Come ha funzionato la legge tedesca contro l’hate speech, cinque anni dopo
Quando entrò in vigore fu molto contestata, ma ora l'opinione condivisa è che non ha avuto vere conseguenze
L’1 gennaio del 2018 in Germania entrò in vigore la cosiddetta NetzDG, una delle prime leggi al mondo a costringere le grandi piattaforme di social media a rimuovere in modo tempestivo i post che contengono disinformazione e il cosiddetto hate speech, categoria ampia che include espressioni d’odio e appelli alla violenza contro persone che appartengono a minoranze e gruppi storicamente marginalizzati. Da allora, diversi altri paesi hanno cominciato a riflettere sulla necessità di regole simili, e il Parlamento europeo ha approvato una nuova legge sulla moderazione dei contenuti pericolosi che una volta entrata in vigore dovrebbe sostituire la NetzDG in Germania.
Lo scopo principale della legge era assicurarsi che tutti i social network con più di due milioni di utenti rispettassero le leggi tedesche in materia di diffamazione, incitamento all’odio e minacce, che sono tra le più severe al mondo e che furono scritte dopo l’esperienza della Seconda guerra mondiale e del nazismo. Secondo il ministro della Giustizia tedesco dell’epoca, Heiko Maas, le piattaforme di social media – e in particolare Facebook e Twitter – non facevano abbastanza per rimuovere i contenuti considerati illegali dalla legge tedesca.
Già all’epoca, la legge era stata molto criticata dalle organizzazioni per i diritti digitali e la libertà d’espressione, perché era scritta in termini molto vaghi e chiedeva ai social network di rimuovere i contenuti “chiaramente illegali” entro 24 ore. Questo, secondo gli esperti, avrebbe potuto portare le piattaforme a censurare preventivamente un numero eccessivo di contenuti per evitare di incorrere in sanzioni, che potevano arrivare a un massimo di 50 milioni di euro. E avrebbe ispirato paesi più autoritari della Germania ad approvare leggi simili, con lo scopo però di obbligare le piattaforme a censurare le opposizioni.
Il secondo timore si è concretizzato quasi immediatamente: già nel 2017 la Russia approvò un disegno di legge sull’incitamento all’odio che si rifaceva esplicitamente alla legge tedesca, e negli anni seguenti anche Venezuela, Filippine, Malesia e Turchia fecero lo stesso. L’Electronic Frontier Foundation, storica organizzazione non profit per la difesa della libertà d’espressione, ha definito la legge turca «la peggiore versione della NetzDG mai uscita». In Germania, però, al contrario di quanto si temeva la legge non ha portato a una situazione di censura sistematica.
L’unica piattaforma ad essere stata multata per ora è Facebook. Secondo l’Ufficio federale di giustizia tedesco, che il 2 luglio del 2019 aveva chiesto che l’azienda fosse multata per un totale di 2,3 milioni di euro, soltanto una minima parte dei contenuti illegali contenenti hate speech e disinformazione che erano stati segnalati a Facebook era effettivamente stata rimossa dalla piattaforma. La multa era molto contenuta rispetto ai miliardi di euro di ricavi ottenuti da Facebook ogni anno ma, come scrisse il giornalista Janosch Delcker su Politico dando la notizia, aveva «un peso simbolico, dato che segnava il primo caso di paese europeo che sanziona un gigante americano dei social media per non essere stato trasparente sul modo in cui gestisce l’incitamento all’odio». Non è chiaro se Facebook abbia pagato la multa o se la giustizia tedesca stia ancora considerando il suo ricorso.
Secondo la rivista tedesca Capital, il problema non è tanto la censura quanto il fatto che, al contrario di quanto speravano i legislatori scrivendo la legge nel 2017, la NetzDG non sembra aver portato grandi progressi nel risolvere o anche solo arginare il problema dell’incitamento all’odio online. Al contrario, negli ultimi anni la Germania è stata attraversata da diversi casi di violenza tangibile i cui autori avevano già ripetutamente dato segni di forte radicalizzazione verso ideali di estrema destra sui propri profili social: l’omicidio del politico di sinistra Walter Lübcke, nel 2019, ma anche gli attentati alla sinagoga di Halle e ad Hanau, rispettivamente nel 2019 e nel 2020.
– Leggi anche: Dovremmo affidare la moderazione dei contenuti agli utenti?
Per permettere alle forze dell’ordine di individuare più facilmente potenziali violazioni, all’inizio del 2022 il parlamento tedesco aveva provato a emendare il testo del 2017 per obbligare le piattaforme non solo a rimuovere l’hate speech, ma anche a comunicare l’indirizzo IP – cioè il numero che identifica una connessione a internet – delle persone che l’avevano pubblicato all’Ufficio federale di polizia criminale, che avrebbe poi passato i dati a un’unità dedicata specificatamente ai contenuti illegali online. La nuova legge, però, è stata bloccata prima da un tribunale tedesco interpellato da Meta e Google, secondo cui il testo era parzialmente in violazione con la legislazione europea.
Nel frattempo, considerata anche la vaghezza dei termini contenuti nella legge, gli individui che subiscono discorsi d’odio online continuano a dipendere principalmente dalle decisioni di moderazione dei contenuti delle piattaforme, che talvolta sono prese da persone in carne ed ossa, ma spesso da algoritmi che sono ancora molto distanti dal comprendere il contesto e il tono con cui viene pubblicato un commento o inviato un messaggio.
– Leggi anche: Non è facile rendere Internet un posto più sicuro per i bambini