La strana ossessione per i manghi nella Cina di Mao Zedong
Divennero quasi per caso un simbolo della Rivoluzione culturale e uno strumento formidabile della propaganda del dittatore cinese
Per circa un anno e mezzo, a partire dall’estate del 1968, nella Cina di Mao Zedong si sviluppò uno strano culto ossessivo per il mango, un frutto che fino a quel momento quasi nessuno nel paese aveva mai visto o conosciuto. Per mesi la propaganda di Mao, che governava la Cina in maniera autoritaria, fu invasa da una bizzarra iconografia del mango, che cominciò a comparire praticamente ovunque e a essere venerato in molti modi da grandissima parte della popolazione, in alcuni casi spontaneamente e in altri sotto la costrizione del governo.
Mao sfruttò a suo vantaggio la dimensione assunta dal culto per il mango e ne fece un simbolo di un momento fondamentale della storia cinese di quegli anni: l’ultima fase della Rivoluzione culturale, cioè il grande movimento di rivolta, persecuzioni ed epurazione interna volute da Mao tra il 1966 e il 1976 per preservare l’ideologia rivoluzionaria ed eliminare ogni elemento borghese e capitalista nel governo, nell’economia e nella società cinese (e contestualmente per eliminare i nemici interni di Mao, o tutte le persone che lui giudicò pericolose per il suo potere).
La Rivoluzione culturale provocò enormi sofferenze, distrusse l’economia e causò un numero imprecisato di morti, che gli storici stimano tra le centinaia di migliaia e i milioni: è considerata uno dei momenti più terribili della storia cinese moderna, e dopo la morte di Mao fu condannata dallo stesso Partito comunista.
Per realizzare la Rivoluzione culturale, nei primi anni dopo il 1966 Mao si servì ampiamente delle cosiddette Guardie Rosse, un movimento di massa paramilitare composto perlopiù da studenti di scuole superiori e università. Ancora oggi le immagini delle Guardie Rosse rimangono tra le più emblematiche di quel periodo: sono quelle in cui si vedono masse di studenti in uniforme che impugnano fieramente un libretto aperto con la foto di Mao, il cosiddetto “libretto rosso”, un’antologia di aforismi tratti dai discorsi e dagli scritti di Mao che in quegli anni veniva distribuita alle masse per diffondere e imporre l’ideologia del leader.
La Rivoluzione culturale fu anche il momento massimo del culto della personalità nei confronti di Mao, che in alcuni contesti era adorato come un essere sovraumano.
Le Guardie Rosse sostenevano con un certo vigore il pensiero di Mao, ma soprattutto si convinsero che il loro compito fosse metterlo in pratica nella società cinese, e che per farlo fosse necessario ricorrere alla violenza. Di fatto divennero una sorta di braccio armato di Mao e del suo piano per estirpare la borghesia e il capitalismo dalla Cina, e il leader ne legittimò le azioni violente, incentivandole apertamente.
Cominciarono a prendere ordini direttamente dall’esercito e a fare campagne di reclutamento: inizialmente potevano farne parte solo le categorie di giovani che venivano definite “i cinque tipi di rosso”, cioè i figli degli operai, dei contadini poveri, dei quadri del Partito Comunista, dei martiri e dei soldati rivoluzionari. Poi i criteri divennero meno stringenti, favorendo però la creazione di fazioni interne in competizione tra loro.
Le Guardie Rosse saccheggiarono templi e tombe, comprese quelle della dinastia reale e il tempio di Confucio, bruciarono libri nelle strade, assalirono case e uccisero un numero imprecisato di persone (si parla di centinaia di migliaia) accusate di portare avanti i valori capitalisti. La loro azione violenta si concentrò tra il 1966 e l’estate del 1968, quando le fazioni e la caotica organizzazione interna le resero difficilmente controllabili nelle loro violenze, e Mao decise che era arrivato il momento di fermarle. È a questo punto della storia che intervenne il mango.
Per sedare le Guardie Rosse, Mao cominciò a inviare nelle università e nelle fabbriche squadre di operai armate di libretti rossi, che in sostanza avevano il compito di far capire che il leader voleva che fosse ristabilito l’ordine: il messaggio era che dopo le violenze dovesse realmente cominciare l’era del potere agli operai. L’evento più emblematico di questa fase si ebbe nell’agosto del 1968 all’Università di Tsinghua a Pechino, dove Mao inviò 30mila operai: inizialmente furono attaccati dagli studenti delle Guardie Rosse, alcuni di loro furono uccisi e centinaia feriti, ma infine riuscirono nel loro intento, anche grazie al sostegno dell’esercito del partito.
Per ringraziare gli operai del loro lavoro, Mao gli fece inviare in dono una cassa con circa 40 manghi, un po’ per caso: nei giorni precedenti era arrivata in Cina una delegazione del governo pachistano, guidata dal ministro degli Esteri, che per omaggiare Mao si era presentata con quella cassa di manghi. La stranezza di quei frutti, che nessuno degli operai aveva mai visto prima, suscitò enorme curiosità e fascino.
La storica dell’arte Alfreda Murck, in un saggio che racconta il ruolo dei manghi nella Rivoluzione culturale, ha scritto che «i lavoratori stavano in piedi tutta la notte per contemplarli, odorarli, accarezzarli». Cominciarono poi a discutere di cosa farne: era un regalo del leader Mao e andava maneggiato con una certa cura. Molti decisero di conservarli, invece che mangiarli, e alcuni vennero messi persino sotto formalina, una sostanza conservante, per evitare che deperissero.
Insieme ai manghi Mao aveva inviato agli operai un breve testo con quella che veniva definita una “alta direttiva”, in cui comunicava che da quel momento in poi la classe operaia avrebbe dovuto esercitare la leadership in tutto. I manghi divennero così in breve tempo più che semplici frutti: gli operai li percepivano come una manifestazione della volontà di Mao, e cominciarono a venerarli.
Alcuni sostengono che a Mao i manghi non piacessero, e che anche per questo avesse deciso di usarli come “regalo riciclato”: in Cina però la pratica di regalare a qualcun altro un regalo che si è ricevuto – piuttosto malvista nei paesi occidentali – è percepita come molto generosa, e tradizionalmente nobilita sia chi ha riusato il regalo sia chi lo riceve. Questo contribuì a renderli ancora più venerati: non rappresentavano semplicemente la volontà di Mao, ma anche la sua rinuncia a un dono per dare il potere agli operai.
È probabile che nelle intenzioni iniziali di Mao non ci fosse affatto quella di produrre un culto intorno ai manghi, ma quando capì che stava succedendo cominciò a sfruttarlo a suo favore: inviò manghi come regali alle fabbriche di tutta la Cina, accompagnati da messaggi che inneggiavano al potere operaio e da ammonimenti affinché venissero trattati con un certo riguardo.
Chi li mangiava ne faceva poi riproduzioni in cera, che divennero comunissime ovunque e venivano diffuse dagli stessi operai a chi ancora non ne aveva. Alcuni presero l’abitudine di far bollire in acqua le bucce di mango, una volta che il frutto era marcito, e di trattare come una sorta di “brodo sacro” la bevanda che ne veniva fuori: la medicina cinese prevede spesso ingredienti bolliti, perciò non ci volle molto prima che a quella bevanda venissero attribuite proprietà curative e rinvigorenti.
I manghi erano ovunque: venivano esposti in teche di vetro e disegnati su oggetti di qualsiasi tipo. Il governo organizzava visite obbligatorie per gli operai alle mostre sui manghi e si diffuse una celebre poesia popolare che celebrava il “mango d’oro”, visto come un’emanazione del presidente: «Vedere quel mango d’oro/era come vedere il grande leader presidente Mao. Stare accanto a quel mango d’oro/era come stare accanto al presidente Mao!».
Alcuni hanno citato il fatto che nella mitologia cinese ci siano diversi frutti sacri come possibile spiegazione dell’isteria collettiva per il mango, anche se è davvero difficile capire quanti e quali fattori abbiano davvero contribuito alla diffusione del culto. Da un certo momento in poi però chi andava contro il culto del mango e sosteneva che fosse un frutto normale veniva severamente punito, e in alcuni casi anche ucciso.
Dopo circa un anno e mezzo, per ragioni difficili da individuare, la venerazione per il mango semplicemente si affievolì quasi all’improvviso, e il frutto sparì anche dalla propaganda ufficiale, forse perché Mao capì che la stagione in cui sfruttare a suo vantaggio quella situazione si era esaurita. Per chi visse in quegli anni però il mango è ancora oggi uno dei simboli della Rivoluzione culturale di Mao.
Anche i manghi di cera, così diffusi in quel periodo, negli anni sono pian piano spariti, perlopiù usati come candele da chi li aveva in casa. I cimeli dell’epoca che raffigurano manghi oggi non sono più molto comuni, ma si possono ancora ritrovare in certi mercatini delle pulci in Cina.