Si parla di nuovo di violenza ostetrica
La morte di un neonato in un ospedale di Roma, a quanto sembra soffocato inavvertitamente dalla madre che lo stava allattando, ha riaperto il dibattito su un fenomeno esteso e poco raccontato
Da lunedì sui giornali si parla di un fatto avvenuto l’8 gennaio nel reparto di ginecologia dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Un neonato di tre giorni è stato trovato morto e l’ipotesi più riportata è che possa essere rimasto soffocato dopo che la madre si era addormentata allattandolo. La donna ha raccontato alla stampa di essersi trovata in grave difficoltà dopo il parto, perché nonostante l’estrema spossatezza era stata costretta a tenere il figlio da sola, sentendosi negare un aiuto dal personale dell’ospedale.
Il padre del bambino, parlando col Messaggero, ha raccontato che la donna «era sfinita dopo 17 ore di travaglio, ma le hanno subito portato il piccolo per l’allattamento. E hanno anche preteso che gli cambiasse il pannolino da sola. Ma lei non si reggeva in piedi. Non si è potuta riposare». Secondo la sua versione, «non si è accorta che il bimbo stava male. Non l’hanno nemmeno svegliata. Non sappiamo bene chi se ne sia accorto». La procura di Roma ha chiesto un’autopsia e ha avviato un’indagine sull’accaduto.
Intanto, come già successo altre volte per casi del genere, online molte persone hanno espresso solidarietà nei confronti della donna coinvolta nella vicenda e raccontato di aver vissuto esperienze simili dopo il parto. Questi casi vengono fatti rientrare nel più ampio concetto di violenza ostetrica, un fenomeno noto da tempo ma poco considerato, che viene citato quasi sempre in relazione al travaglio e al parto, ma riguarda tutta la vita sessuale e riproduttiva delle donne. E che con la pandemia è pure peggiorato.
Col termine violenza ostetrica si fa riferimento a un insieme di comportamenti delle strutture e dei professionisti che si occupano di salute riproduttiva e sessuale delle donne, e che possono essere anche molto diversi tra loro: come l’eccesso di interventi medici non necessari o senza consenso, e la generale mancanza di rispetto per la salute mentale e l’autodeterminazione delle donne. Nel caso avvenuto al Pertini, la violenza ostetrica riguarderebbe il rifiuto del personale sanitario di offrire alla donna che aveva partorito da poco l’aiuto richiesto nel gestire il figlio.
Un esempio tipico di violenza ostetrica nell’ambito del parto è l’episiotomia, un’incisione chirurgica del perineo, l’area compresa tra la vagina e l’ano, praticata durante il parto per allargare l’apertura vaginale, che l’OMS definisce «dannosa, tranne in rari casi» e che viene praticata spesso senza consenso. «Un altro esempio sono il clistere e la depilazione che fino a non molti anni fa venivano imposti alle donne prima del parto senza un reale motivo medico», spiega Gabriella Pacini, ostetrica e presidente dell’associazione Freedom For Birth, nata nel 2012 per promuovere la cultura della libera scelta delle donne al momento del parto: «ma anche l’episiotomia, la manovra di Kristeller, il parto da sdraiate: si pensa di poter intervenire sul corpo di una donna senza chiedere, senza spiegare, anche quando c’è tutto il tempo e non c’è emergenza, che comunque è la maggior parte dei casi».
Alle violenze già elencate si aggiungono abusi fisici diretti, abusi verbali, mancanza di riservatezza, rifiuto di offrire un’adeguata terapia per il dolore, gravi violazioni della privacy. Fuori dall’esperienza del parto, è considerata violenza ostetrica anche la difficoltà di accesso agli anticoncezionali, o a un aborto sicuro e meno invasivo possibile.
Quando si parla di violenza ostetrica non ci si riferisce a una violenza intenzionale a opera di alcuni specifici professionisti, ma a una forma di violenza “sistemica” e quindi radicata nelle procedure e nella cultura ospedaliere da sempre legittimata collettivamente. Molte donne tra quelle che ne hanno avuto esperienza raccontano di non essersi rese conto di essere state vittime di violenza, o di averlo realizzato solo dopo, a causa del senso di colpa, di inadeguatezza o di vergogna che erano stati loro indotti. Questi due elementi rendono la violenza ostetrica particolarmente difficile da individuare ed estirpare.
In Italia si cominciò a parlare di violenza ostetrica nel 1972, quando alcuni collettivi femministi di Ferrara promossero la campagna “Basta tacere” a cui parteciparono decine di donne che raccontarono le loro storie di abusi e maltrattamenti durante il parto o la gravidanza. Questa campagna è stata ripresa nel 2016 dando vita all’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica (OVOItalia). Nel 2017 OVOItalia ha pubblicato un’indagine che riporta che su 5 milioni di donne che hanno partorito tra il 2003 e il 2017 circa un quinto (un milione) dice di aver avuto esperienza di violenza ostetrica.
La violenza ostetrica è stata riconosciuta ufficialmente per la prima volta nel 2007 in Venezuela, all’interno di una legge sul diritto delle donne a una vita senza violenze. Nel 2014 l’OMS ha scritto un documento che s’intitola “La prevenzione ed eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere” in cui si dice che in tutto il mondo molte donne durante il parto in ospedale «fanno esperienza di trattamenti irrispettosi e abusanti».
«Quando hanno cominciato a farsi sentire i movimenti di denuncia della violenza ostetrica, una decina di anni fa, c’è stato un certo clamore ed è aumentata la consapevolezza di molte donne, anche grazie ai social. Alcuni ospedali hanno cominciato ad adeguarsi, per far vedere alle donne che potevano avere quello che volevano», dice Pacini. «Ma poi con le restrizioni dovute al Covid questo sforzo è saltato e tutto è tornato come prima».
Anche OVOItalia ha raccontato che il numero di testimonianze di donne che hanno subito una violazione dei loro diritti durante il parto è aumentata durante la pandemia per via delle restrizioni imposte negli ospedali. Molte hanno raccontato di aver passato ore e ore di travaglio da sole, senza poter avere la compagnia del partner o di una persona cara, di aver dovuto partorire con la mascherina e di essere state allontanate dal proprio figlio senza spiegazioni. Anche ora che la maggior parte delle restrizioni sono state tolte, gli orari di visita e le regole per chi partorisce variano molto da ospedale a ospedale, e in alcuni casi rimangono alquanto restrittive.
Secondo Pacini «la violenza nell’ambito della salute sessuale e riproduttiva delle donne è in linea con l’approccio che culturalmente abbiamo nei confronti delle donne: non siamo considerate autorevoli, razionali, competenti, ma solamente emotive, ormonali e poco affidabili».