Cosa sono le colonie israeliane
Gli insediamenti illegali costruiti a Gerusalemme est e in Cisgiordania sono spesso città con migliaia di abitanti, scuole, strade, distretti industriali
L’attentato compiuto a Gerusalemme venerdì sera, nel quale sette persone sono state uccise mentre uscivano da una sinagoga, è avvenuto in un luogo piuttosto significativo e conteso da decenni. Si chiama Neve Yaakov (“l’oasi di Giacobbe”) ed è la colonia israeliana più periferica fra quelle costruite nella parte est della città, che Israele occupa con la forza da più di cinquant’anni.
Neve Yaakov è una delle decine di colonie che Israele mantiene nei territori che secondo gran parte della comunità internazionale appartengono ai palestinesi, cioè Gerusalemme est e la Cisgiordania, e che dovrebbero far parte di un futuro stato palestinese. Le colonie israeliane sono ritenute il principale ostacolo a una pace duratura fra israeliani e palestinesi e sono spesso al centro delle violenze e tensioni che coinvolgono ciclicamente questo pezzo di mondo, come quelle in corso da qualche giorno.
Ormai da anni, però, in Israele non esiste alcun dibattito vero sul loro smantellamento. Sia perché ritenuto concretamente poco realizzabile, dato che ormai in molti casi queste colonie assomigliano a piccole città (il termine “colonie” è piuttosto datato); sia perché i diversi governi di destra che si sono succeduti negli anni hanno sempre promesso di proteggerle e ampliarle. Il governo attuale, guidato da Benjamin Netanyahu e sostenuto da una maggioranza di destra, ha inserito l’espansione delle colonie in Cisgiordania nel suo programma ufficiale.
Le colonie israeliane furono fondate dopo la fine della Guerra dei sei giorni, combattuta nel 1967 fra Israele e una coalizione di stati arabi che in parte difendevano gli interessi dei palestinesi. Alla fine della guerra, Israele conquistò tutta la Cisgiordania, cioè la fascia di territori che si estende più o meno da Gerusalemme fino alla sponda occidentale del fiume Giordano, al di là del quale c’è la Giordania. Oltre alla Cisgiordania, Israele conquistò anche l’intera città di Gerusalemme: la parte ovest faceva già parte del suo territorio, mentre la parte est, abitata soprattutto da palestinesi, dal 1948 fino a quel momento aveva fatto parte della Giordania.
Le conquiste fatte da Israele durante la Guerra dei sei giorni non sono mai state riconosciute dalla comunità internazionale, che fin dalla Seconda guerra mondiale sostiene la necessità di creare uno stato palestinese dentro ai confini proposti dall’ONU nel 1948.
Ancora oggi quei confini, che corrono lungo la cosiddetta “Green Line” e comprendono tutta la Cisgiordania e Gerusalemme est, vengono considerati dai paesi occidentali e da quelli a maggioranza araba come la base da cui ripartire per un negoziato di pace fra israeliani e palestinesi. Ogni anno che passa però una trattativa per la pace diventa sempre più complessa: Israele continua ad espandere le proprie colonie e a rendere più complicata la formazione di uno stato palestinese con un territorio unitario, tanto che ormai anche nei discorsi dei diplomatici la Cisgiordania viene paragonata a un formaggio svizzero coi buchi.
Oggi come allora la Cisgiordania è abitata perlopiù da palestinesi, cioè persone di etnia araba in gran parte musulmane. Ma gli ebrei la considerano la terra natale dei propri antenati: molti fatti raccontati nella Bibbia sono ambientati in Giudea e Samaria, il nome con cui ancora adesso gli israeliani più nazionalisti chiamano la Cisgiordania. Effettivamente queste zone erano abitate da antiche tribù ebraiche, sebbene in un periodo piuttosto remoto, circa tremila anni fa.
Dal 1967 in avanti molti israeliani hanno approfittato del controllo militare di Israele sulla Cisgiordania per costruirci case e fondare comunità a forte carattere ebraico, rivendicando il proprio legame col territorio. Ancora oggi una parte degli israeliani ritiene che quei territori “appartengano” al popolo ebraico per ragioni culturali e religiose, e che Israele le abbia conquistate sul campo nella Guerra dei sei giorni: per queste ragioni respingono le accuse di occupare un posto che appartiene ad altri. A maggior ragione se disabitato o incolto, come parte dei terreni su cui in origine sono nate le colonie.
La Quarta convenzione di Ginevra, l’ultimo dei quattro principali trattati internazionali sul diritto di guerra firmati nel 1949, stabilisce che una potenza occupante – come Israele, in questo caso – non possa trasferire i propri civili su un territorio occupato. Per questa ragione la maggior parte delle organizzazioni internazionali e degli esperti di diritto considera le colonie israeliane illegali.
Israele sostiene invece che le colonie debbano esistere per motivi di sicurezza e di controllo del territorio.
La loro fondazione fu inizialmente giustificata con una vecchia legge dell’Impero ottomano, che permetteva di occupare terreni abbandonati e incolti da anni. Negli anni successivi alla Guerra dei sei giorni, Israele poteva argomentare che le colonie fossero essenziali per monitorare da vicino una popolazione nemica: fino agli anni Ottanta molti paesi arabi e tutti i gruppi militanti palestinesi avevano come obiettivo esplicito la distruzione dello stato di Israele. Più o meno dagli anni Novanta in poi, col rafforzamento dell’esercito israeliano e una certa normalizzazione dei rapporti con alcuni paesi arabi, questa minaccia esistenziale nei confronti di Israele si è molto indebolita.
Da tempo insomma il mantenimento delle colonie non ha più a che fare con la pubblica sicurezza, ma con una serie di posizioni politiche e ideologiche della destra nazionalista e religiosa. Da molti anni la politica israeliana è dominata dal Likud, il partito di Netanyahu, il principale partito di destra. Il Likud guida una coalizione di cui fanno parte vari partiti radicali che sostengono attivamente l’espansione delle colonie, al governo ormai da 14 anni ad eccezione di due brevi periodi. L’obiettivo più o meno esplicito di questi partiti è colonizzare e annettere Gerusalemme est e tutta la Cisgiordania, per il legame culturale e religioso che il popolo ebraico ha con questi luoghi.
In realtà tutti i governi israeliani, di qualsiasi estrazione, hanno sempre appoggiato le iniziative dei coloni: anche perché fino a qualche anno fa erano una esigua minoranza della popolazione israeliana. Lo stato ha sempre garantito agli abitanti delle colonie più grandi tutti i principali servizi di cui gode ogni cittadino israeliano: acqua, energia, raccolta dei rifiuti, disponibilità di case popolari e così via. I governi di destra guidati dal Likud hanno ulteriormente ampliato questi benefici. Il risultato è che trasferirsi nelle colonie è diventato conveniente, in un certo senso. Le persone che si sono trasferite negli ultimi anni nelle colonie più attrezzate raccontano di averlo fatto per via dell’amenità della vita fuori città, resa più comoda dalla presenza di molti servizi.
Rimane ancora forte, comunque, la spinta religiosa e nazionalista che porta molti ebrei ortodossi e ultraortodossi a trasferirsi in posti del genere, e ad ingrossarne la popolazione (in media si stima che una famiglia ultraortodossa israeliana faccia 7 figli).
All’inizio degli anni Novanta nelle colonie in Cisgiordania vivevano poco più di 100mila persone. Secondo le ultime stime oggi sono circa 450mila, a cui vanno aggiunte le 220mila che vivono negli insediamenti di Gerusalemme est. Nel territorio israeliano dentro ai confini della “Green Line” vivono circa 8,5 milioni di persone.
Le parole “colonia” o “insediamento” non rendono bene l’idea di cosa siano diventati questi luoghi: decine di piccole città con migliaia di abitanti, scuole, strade, distretti industriali e persino università pubbliche. Nel caso di Gerusalemme est parliamo di interi quartieri in cui vivono migliaia di persone: quello più grande, Pisgat Ze’ev, ha circa 50mila abitanti. Ariel, una delle colonie più grandi fra quelle che si trovano lontano dalla “Green Line”, ha una superstrada che la collega direttamente al territorio israeliano e che può essere percorsa solo da auto con la targa israeliana.
Soprattutto negli ultimi anni diversi gruppi di militanti ultraortodossi o di estrema destra hanno fondato decine di piccoli avamposti in Cisgiordania fatti soprattutto di baracche, nella speranza che il governo israeliano prima o poi le riconosca come colonie.
Sulla carta una decisione della Corte Suprema israeliana del 1979 impedisce di realizzare nuove colonie in Cisgiordania: in realtà è accaduto spesso che nuove colonie venissero fondate irregolarmente, tollerate dal governo e poi riconosciute perché diventate troppo grandi per essere ignorate.
Nel 2020 il partito di destra nazionalista Yamina aveva proposto una legge per riconoscere retroattivamente 65 di questi avamposti-colonie, ma il parlamento fu sciolto per elezioni anticipate prima che si potesse esprimere.
A volte però i tentativi di fondare nuove colonie sono talmente maldestri ed esplicitamente illegali che anche un governo di destra è costretto a sgomberarle, perlopiù per ragioni di immagine e di rispettabilità a livello internazionale. A metà gennaio le autorità israeliane hanno sgomberato un piccolo avamposto costruito da alcuni nazionalisti vicino a una colonia fondata nel 1984 e ormai molto strutturata, chiamata Migdalim. L’operazione di sgombero ha causato una piccola polemica interna al governo fra il ministero della Difesa Yoav Galant, che ha ordinato lo sgombero, e il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, che vive in una piccola colonia in Cisgiordania ed era contrario all’operazione.
Le colonie grandi o piccole hanno comunque alcuni tratti in comune, fra cui notevoli misure di sicurezza per difendere i propri abitanti e una certa prevaricazione e tendenza ai soprusi nei confronti dei palestinesi che vivono nei quartieri e paesi vicini.
Quasi ogni colonia è circondata da un muro o da una recinzione, e ci si può entrare solo dopo estesi controlli, compiuti dall’esercito o da guardie di sicurezza o in diversi casi dagli abitanti stessi della colonia, armati di mitra o altre armi da fuoco. Sabato un ragazzino palestinese di 13 anni ha sparato a due uomini israeliani, ferendoli gravemente: a interrompere l’attacco è stato un ebreo ultraortodosso armato di mitra, verosimilmente membro di qualche milizia dei coloni di Gerusalemme est, che ha sparato al ragazzino palestinese, ferendolo.
Le colonie e i suoi abitanti sono spesso presi di mira dai palestinesi della Cisgiordania, che li ritengono degli invasori, in alcuni casi anche con la violenza. Spesso le auto dei coloni vengono colpite con pietre e altri oggetti, quando lasciano le colonie e girano per le strade israeliane in Cisgiordania.
I coloni stessi si comportano spesso con atteggiamenti predatori: occupano terreni, deviano corsi d’acqua, compiono atti di violenza piccoli e grandi nei confronti dei propri vicini palestinesi. Di recente il Consiglio per i diritti umani dell’ONU ha notato che il 2022 è stato il sesto anno consecutivo in cui il numero di attacchi dei coloni israeliani contro i palestinesi in Cisgiordania è aumentato. L’attacco più noto e discusso rimane il rogo di una casa palestinese nel paese di Duma, nel 2015, in cui è morto un bambino di un anno e mezzo. L’avvocato di uno dei sospettati, che abita in una vicina colonia israeliana, è l’attuale ministro alla Pubblica sicurezza, Itamar Ben-Gvir.
Il governo Netanyahu non ha ancora spiegato nei dettagli come e quanto vorrebbe espandere le colonie, che ormai da anni continuano ad allargarsi col consenso a vari livelli delle autorità civili e politiche. Nel 2021 è stata pianificata la costruzione di 18.246 nuovi appartamenti nelle colonie, mentre per 3.784 dalla fase di pianificazione si è passati alla fase di bando dei lavori: sono numeri che aumentano progressivamente ormai da alcuni anni.