Il biathlon ha fatto centro
Lo sport che alterna sci di fondo e tiro a segno sta avendo sempre più successo, e non era per niente scontato
di Gabriele Gargantini
A guardarli da fuori, pensando un po’ alle loro regole, molti sport sono strani, talvolta ai limiti dell’assurdo. Pochi lo sembrano però più del biathlon, uno sport invernale che alterna lo sci di fondo al tiro a segno con la carabina, da terra e in piedi, che incastra due attività quasi antitetiche: lo sforzo fisico estremo, con il cuore a pieni giri e i muscoli al massimo della fatica, e il tiro di precisione. Erede della pratica competitiva nota come pattuglia militare, il biathlon avrebbe potuto essere, nel 2023, uno sport anacronistico, astruso e ignorato dai più, marginale e magari perfino ritenuto insensato, come può esserlo l’unione del ciclismo col tiro con l’arco.
E invece, anche se relativamente di nicchia, è uno degli sport di maggior successo tra quelli invernali. Il biathlon è infatti in costante crescita da anni, spesso presentato come un modello positivo e da imitare, che fa ottimi ascolti e che grazie ai suoi eventi più importanti – come la recente tappa di Coppa del Mondo ad Anterselva, in provincia di Bolzano – richiama decine di migliaia di spettatori paganti.
Gran parte del merito per questo successo sta nel modo in cui la International Biathlon Union, l’organizzazione internazionale che ne cura attività e interessi, ha saputo gestire, adattare, promuovere e vendere il biathlon, in particolare negli ultimi vent’anni.
In ogni gara di biathlon si alternano lo sci di fondo fatto con tecnica skating, la più moderna e veloce, e almeno due sessioni di tiri al poligono: in ognuna con un fucile calibro 22 si devono sparare cinque colpi verso bersagli a cinquanta metri di distanza. Per i tiri in piedi, in cui ci sono più fattori a complicare la mira, ogni bersaglio ha un diametro di 11,5 centimetri. Per quelli a terra, il diametro è di 4,5 centimetri: come stare al centro di un campo da calcio e mirare un mandarino messo sulla linea di porta.
Quando si scia lo si fa con in spalla il fucile, che pesa non meno di tre chili e mezzo; quando si spara, anche da terra, lo si fa con gli sci sempre ai piedi: perché è importante centrare i bersagli, ma è allo stesso modo determinante farlo il più in fretta possibile.
Esistono varie distanze e formati di gara: per esempio le gare sprint (di fatto delle prove a cronometro), le gare a inseguimento (in cui si parte uno dopo l’altro in base al tempo ottenuto nelle gare sprint) e le mass start, dove si parte in linea, tutti insieme. Ci sono anche gare a staffetta e a staffetta mista, con maschi e femmine che gareggiano insieme.
Ci sono regole un po’ diverse per le staffette e per le gare “individuali” (in cui per ogni errore al poligono si somma un minuto al tempo finale), ma nella maggior parte delle prove del biathlon la regola è semplice e sportivamente spietata: appena dopo il poligono di tiro, in cui in certe gare ogni atleta deve fermarsi quattro volte, c’è un anello di 150 metri e per ogni errore fatto al poligono si deve fare un giro di penalità su quell’anello, cosa che in genere comporta la perdita di poco meno di mezzo minuto.
Nei casi migliori qualche atleta di primissimo livello riesce a finire una gara senza errori; più spesso è nell’ordine delle cose che ne facciano tutti almeno un paio, anche chi alla fine vince. Può insomma capitare che qualcuno arrivi all’ultimo poligono con venti secondi di vantaggio sul secondo e che però sbagli almeno un colpo degli ultimi cinque, dovendo così fare l’anello punitivo mentre intanto si vede superare dal secondo, che invece non ha fatto nemmeno un errore.
Non è nemmeno inconsueto che i migliori incappino in giornate storte, talvolta persino interi mesi o stagioni, perché sono tantissime le cose che possono far sbagliare un tiro, e poi un altro, e un altro ancora, e così via. Molto più che in altre discipline sportive, può succedere che un giorno si vinca e il giorno dopo si arrivi cinquantesimo, oppure che in un minuto si passi dall’essere primo all’essere quinto, e viceversa. E in mezzo, comunque, c’è sempre da fare sci di fondo, un’attività particolarmente provante.
Prima di diventare sport, il biathlon è stato una pratica ancestrale (nato, per certi versi, quando qualcuno, da qualche parte tra la Mongolia e la Scandinavia, usò un arco con ai piedi qualcosa di simile a degli sci) e poi un’attività legata al contesto militare.
Dalla caccia, quella combinazione di attività anaerobica e tiro di precisione si spostò insomma alla guerra e da lì, già a partire dal Diciottesimo secolo, a un più pacifico confronto sportivo tra un reggimento svedese e uno norvegese. Fu più o meno in quella forma che nel 1924 la pratica allora nota come pattuglia militare arrivò sulle Alpi francesi di Chamonix in quelle che sono considerate le prime Olimpiadi invernali.
Oltre allo sci di fondo e al tiro a segno, la pattuglia militare prevedeva un’attività di pattugliamento a squadre, in uniforme militare, lungo un percorso di 30 chilometri. Tutte le squadre erano composte perlopiù da militari e a vincere la gara, con un tempo di quattro ore e nonostante una piuttosto scarsa tradizione militare, fu la Svizzera.
Nelle successive Olimpiadi la pattuglia militare fu degradata a disciplina dimostrativa e, fatta eccezione per qualche evento paramilitare di una manciata di paesi, quella pratica fu tendenzialmente dimenticata. Tornò con una nuova forma e il nome biathlon negli anni Cinquanta, quando finì sotto la giurisdizione della UIMPB (l’Unione internazionale del pentathlon moderno e biathlon) con il pentathlon moderno, lo sport olimpico inventato da Pierre de Coubertin che univa nuoto, scherma, corsa, tiro a segno ed equitazione.
Nel 1960 il biathlon arrivò alle Olimpiadi invernali, da cui non se ne è più andato, e in cui si è fatto sempre più spazio per numero di eventi, atleti e atlete, le cui gare olimpiche furono introdotte nel 1992. Nella seconda metà del Novecento il biathlon cambiò fucili (prima erano più ingombranti e con un calibro maggiore) e anche i bersagli: all’inizio potevano essere fino a 250 metri di distanza e a seconda dei posti e dei periodi erano dischi o piatti di carta o di vetro, oppure semplici palloncini.
Ancora cinquant’anni fa, prima delle Olimpiadi del 1972, le prime con l’Italia, il Corriere della Sera scrisse che «i biathlonisti» italiani erano «una trentina, non di più, e tutti militari», e aggiunse: «A Buffalo Bill aggiungete Franco Nones [vincitore del primo oro olimpico italiano nel fondo] ed avrete il campione del mondo di biathlon».
Nella seconda metà degli anni Settanta i fucili, i bersagli e la distanza tra gli uni e gli altri iniziarono a somigliare parecchio a come sono ancora oggi. Alle gare individuali sui 20 chilometri (in genere vinte dai sovietici e più di rado dai norvegesi) si aggiunsero inoltre gare più corte, in cui anziché essere in minuti le penalità erano in giri di 150 metri.
Sempre alla fine degli anni Settanta, il biathlon creò anche la sua Coppa del Mondo, che dal 1982 esiste anche in versione femminile. Nella maggior parte dei casi e dei paesi il biathlon restò più che altro uno sport invernale di nicchia, tra il bizzarro e l’affascinante, però non di facilissima comprensione per chi si trovava a seguirlo per le prime volte. Spesso era considerato perfino una sorta di “fratello minore” del pentathlon moderno, che nonostante le origini decoubertiniane, non è che fosse il più popolare tra gli sport.
Negli anni Novanta il biathlon lasciò la UIMPB e fondò la IBU, l’Unione internazionale del biathlon. Mentre sci alpino, snowboard, sci di fondo e perfino salto con gli sci stanno all’interno della FIS — la Federazione internazionale sci e snowboard — da tempo l’IBU fa le cose per conto suo, e questo ha fatto tutta la differenza del mondo.
Christian Winkler, da cinque anni direttore della comunicazione per l’IBU, spiega che per quella nuova federazione «la spina dorsale di tutto fu la collaborazione con i partner televisivi». Per loro, e con loro, il biathlon cambiò anzitutto i formati di gara. Prima, dice Winkler, c’erano troppo spesso «gara sulle lunghe distanze, di 15 o 20 chilometri, con i biatleti che sciavano in qualche foresta e solo ogni tanto si riaffacciavano al poligono»: che è il momento di «massima emozione», quello più unico e interessante.
Furono introdotte gare a inseguimento di immediata comprensione, con il primo che parte e gli altri che letteralmente lo inseguono, e poi gare sprint, più veloci e affini alle esigenze televisive di sintesi e velocità, e nelle quali ogni errore al poligono diventa ancora più determinante. Winkler è anche piuttosto orgoglioso di come già vent’anni fa il biathlon introdusse gare di staffetta mista, con maschi e femmine in gara insieme: qualcosa che ora «vogliono fare tutti» (anche perché così invita a fare il Comitato olimpico internazionale), ma che al tempo era piuttosto inconsueto. Al successo del biathlon hanno contribuito anche tecnologie sempre più efficaci nel mostrare all’istante, sia dal vivo che in televisione, quanti bersagli vengono colpiti da ogni atleta.
Winkler dice «quando arrivi con qualcosa di nuovo c’è sempre interesse» e che «la famiglia del biathlon» (una locuzione molto usata nell’ambiente) ha lavorato negli anni per «integrare tutti i suoi stakeholders, per introdurre novità senza però stupire o sorprendere» nessuno degli interessati. «Se non riusciamo a mettere tutti d’accordo, perlomeno cerchiamo di negoziare le nostre decisioni».
Gestendo da solo uno sport soltanto, cambiando formati, scrivendo regole e organizzando calendari in autonomia, il biathlon ha potuto impacchettare un prodotto fatto per le televisioni, peraltro controllando direttamente le concessioni per i diritti televisivi.
Il successo del biathlon e la sua costante crescita nel corso degli ultimi anni si possono misurare da molti punti di vista. Il primo sta nella qualità dei suoi sponsor: da oltre dieci anni il principale è BMW, seguito da altre importanti aziende, non solo dello sci. Insieme con il suo partner Infront e grazie ai diritti televisivi che gestisce insieme con la European Broadcasting Union (secondo cui negli ultimi due decenni il biathlon ha avuto «una crescita dirompente in termini di popolarità e spettatori, unica tra gli sport invernali»), il biathlon può permettersi di selezionare i suoi sponsor e, secondo un’analisi del sito ISPO, «enfatizzare il concetto di esclusività dei partner che si sceglie».
Il biathlon fa i suoi numeri migliori in Germania, dove è lo sport invernale più seguito e dove arriva addirittura a essere il secondo più seguito in assoluto, ovviamente dopo il calcio. In Germania gli spettatori televisivi delle principali gare di biathlon sono nell’ordine dei milioni e da un paio di decenni a Gelsenkirchen, nel grande stadio coperto dello Schalke 04, viene organizzata una seguitissima gara a coppie di biathlon, davanti a decine di migliaia di spettatori. Già cinque anni fa, ISPO scriveva che per il mercato tedesco il biathlon era «la quintessenza della garanzia di ottimi ascolti televisivi» e, visti i costi parecchio più contenuti per i suoi diritti, «addirittura più profittevole del calcio».
Non è però solo una faccenda tedesca. Il biathlon è seguitissimo in Scandinavia e in crescita anche in molti paesi dell’arco alpino, dalla Francia alla Slovenia. Le gare di Coppa del Mondo sono sempre seguite dal vivo da migliaia di spettatori: ad Anterselva, l’unica tappa italiana, che sarà sede delle gare di biathlon delle Olimpiadi invernali del 2026, sono stati più di cinquantamila. Il biglietto per seguire l’intero fine settimana lungo il percorso costava 95 euro, quelli per seguirlo dalle tribune partivano dai 145 e arrivavano a oltre 200, che salivano a oltre mille euro per i biglietti “VIP”.
Diversi stadi per il biathlon si sono ampliati e rimodernati negli ultimi anni e nei prossimi, in vista delle Olimpiadi, lo farà anche l’arena di Anterselva. Oltre che sulle tribune quasi sempre gremite e lungo il percorso, durante i weekend di Coppa del Mondo gli spettatori del biathlon hanno l’abitudine di trovarsi in appositi tendoni a mangiare, bere, ballare e cantare. Ad Anterselva, dove il pubblico è tornato quest’anno dopo due anni di restrizioni per la pandemia, il tendone era praticamente pieno anche durante le gare, pur senza maxischermo: «Il trenta per cento di chi viene su nemmeno guarda le gare e sta dentro a fare festa», stima il biatleta italiano Tommaso Giacomel.
Nella passata stagione l’IBU ha avuto in media oltre sette milioni di spettatori per ogni sua tappa di Coppa del Mondo, tutto questo nonostante l’assenza della Russia, un paese in cui il biathlon ha grande seguito. L’IBU ha raddoppiato gli iscritti alla sua newsletter, che ora sono 25mila, e la sua app ufficiale, lanciata a fine 2021 e in genere molto apprezzata dagli addetti ai lavori, è stata scaricata su quasi 150mila dispositivi. Anche i numeri del sito e dei vari profili social dell’IBU sono in forte e costante crescita da anni.
Il biathlon, comunque, non è privo di problemi. Uno parecchio grosso ce l’ha avuto qualche anno fa, quando si venne a sapere che il norvegese Anders Besseberg, presidente dell’IBU per quasi un quarto di secolo, e la sua vice tedesca Nicole Resch erano finiti in un grave caso di corruzione con la Russia, che chiedeva vantaggi di vario tipo e trattamenti di favore su possibili casi di doping. Si parlò di valigette piene di soldi, offerte di lussuosissime vacanze e probabili casi di favori sessuali offerti a Besseberg, che si dimise nel 2018. Molti dettagli si vennero a sapere grazie a una approfondita indagine interna pubblicata dall’IBU nel gennaio 2021, ma già nel 2018 Le Monde titolò senza mezzi termini: «Come la Russia ha comprato l’IBU».
Come testimoniato di recente da un’analisi esterna, negli ultimi anni l’IBU ha fatto molto per migliorare la trasparenza, l’integrità e l’efficacia con cui è amministrata.
Per il resto – fatta eccezione per tutte le questioni di sicurezza relative alle carabine – i problemi del biathlon sono perlopiù affini a quelli di quasi ogni altri disciplina invernale, e in gran parte legati alla sostenibilità, ai cambiamenti climatici e, così come per ogni altro sport, al controllo e alla gestione di eventuali casi di doping.
Winkler dice che pur sfruttando i tanti vantaggi dati dall’autonomia gestionale, l’IBU punta molto alla collaborazione con altri sport invernali su questi argomenti, e anche sull’integrare i rispettivi calendari per evitare sovrapposizioni ma, anzi, per creare insieme i palinsesti di «grandi giornate televisive di sport invernali». Sempre a proposito di televisioni, Winkler aggiunge che l’IBU tiene molto al fatto che nei suoi «core market» le gare siano in chiaro e non a pagamento. Nonostante ne parli come di «uno sport europeo di nicchia», l’obiettivo è di renderlo il più aperto possibile.
Un altro punto fondamentale, per Winkler, è offrire quanto più materiale possibile alle federazioni e ai singoli paesi: parla dell’IBU come di una struttura che serve a «creare e fornire contenuti» e aggiunge: «Non è la federazione che è interessante, è lo sport».
Secondo Giuseppe Piller Cottrer, ex biatleta e ora allenatore e commentatore per la Rai, il biathlon è però soprattutto, e quasi a prescindere da formati e approcci recenti, «sia ancestrale che molto telegenico: intuitivo e immediato, con punizioni che ricordano quelle di Giochi senza frontiere». Piller Cottrer ritiene inoltre che, ancora più in sintesi, «un po’ come il tennis o il golf, il biathlon è visto da molti come uno “sport da fighi”».
«L’importante è non smettere di rinnovarsi», dice Winkler, che spiega come nella sua lega minore, la IBU Cup, la federazione sta sperimentando ancora altri formati di gara, in genere sempre più rapidi e più corti: in parte perché così vogliono le televisioni, in parte per avere una sorta di piano B per «essere pronti ad adattarsi a tutto», per prima cosa a condizioni di scarsa neve, in cui i percorsi vanno per forza di cose accorciati.
Nonostante la crescita generale, il biathlon ha ancora molti margini in tanti paesi. Uno è senza dubbio gli Stati Uniti, dove lo si nota più che altro solo per le Olimpiadi; un altro ancora è l’Italia, dove nonostante una squadra femminile tra le migliori al mondo il seguito è ancora «molto regionale» e ben sotto il potenziale.
Come spiega Giorgio Capodaglio, giornalista di Fondo Italia, sito che tra le altre cose segue anche il biathlon, l’IBU si è mostrata capace di «creare personaggi», presentare e raccontare con efficacia i suoi eventi e i suoi atleti, al punto da rendersi interessante anche in paesi non alpini storicamente pochissimo interessati allo sci di fondo.
Per spiegare l’attrattiva del biathlon, Capodaglio fa l’esempio di Anamarija Lampic, atleta slovena di 27 anni, che fino all’anno scorso era «una signora fondista, vincitrice di medaglie mondiali». Nonostante quest’anno i Mondiali di sci di fondo saranno in Slovenia, a metà 2022 Lampic ha deciso di passare al biathlon, cosa di cui si è detta «soddisfatta e felice». Per spiegare quanto il biathlon potrebbe ancora crescere in Italia, Capodaglio fa invece l’esempio dell’italiana Dorothea Wierer: è tra le migliori al mondo, è particolarmente spigliata e dalla risposta pronta, ha oltre 600mila follower su Instagram, ma nonostante tutto «forse è più conosciuta in Germania che in Italia».
Secondo Winkler, un altro «grande punto di domanda» per l’IBU è decidere cosa fare con il biathlon estivo, la disciplina che alterna lo skiroll (lo “sci a rotelle”) al tiro a segno, e che già ha un paio di eventi estivi dal discreto seguito. Occuparsi del biathlon estivo è «assolutamente nell’agenda», dice Winkler e «sebbene il biathlon sia e voglia restare uno sport invernale», niente vieta di immaginare che biathlon invernale ed estivo possano coesistere «così come fanno per esempio la pallavolo e il beach volley».
Più a breve termine, intanto, il prossimo grande appuntamento del biathlon saranno i Mondiali – invernali – in programma a Oberhof, in Germania, tra l’8 e il 19 febbraio.
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