Gli affari della ’ndrangheta nel mondo
In Europa sono state scoperte società per il riciclo di denaro e in Sudamerica i rapporti con i narcos sono molto saldi
Giovedì nella provincia di Vibo Valentia sono state arrestate 11 persone sospettate di far parte del clan ’ndranghetista dei Bonavota, il cui capo, Pasquale Bonavota, è nell’elenco dei quattro ricercati italiani considerati di massima pericolosità. I membri del clan Bonavota, originario di Sant’Onofrio in provincia di Vibo Valentia, sono stati arrestati dal Ros (raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri coordinati dalla procura di Catanzaro. Sono accusati, tra le altre cose, di aver organizzato un sistema piuttosto elaborato con società in Ungheria, Cipro, Danimarca, Francia e Regno Unito per riciclare denaro proveniente da attività illecite e reinvestirlo, una volta ripulito, in immobili, aziende in crisi da rilevare, catene di ristoranti e locali.
Tra gli arrestati, con un mandato di cattura internazionale, c’è l’avvocata ungherese Edina Margit Szilagyi, 55 anni, nata a Budapest: risulta intestataria del 50% delle quote di una delle società create, secondo la procura di Catanzaro, per riciclare il cosiddetto denaro sporco, cioè proveniente da attività illecite.
Parlando degli arresti Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica a Catanzaro, ha detto che l’attività rilevata dalle indagini «si posiziona a un livello superiore rispetto all’articolo 416 bis, di una ’ndrangheta evoluta». L’articolo 416 bis del codice penale è quello che tratta dell’associazione di tipo mafioso. Secondo Gratteri, è emersa «la specializzazione di una cosca ’ndranghetista, i Bonavota, in un contesto mafioso più grande e che, partendo da un paese nel Vibonese, riesce ad avere un respiro internazionale agganciando professionisti che si trovano all’estero e riuscendo a interfacciarsi con più banche di vari paesi per far fare ai soldi tanti giri così da farne perdere le tracce, a ripulirli e a farli ritornare in Italia attraverso investimenti soprattutto nel settore immobiliare».
Le persone arrestate sono, secondo la procura di Catanzaro, prestanome utilizzati per creare finte società italiane, ungheresi e cipriote che hanno permesso di riciclare milioni di euro. I soldi passavano da una società all’altra diventando sempre più difficilmente rintracciabili. Per ora nel corso dell’indagine, che è la terza tranche dell’inchiesta chiamata “Rinascita Scott”, sono stati sequestrati tre milioni di euro.
L’inchiesta Rinascita Scott cominciò nel 2016: nel 2019 furono arrestate 334 persone, prevalentemente della zona del vibonese, accusate di far parte della ’ndrangheta. Tra loro c’erano molti membri del clan Bonavota. Il nome dell’inchiesta viene dal termine Rinascita, che Nicola Gratteri si augurava potesse avvenire in Calabria, e dal cognome di un agente dell’agenzia antidroga statunitense che trascorse otto anni in Italia, impegnato in indagini sulle organizzazione ’ndranghetiste e i loro collegamenti con gli Stati Uniti e con i cartelli di narcotrafficanti sudamericani. Scott morì in un incidente stradale.
Gratteri ha anche spiegato che nel corso dell’inchiesta è stata scoperta una truffa ai danni di un gruppo di imprenditori dell’Oman che aveva versato un milione di euro per acquisire il 30% delle quote di una società cui era riconducibile un complesso immobiliare a Budapest. Tra i truffati ci sarebbe anche un principe omanita. Ma, ha detto Gratteri, «noi avevamo fatto un capo di imputazione per truffa aggravata di 2 milioni di euro che la’ndrangheta ha realizzato ai danni dell’ex ministro dell’Oman. Siccome non abbiamo la denuncia della parte offesa, non possiamo contestare questo reato di truffa perché lo stesso con la riforma Cartabia è procedibile solo a querela di parte».
Il riferimento è a una discussa e contestata novità introdotta dalla riforma Cartabia, che ha fatto sì che su una serie di reati la procura non possa iniziare a indagare sua sponte qualora ne venga a conoscenza, ma solo se c’è una querela della persona offesa.
L’inchiesta della DDA di Catanzaro conferma ancora una volta la capacità della ’ndrangheta di espandersi e fare affari in molti paesi del mondo. Nel secondo rapporto semestrale del 2021 presentato dalla Dia, Direzione investigativa antimafia al Parlamento, si diceva:
Anche all’estero le cosche sono in grado di sfruttare tutte le opportunità offerte dai differenti sistemi normativi privilegiando l’insediamento in Stati meno attivi sul piano della cooperazione giudiziaria e ove risulta più agevole il reinvestimento dei capitali illeciti. Ulteriore indicatore dell’abilità dei sodalizi di espandere la propria sfera d’influenza oltre confine emerge dai lunghi periodi di latitanza trascorsi dai boss calabresi all’estero a riprova anche della capillare ramificazione della ’ndrangheta fuori dai confini nazionali.
Nel 2021 fu arrestato in Brasile un celebre capo ’ndranghetista, Rocco Morabito, fino ad allora inserito nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità. Morabito, ora estradato in Italia, era da tempo residente in Sudamerica (fu arrestato in Uruguay ma poi fuggì dal carcere di Montevideo) ed è stato un importante collegamento tra cosche calabresi e organizzazioni sudamericane del narcotraffico.
In Sudamerica la ’ndrangheta è presente ormai da molti anni: grazie all’alleanza con gruppi criminali locali, gestisce il traffico di droga verso l’Europa. Come spiega Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti italiani di criminalità organizzata, mentre la mafia siciliana negli anni Novanta subiva colpi pesanti con centinaia di arresti, la ’ndrangheta agiva sottotraccia approfittando tra l’altro di una trasformazione nel mercato della droga: l’enorme flusso di eroina destinato all’Europa fu sostituito da quello, altrettanto ingente, di cocaina. Di quel mercato la ’ndrangheta si assicurò una fetta molto importante con un ruolo dominante.
È soprattutto in Colombia che la ’ndrangheta fin dagli anni Novanta ha trovato solide alleanze. Dalla Colombia, come ha raccontato il sito giornalistico investigativo InSight Crime, la ’ndrangheta si è allargata in tutto il Sudamerica dove agisce alla pari delle organizzazioni autoctone. La prima alleanza fu voluta e sancita dal colombiano Salvatore Mancuso Gomez, di origine italiana (suo padre era di Sapri, in provincia di Salerno), conosciuto anche come Mono (“scimmia”, in spagnolo) Mancuso o Triple Cero (“triplo zero”).
Mancuso era il capo militare delle AUC, Autodefensas Unidas de Colombia, gruppo paramilitare di estrema destra che controllava allora ampie aree di territorio colombiano dove si produceva cocaina. Le AUC, come tutte le altre organizzazioni paramilitari colombiane, erano anche organizzazioni di narcotrafficanti. Mancuso, alla ricerca di soci per la distribuzione della cocaina in Europa e per il riciclaggio di enormi quantità di denaro accumulato con la vendita della droga, strinse accordi con l’italiano Giorgio Sale, imprenditore molisano, con molte attività in Sudamerica e soprattutto in Colombia.
Sale aveva parecchie amicizie importanti nel paese sudamericano, tra cui anche politici e giudici della corte suprema. Secondo InSight Crime, Sale oltre a mettere a disposizione società per il riciclaggio del denaro all’AUC gestiva il passaggio dei soldi dall’Europa alla Colombia per il pagamento della cocaina. Agli inizi degli anni Duemila molti cittadini italiani vennero arrestati all’aeroporto internazionale El Dorado di Bogotá mentre cercavano di entrare nel paese con cospicue somme di denaro.
L’accordo tra Sale e Mancuso fu uno dei primi di quel genere tra l’organizzazione criminale italiana e quella colombiana, e ha permesso negli anni alla ’ndrangheta, come è stato scritto in una relazione della commissione parlamentare italiana antimafia, «di creare un solido rapporto d’affari e di salire verso il controllo maggioritario dell’intero sistema legato al traffico di cocaina colombiana» in Europa.
Nel 2006, ricercato sia dalle autorità colombiane che dalla DEA statunitense, Mancuso si arrese e si costituì, confessando il suo ruolo nei massacri avvenuti in Colombia, nella corruzione e nel traffico di droga. Estradato negli Stati Uniti nel 2008, fece il nome di Giorgio Sale e di suo figlio, Cristian.
Il legame era però ormai stretto. Dopo la resa di Mancuso e la conseguente smobilitazione delle AUC, uno dei fondatori dell’organizzazione, Vicente Castaño, non accettò di consegnarsi alle autorità colombiane e fondò le Autodefensas Gaitanistas de Colombia – AGC, chiamate comunemente Urabeños o clan del Golfo, una delle più grandi potenze del narcotraffico sudamericano. Per la ’ndrangheta si trattò quindi di un semplice cambio di sigla. Gli affari non vennero più fatti con le AUC ma con le AGC.
Soprattutto, la ’ndrangheta aveva scelto come modello di business quello di servirsi di broker, cioè mediatori indipendenti come Giorgio Sale. In pratica a gestire gli affari non era un membro della cosca ma un intermediario che faceva da collegamento tra le due organizzazioni, quella italiana e quella colombiana.
Un nome importante tra i broker, come scrive il ricercatore olandese Douwe Den Held, era quello di Miro Rizvanovic Niemeier, tedesco nato in Bosnia e a lungo stabilitosi in Colombia: fu arrestato in Italia nel 2017 e assassinato in Colombia un anno dopo. Un altro nome è quello di Jaime Cano, colombiano, arrestato a Medellín nel 2021. Dalle indagini colombiane e italiane si sospetta che entrambi fossero intermediari indipendenti che fornivano un collegamento tra gli urabeños e ’ndrangheta.
Negli ultimi due anni gli urabeños sono stati indeboliti dalle azioni della magistratura colombiana. Il loro leader, Dario Antonio Usuga detto Otoniel, è stato arrestato ed estradato negli Stati Uniti nel 2021. Questo non sembra però preoccupare più di tanto la ’ndrangheta, che basa la sua attività, appunto, sui broker che hanno rapporti anche con altri produttori.
I clan della ’ndrangheta agiscono tra l’altro in maniera indipendente l’uno dall’altro. Come scrive ancora InSight Crime, «la struttura nel suo insieme è altamente resistente alla perdita anche di giocatori di alto livello». Allo stesso tempo ogni clan si avvale del nome e della fama della ’ndrangheta, considerato il gruppo più efficiente e affidabile nel mondo criminale.
L’utilizzo di broker consente ai membri più in vista dei clan di restare in disparte e di non esporsi personalmente. E se un broker viene arrestato, la cosca si rivolge a un altro: il flusso del commercio è così garantito. L’arresto di un broker molto importante come Nicola Assisi, avvenuto anch’esso in Brasile come quello di Morabito, è stato per i clan calabresi un brutto colpo a cui hanno però posto rimedio rivolgendosi ad altri intermediari.
La ’ndrangheta, attraverso i suoi accordi in Colombia e in altri paesi sudamericani, è in questo momento una delle organizzazioni di narcotrafficanti più forti del mondo. Come scrive Nicola Gratteri nel libro Fuori dai confini, scritto con Antonio Nicaso, «oggi la presenza della ’ndrangheta è stata accertata in almeno 34 paesi e costituisce una seria minaccia al pari dei cartelli messicani, delle triadi cinesi e delle organizzazioni criminali post sovietiche».
La ’ndrangheta ha costruito una rete criminale capillare. L’insediamento in Colombia non è il solo che garantisce ai clan il flusso di droga verso l’Europa. In Brasile sono forti i legami con l’organizzazione Primeiro Comando da Capital. Ma ci sono basi logistiche della ’ndrangheta anche in Bolivia, Argentina, Colombia, Ecuador, Uruguay, Perù, San Salvador, Costa Rica. Gli interessi dell’organizzazione spaziano ormai in molti settori, e i soldi realizzati con il traffico di droga dal Sudamerica vengono ripuliti e riciclati grazie a società fittizie presenti in tutta Europa come appunto quelle scoperte in Ungheria, Cipro, Francia, Danimarca e Regno Unito.
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