici, a organizzazioni sociali o a cooperative». Israele però insiste molto sulla parte finale dell’articolo 53: «salvo nel caso in cui tali distruzioni siano rese assolutamente necessarie dalle operazioni militari».
Nel 1979 la Corte Suprema israeliana si espresse per la prima volta sulla demolizione di una casa di un sospettato palestinese, sostanzialmente per confermare la legittimità giuridica di questa pratica. La Corte sostenne che la demolizione di una casa non rappresenti una forma di «punizione collettiva», vietata anch’essa dalla Quarta convenzione di Ginevra, ma soprattutto aderì completamente alla versione dell’esercito israeliano, spiegando che questa pratica creava una efficace «deterrenza contro il compimento di atti simili».
Da allora la Corte Suprema ha confermato più volte questo suo indirizzo, con rare eccezioni. Dal 2014 ad oggi soltanto in 10 casi ha ridotto la pena ordinata dall’esercito – preferendo la sigillatura alla demolizione, per esempio – oppure l’ha cancellata del tutto.
Haaretz per esempio ricorda un caso del 2020 in cui l’esercito aveva chiesto la demolizione della casa di un ragazzo palestinese che aveva ucciso un soldato israeliano tirandogli una pietra in testa durante un’operazione nel paese di Ya’bad, in Cisgiordania. La Corte Suprema non accolse la richiesta dell’esercito perché gli avvocati della famiglia del ragazzo riuscirono a dimostrare che nessuno degli altri componenti partecipò né celebrò l’attacco al soldato israeliano. L’esercito si limitò a sigillare col cemento la stanza del ragazzo. Il Times of Israel nota comunque che in genere «le demolizioni vengono eseguite ben prima che arrivi la condanna» in un processo.
Negli anni la legittimità e l’effetto deterrente delle demolizioni e delle sigillature nei confronti dei sospettati di attentati sono stati messi in dubbio parecchie volte nel dibattito pubblico israeliano. In certi periodi la pratica è stata persino abbandonata: nel 2005 una commissione militare presieduta dal generale Udi Shani esaminò la pratica e la ritenne sostanzialmente inutile, oltre che potenzialmente contraria alle norme nazionali e internazionali. Per quasi dieci anni l’esercito l’accantonò, ad eccezione di un solo caso, fino al 2014, quando tre studenti di una scuola religiosa ebraica furono rapiti e uccisi da alcuni palestinesi in Cisgiordania. In Israele il caso attirò talmente tante attenzioni che l’esercito ripristinò le demolizioni, secondo alcuni soltanto per dimostrare una certa fermezza (un primo responsabile dell’uccisione dei tre ragazzi fu arrestato dopo un mese di ricerche intense).
Il già citato rapporto del 2020 del relatore speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati spiega che le demolizioni o le sigillature causano danni permanenti non solo alla persona sospettata, ma soprattutto alla sua famiglia, che in diversi casi non c’entra nulla con i reati contestati.
«Da un giorno all’altro tutti sono costretti a vivere in una tenda o ad essere ospitati dai parenti. Dopo [una demolizione] ciascuna famiglia è inevitabilmente umiliata, delegittimata, sfollata, amareggiata e in certi casi desiderosa di vendetta», si legge nel rapporto. Un’altra critica a questa pratica, piuttosto pragmatica, ritiene che sia sostanzialmente controproducente: e cioè che la demolizione alimenti l’ostilità nei confronti di Israele, anziché dissuadere altri palestinesi dal compiere ulteriori violenze.
Già nel 2003 Arik Ascherman, dirigente dell’organizzazione Rabbis for Human Rights (“Rabbini per i diritti umani”), diceva al New York Times che «la demolizione di case e campi, l’esproprio di terreni e il trattamento di ogni palestinese come un criminale» hanno comportato il fatto che «sempre più palestinesi hanno perso fede nel processo di pace, finché la frustrazione si è trasformata in una rivolta» (Ascherman parlava ai tempi della Seconda Intifada, cioè le rivolte popolari palestinesi contro l’occupazione israeliana).
Sembra difficile che l’approccio di Israele possa cambiare a breve: il governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu è entrato in carica da poche settimane ma ha già promesso un approccio molto duro nei confronti degli attentatori palestinesi. A metà gennaio, appena prima del nuovo ciclo di violenze fra israeliani e palestinesi, si sono anche rinnovati i vertici dell’esercito, che rimarranno in carica per tre anni.
Anche la Corte Suprema oggi è composta in maggioranza da giudici conservatori, di solito poco propensi a fermare le demolizioni. Uno dei pochi giudici noti per la loro ostilità alle demolizioni, Menachem Mazuz, è andato in pensione nel 2021. In un’intervista data ad Haaretz poco dopo aver lasciato il suo incarico aveva detto: «considero la demolizione delle case come una cosa immorale, illegale e di dubbia efficacia. Penso che venga ordinata per placare l’opinione pubblica, e che chi comanda sappia che non impedirà nuovi attentati terroristici».