Il governo non sa ancora dove mettere le scorie nucleari
La mappa delle aree idonee a costruire un grande deposito di rifiuti radioattivi è in ritardo nonostante dieci anni di lavoro e confronti
Mercoledì 25 gennaio il sottosegretario al ministero dell’Ambiente Claudio Barbaro ha confermato che l’individuazione di un luogo adatto a costruire un unico grande deposito nazionale di scorie nucleari è in ritardo. Il governo guidato da Mario Draghi aveva previsto di scegliere l’area entro la fine del 2023, ma per come sono andate le cose negli ultimi mesi non sarà possibile rispettare le scadenze di una procedura già compromessa da diversi intoppi.
La costruzione di un unico grande deposito per custodire le scorie nucleari è importante perché, nonostante in Italia non ci siano centrali per via delle decisioni prese dai governi in seguito al referendum del 1987, molte attività continuano a produrre rifiuti radioattivi che al momento vengono custoditi in venti depositi. I rifiuti sono in parte vecchie scorie delle centrali spente e in fase di dismissione, in parte scarti di tante altre attività come la medicina nucleare, campo in cui vengono utilizzate sostanze radioattive a scopo diagnostico, terapeutico e di ricerca. I rifiuti radioattivi vengono prodotti anche dall’industria.
Al momento in Italia i centri che producono o custodiscono rifiuti radioattivi sono ex centrali nucleari (4 centrali e 4 impianti del ciclo del combustibile), centri di ricerca nucleare e centri di gestione di rifiuti industriali. Le ex centrali nucleari, attive fino alla fine degli anni Ottanta, sono a Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta). Ci sono poi un impianto di “Fabbricazioni Nucleari” a Bosco Marengo (Alessandria) e tre impianti di ricerca sul ciclo del combustibile di Saluggia (Vercelli), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera). In fase di dismissione c’è anche ISPRA-1 nel complesso del Centro Comune di Ricerca (CCR) della Commissione Europea di Ispra, in provincia di Varese.
Dello smantellamento delle vecchie centrali, il cosiddetto decommissioning, e del deposito nazionale di scorie nucleari si occupa un’azienda statale, Sogin, commissariata la scorsa estate dal governo Draghi. Il problema non è tanto costruire il deposito, perché i fondi sono garantiti dallo Stato, ma scegliere il luogo adatto a farlo. Negli ultimi anni Sogin ha commissionato studi molto approfonditi e promosso seminari in quasi tutte le regioni per capire qual è il luogo migliore.
Uno dei passaggi più importanti di questa complessa procedura è avvenuto nella notte il 4 e il 5 gennaio 2021, con la pubblicazione di una mappa delle 67 aree potenzialmente idonee ad ospitare il nuovo deposito. Era pronta dal 2015, ma fino a quel momento era sempre rimasta coperta da segreto. La mappa dei luoghi individuati da Sogin si chiama CNAPI: Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico.
I tecnici di Sogin hanno scelto le aree potenzialmente idonee per esclusione, incrociando i dati morfologici per escludere i luoghi in cui potrebbero esserci situazioni critiche come l’alta densità abitativa, il rischio sismico e idrogeologico, ma anche la presenza di siti Unesco o aree protette. Altri due criteri importanti sono l’altitudine, che deve essere sotto i 700 metri sul livello del mare, e l’esclusione di tutte le aree caratterizzate da versanti con pendenza superiore al 10%.
Tra le 67 aree totali ci sono diversi livelli di idoneità. Quelle più idonee sono 12 e si trovano in provincia di Torino (Rondissone-Mazze-Caluso, Carmagnola), Alessandria (Alessandria-Castelletto Monferrato-Quargnento, Fubine-Quargnento, Alessandria-Oviglio, Bosco Marengo-Frugarolo, Bosco Marengo-Novi Ligure) e Viterbo (due aree a Montalto di Castro, Canino-Montalto di Castro, Corchiano-Vignanello, Corchiano). Tutte le altre aree – in Toscana, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna – sono ritenute idonee, ma con una valutazione inferiore rispetto alle prime dodici.
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Dopo aver raccolto i pareri e le osservazioni di regioni e comuni individuati nella CNAPI, Sogin ha lavorato a una versione aggiornata della mappa, chiamata CNAI, la carta nazionale delle aree idonee e quindi non più “potenzialmente idonee”.
La mappa aggiornata è stata inviata al ministero della Transizione ecologica lo scorso 15 marzo: come era accaduto per la CNAPI fino all’inizio del 2021, la mappa non è stata ancora pubblicata. Del ritardo aveva accennato all’inizio di gennaio il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. Mercoledì lo ha confermato il sottosegretario Barbaro che ha ricostruito con precisione tutti gli ultimi passaggi.
La mappa è bloccata per via di alcune integrazioni richieste dall’ISIN, l’ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare, che deve approvarla prima della pubblicazione. L’11 novembre ISIN ha chiesto a Sogin di chiarire alcuni criteri con cui Sogin ha escluso alcuni luoghi potenzialmente idonei. Quindi, ha spiegato Barbaro, il 30 dicembre il governo ha chiesto a Sogin di trasmettere a ISIN una proposta di mappa conforme alle richieste.
L’incertezza più grande riguarda, però, l’individuazione del luogo attesa entro la fine del 2023. Sogin spera che qualche comune si dichiari disponibile a ospitare il deposito nazionale, cioè spera in un’autocandidatura. Finora gli incentivi promessi – tra cui un fondo di compensazione da 15 milioni di euro – non sono stati sufficienti a suscitare l’interesse degli enti locali. Anzi, molti sono piuttosto scontenti anche solo di essere stati inseriti nella mappa delle aree potenzialmente idonee.
Tra i benefici del deposito nazionale, Sogin ha stimato anche una ricaduta occupazionale di oltre 4.000 persone (di cui 2.000 diretti fra interni ed esterni, 1.200 indiretti e mille di indotto) all’anno per i quattro anni di costruzione. Nella fase di esercizio, della durata di 40 anni, l’occupazione diretta è stimata mediamente in circa 700 addetti, fra interni ed esterni, con un indotto che può incrementare l’occupazione fino a circa mille persone. Insieme al deposito, inoltre, verrà realizzato anche un parco tecnologico con un centro di ricerca per studiare nuove tecniche di smantellamento delle centrali nucleari, gestione dei rifiuti radioattivi e salvaguardia ambientale.
Barbaro è stato piuttosto cauto: «Ipotizzando l’esito positivo di tutte le fasi procedurali, particolarmente complesse e dipendenti da un insieme di fattori – quale l’acquisizione di manifesto interesse ed autocandidatura da parte dei comuni incidenti nelle aree idonee ad ospitare il Deposito – e al netto di eventuali ricorsi, l’autorizzazione unica del deposito nazionale potrebbe avvenire nel 2026 e la sua messa in esercizio nel 2030».
I possibili ritardi sono già stati messi in conto. Se nessuna regione o comune si farà avanti, spetterà al governo indicare il luogo adatto con inevitabili conseguenze politiche dopo anni in cui si è discusso di questioni tecniche. Non è una scelta semplice: Barbaro ha detto che ci potrà essere un ulteriore anno di ritardo rispetto alle previsioni – quindi l’autorizzazione entro il 2027 e l’operatività del deposito nel 2031 – sempre che i lavori si concludano entro i quattro anni previsti inizialmente.
Fino a quando non entrerà in funzione il deposito nazionale, la gestione degli attuali depositi costa moltissimo a Sogin e quindi allo stato. La dismissione delle vecchie centrali e lo smaltimento delle scorie viene finanziata con parte delle bollette elettriche. Dal 2001 sono stati pagati in totale 3,7 miliardi di euro, ma la maggior parte di questi fondi sono stati spesi per la manutenzione degli attuali depositi (1,8 miliardi di euro) e per il trattamento dei rifiuti radioattivi in Francia e nel Regno Unito (1,2 miliardi di euro).
All’estero, questo problema viene gestito con il cosiddetto riprocessamento, una serie di processi chimici che hanno il compito di separare tutti i componenti del combustibile nucleare, quindi soprattutto uranio e plutonio. Per farlo c’è bisogno di impianti all’avanguardia che consentono di trattare i rifiuti in sicurezza, come quelli che ci sono in Francia e Regno Unito oggi.