La Turchia ha cambiato la sua politica estera
Dopo anni di dispute con i suoi vicini arabi, Erdogan sta cercando di ricucire i rapporti, accettando grossi compromessi
Nell’ultimo decennio la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan è stata estremamente litigiosa. Per lunghi periodi non ha avuto ambasciatori in Egitto e in Siria, e l’ambasciatore in Israele è tornato al suo posto soltanto pochi mesi fa, dopo quattro anni d’assenza. Il governo turco ha avuto contatti complicati e frammentati con vari paesi mediterranei – dalla Libia alla Grecia, con cui il rapporto è conflittuale da sempre – e ha litigato anche con vari paesi del Golfo Persico, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Ha sviluppato infine rapporti sempre più difficili con l’Unione Europea.
Questa politica estera litigiosa è stata il frutto di una precisa impostazione data da Erdogan all’azione diplomatica, che aveva come obiettivo quello di aumentare l’influenza della Turchia nel Mediterraneo e nel mondo islamico. Il risultato però non è stato quello che Erdogan si aspettava e negli ultimi mesi la politica estera turca è cambiata del tutto: Erdogan ha riallacciato il dialogo con i leader di paesi con cui non aveva rapporti da anni, ha ripristinato relazioni diplomatiche e ristabilito accordi commerciali. Lo ha fatto di volta in volta per rispondere a specifiche necessità economiche e politiche, ma il risultato complessivo è stato un totale cambiamento della politica estera della Turchia, al punto che molti analisti hanno parlato di un “reset”.
Negli ultimi dieci anni, la politica estera della Turchia è stata orientata al sostegno dell’“islam politico”, un termine piuttosto lasco con cui si intendono i movimenti, le forze politiche e i partiti che intendono portare all’interno della società la dottrina islamica, in maniere a volte democratiche e a volte no. Il Partito Giustizia e Sviluppo di Erdogan (AKP nell’acronimo turco) è uno di questi, così come i Fratelli Musulmani, un grosso movimento islamista internazionale che Erdogan ha sempre cercato di sostenere.
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Questo significa, per esempio, che dopo la cosiddetta “primavera araba” di oltre dieci anni fa, quando in molti paesi del nord Africa e del Medio Oriente le rivolte popolari fecero cadere i vecchi regimi autoritari e laici che governavano dai tempi della Guerra Fredda, la Turchia cercò di fare in modo che al loro posto salissero al potere leader islamisti. Successe per esempio in Egitto, dove dopo la caduta del dittatore Hosni Mubarak nel 2012 era stato eletto democraticamente Mohammed Morsi, un esponente dei Fratelli Musulmani. Erdogan sperò di stabilire con l’Egitto di Morsi un’alleanza duratura, ma il presidente egiziano fu destituito appena un anno dopo, da un colpo di stato militare guidato dal generale Abdel Fattah al Sisi, che è ancora al potere.
Da allora, i tentativi della Turchia di Erdogan di sostenere movimenti e governi islamisti nella regione sono sempre stati un fallimento, o comunque insoddisfacenti. In Siria, Erdogan si è opposto strenuamente al regime di Bashar al Assad, ma senza mai riuscire a spodestarlo davvero e finendo per infilarsi piuttosto malamente nella guerra civile siriana.
Durante la guerra civile in Libia, la Turchia ha sostenuto il governo di Tripoli contro le forze del maresciallo Khalifa Haftar, a capo dell’altro governo, quello di Tubruk (Tripoli era sostenuta anche da gran parte dell’Occidente e della comunità internazionale). Qui l’azione di Erdogan ha avuto in un certo senso successo, perché gli aiuti militari turchi hanno contribuito in maniera fondamentale all’indebolimento di Haftar. Ma la situazione politica e militare in Libia è così instabile e frammentaria che la Turchia ha tratto vantaggi piuttosto miseri dal suo intervento, almeno per ora.
Negli anni Erdogan si è fatto nemici anche nel Golfo Persico, dove i Fratelli Musulmani da lui sostenuti sono molto malvisti, perché considerati una minaccia ai governi delle monarchie assolute che dominano la regione. In Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, i Fratelli Musulmani sono ritenuti un’organizzazione terroristica.
Ci sono poi stati alcuni eventi singoli che hanno peggiorato le relazioni tra la Turchia e altri paesi della regione. L’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, per esempio, ha provocato una crisi piuttosto seria tra Turchia e Arabia Saudita. Al tempo stesso, i rapporti tra Turchia e Israele sono da tempo terribilmente complicati, sia per lo storico sostegno della Turchia ad Hamas (l’organizzazione islamista che controlla la Striscia di Gaza, vicina ai Fratelli Musulmani) sia per alcuni incidenti specifici, come il caso della nave Mavi Marmara, nel 2010, o la guerra tra Israele e Hamas del 2018.
Tutte queste circostanze, dettate in buona parte da scelte infelici o sfortunate della dirigenza turca, hanno fatto sì che la Turchia negli ultimi anni si sia trovata sempre più isolata a livello internazionale. Anche i rapporti con l’Unione Europea e con la NATO, di cui la Turchia è uno dei paesi membri, sono sempre più difficili e resi complicati dal crescente autoritarismo di Erdogan.
Per questo, da circa un anno la Turchia sta attuando quello che è stato definito un “reset” in politica estera. Erdogan ha iniziato ad adottare una politica più pragmatica, che ha l’obiettivo di favorire gli interessi nazionali della Turchia.
A novembre, per la prima volta dal colpo di stato in Egitto, Erdogan si è incontrato con il dittatore al Sisi, quello che aveva destituito il suo alleato Morsi, a margine dei Mondiali di calcio in Qatar. La scorsa estate Mohammed bin Salman, il principe ereditario saudita credibilmente coinvolto nell’omicidio di Khashoggi, è andato in Turchia in visita ufficiale, ed Erdogan ha parlato di una «nuova era» per le relazioni tra i due paesi. Ad agosto del 2022, per la prima volta dal 2018, Israele e Turchia hanno ristabilito piene relazioni diplomatiche, e gli ambasciatori dei due paesi sono tornati rispettivamente ad Ankara e a Tel Aviv, dopo quattro anni di assenza.
Un altro riavvicinamento notevole è quello con la Siria, che è soltanto agli inizi ma è molto importante, anche considerando che la Turchia sta tuttora occupando un’ampia porzione di territorio nella Siria del nord.
Questa politica estera decisamente più accomodante è dettata in parte dalla necessità.
La Turchia si trova in una situazione economica molto peculiare, a causa di un’inflazione altissima e della decisione di Erdogan di non alzare i tassi d’interesse per cercare di contrastarla. Per evitare il crollo della lira turca, Erdogan negli ultimi mesi ha cercato di ottenere ingenti investimenti esteri, e li ha trovati nei paesi del Golfo: sia l’Arabia Saudita sia gli Emirati Arabi Uniti hanno promesso di sostenere l’economia turca con miliardi di dollari.
La Turchia, inoltre, è nel pieno di una disputa con la Grecia per il controllo delle ampie riserve gasifere che si trovano nel Mediterraneo orientale, e che sono condivise anche da Egitto e Israele. Finora questi due paesi avevano sostenuto la Grecia in vari piani di esplorazione ed esportazione del gas, ma Erdogan spera che il riavvicinamento diplomatico modifichi gli equilibri energetici della regione.
Questa politica estera più pragmatica è avvenuta a discapito del sostegno all’islam politico. Per esempio, la Turchia ha di fatto lasciato cadere ogni pretesa di processare gli assassini di Jamal Khashoggi, anche se Erdogan aveva promesso che avrebbe fatto giustizia sull’omicidio. Il riavvicinamento a Israele è costato a Erdogan alcune critiche, e potrebbe richiedere dei compromessi notevoli anche la ripresa dei rapporti con Egitto e soprattutto con la Siria.