I metalli per la transizione energetica si cercano anche in Italia
Nel Lazio e in Piemonte aziende e amministrazioni locali stanno trattando le concessioni per estrarre litio e cobalto, fondamentali per la produzione di batterie
di Angelo Mastrandrea
In tutta la valle del Baccano, una decina di chilometri a nord del quartiere residenziale romano dell’Olgiata, è difficile trovare qualcuno che sappia indicare dove si trovano i vecchi pozzi geotermici dai quali l’Enel, nella seconda metà degli anni ’70, estrasse per la prima volta in Italia il litio. Allora non era così prezioso, ma nel frattempo è diventato uno dei materiali più ricercati e costosi al mondo, in quanto componente fondamentale dei magneti delle pale eoliche e delle batterie ricaricabili delle auto elettriche, dei computer e degli smartphone.
La società italiana dell’elettricità, all’epoca di proprietà statale (oggi il ministero dell’Economia ne detiene circa un quarto delle azioni), trivellò in più punti la pianura e le colline circostanti per estrarre i vapori del sottosuolo e utilizzare così l’energia geotermica. Trovò appunto anche il litio, per il quale, stando ai documenti sui pozzi della valle del Baccano, bisogna scendere quasi un chilometro e mezzo sottoterra. In due casi si superano i tre chilometri.
Il primo pozzo, denominato Cesano 1, è all’ingresso della vallata. Per trovarlo, mappa delle concessioni alla mano, bisogna imboccare l’antica via Cassia che collegava Roma all’Etruria e lasciarla prima di arrivare al centro abitato di Baccano. Intorno non ci sono abitazioni, solo un agriturismo a poche centinaia di metri. Alessandro Mecali, geologo e profondo conoscitore di questo territorio e del suo sottosuolo, indica la campagna circostante, un antico cratere vulcanico che fino alla metà dell’Ottocento ospitava un lago, poi bonificato dallo Stato pontificio: «qui sotto c’è acqua dopo appena un metro e mezzo», spiega.
Secondo uno studio di quattro ricercatori del CNR, il Consiglio nazionale delle ricerche, pubblicato alla fine di luglio sulla rivista Minerals, la fascia vulcanica pretirrenica che va dalla Toscana al Lazio, fino alla Campania, sarebbe ricca di litio, un metallo difficile da trovare in natura. Nell’area a nord di Roma ci sarebbero le più alte concentrazioni, fino a 480 milligrammi di metallo per litro. Vuol dire che le rocce del sottosuolo sono ricche di questo metallo, che viene sciolto dalle alte temperature che l’acqua raggiunge a quelle profondità e vi si mescola, creando le cosiddette “salamoie geotermiche”, acque con una temperatura dai 100 ai 300 °C nelle quali sono presenti il litio e altri elementi provenienti dal sottosuolo.
Questo spiega l’attenzione delle multinazionali minerarie, visto che sia la domanda che il prezzo sono in costante crescita. Portare il litio in superficie con questa tecnica ancora in fase sperimentale sarebbe meno inquinante rispetto all’estrazione in miniera o all’evaporazione in apposite vasche, come accade nelle saline del cosiddetto “triangolo del litio” tra Argentina, Bolivia e Cile, dove si estrae più della metà del metallo esportato nel mondo. Non ci sarebbero emissioni aggiuntive di anidride carbonica nell’atmosfera poiché si utilizzano i vapori del sottosuolo, la raffinazione è alimentata con l’energia geotermica e non si spreca molta acqua perché quella che risale in superficie, una volta filtrata, viene reimmessa nei pozzi.
Nel 2022 il litio ha visto aumentare il suo costo del 500 per cento, arrivando ai 47.500 dollari a tonnellata, poco più di 43mila euro. La Commissione europea, temendo una carenza che metterebbe a rischio la transizione energetica, ha deciso di incentivare la produzione interna, che ora è appena al 2 per cento del materiale impiegato, mentre il 78 per cento arriva dal Cile. Il 14 settembre, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha presentato il Critical raw materials act, che prevede la ricerca e l’estrazione delle terre rare – come vengono chiamati 15 elementi chimici, un tempo ritenuti tutti rari – nel continente per soddisfare la domanda crescente per la transizione energetica e tecnologica.
«Presto il litio e le terre rare diventeranno più importanti del petrolio e del gas. La nostra domanda di terre rare aumenterà di cinque volte entro il 2030. Per evitare di diventare nuovamente dipendenti, l’Unione punta a identificare progetti strategici lungo tutta la filiera, dall’estrazione alla raffinazione, dalla lavorazione al riciclo» aveva detto in quell’occasione. L’obiettivo è ridurre lo strapotere della Cina, che si accaparra il 40 per cento del litio estratto nel mondo e ha il primato mondiale nella produzione di batterie elettriche.
All’Enel Green Power, il ramo della compagnia che si occupa di energie rinnovabili, si sono ricordati dei giacimenti nel Lazio quando la Commissione europea, agli inizi di settembre del 2020, ha presentato un piano d’azione per le materie prime più importanti per la tecnologia e i settori strategici, che ha tra gli obiettivi principali la ricerca del litio nel sottosuolo europeo, per ridurre le importazioni. «Il fabbisogno di litio in Europa aumenterà fino a 18 volte entro il 2030 e fino a 60 volte entro il 2050. Non possiamo permetterci di sostituire l’attuale dipendenza dai combustibili fossili con quella dalle materie prime critiche» aveva detto in quell’occasione Maroš Šefčovič, vicepresidente per le relazioni interistituzionali e le prospettive strategiche della Commissione europea.
Nel 1975, durante la perforazione del pozzo Cesano 1, quando le sonde arrivarono a una profondità di 1.390 metri tirarono su vapori geotermici a una temperatura di 200 °C, e insieme a questi una polvere bianca di litio con una concentrazione tra i 350 e i 380 milligrammi per litro, «tra le più alte a livello mondiale registrate in un ambiente geotermico con falda acquifera confinata», ha spiegato la Vulcan Energy Resources, la compagnia mineraria australiana che ora vorrebbe sfruttare il giacimento.
Il metallo all’epoca era utilizzato soprattutto come componente di alcuni farmaci, non aveva un gran valore di mercato e all’Enel non interessava estrarlo. Le condutture per portare l’acqua alle centrali geotermiche più vicine, nella zona del monte Amiata in Toscana, non furono mai costruite perché l’acqua bollente era troppo ricca di sali minerali, tra i quali appunto quelli contenenti litio, e sarebbe stata necessaria una manutenzione continua degli impianti. Il progetto fu considerato troppo costoso, accantonato e i pozzi furono abbandonati. «In realtà non hanno mai funzionato», aggiunge Mecali. Questo spiega perché nessuno da queste parti pare sapere dove si trovino.
L’Enel ha stipulato un’intesa con la Vulcan Energy Resources per l’estrazione del litio filtrando le salamoie geotermiche. «L’idea è di pompare acqua sottoterra, tirarla su con i minerali presenti nelle rocce erosi dalle alte temperature, separare il litio e poi reimmetterla nei pozzi», spiega Mecali. In questo modo, a suo parere, «l’impatto ambientale sarebbe basso», anche se si tratta di «un’operazione non semplice, visto che si tratta di scendere a grandi profondità, fino a 3 o 4 chilometri».
Grazie a questa nuova tecnologia estrattiva, Vulcan punta a diventare l’azienda più importante al mondo nell’estrazione di litio geotermico. La compagnia ha ottenuto altre cinque concessioni per la ricerca del litio nell’alta valle del Reno, in Germania, e ha firmato un accordo vincolante con la compagnia automobilistica Stellantis – nata dalla fusione di Psa e Fiat-Chrysler – per la fornitura di 99mila tonnellate di idrossido di litio per le batterie elettriche, per cinque anni a partire dal 2026.
Alla fine di gennaio del 2022 la Regione Lazio, che ha la competenza sui permessi per le estrazioni minerarie in base a un regio decreto del 1927, ha concesso un permesso “di tipo esplorativo” per cercare il litio su un’area di 11,5 chilometri quadrati, corrispondente più o meno al perimetro della valle del Baccano. La direzione regionale dell’ambiente ha stabilito che per questo tipo di ricerca non sarebbe stata necessaria la Valutazione d’impatto ambientale – un’autorizzazione preventiva del ministero dell’Ambiente, che esamina i possibili effetti di un’opera sull’ambiente – poiché si sfrutterebbero pozzi già esistenti e non ci sarebbero nuove trivellazioni. Una mappa allegata al progetto mostra che in questa zona ci sono cinque pozzi geotermici dismessi dall’Enel, mentre altri si trovano al di fuori e non potranno essere utilizzati.
Il 2 agosto l’Enel ha illustrato il progetto alla Commissione ambiente della Regione, spiegando che le estrazioni sarebbero a basso impatto ambientale e senza emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. Quel giorno in aula c’erano anche i rappresentanti dei comuni di Campagnano di Roma, nel cui territorio si trova la valle del Baccano, di Formello e del Municipio XV di Roma. Gli esponenti politici erano stati invitati perché nel frattempo un’altra multinazionale australiana, Altamin, attraverso la controllata Energia Minerals Italia, aveva inviato altre quattro domande per la ricerca mineraria nell’alto Lazio, sempre sfruttando la geotermia.
Le richieste riguardano un’area molto più ampia dei pochi chilometri quadrati della valle del Baccano: da Latera, vicino al lago di Bolsena a un centinaio di chilometri da Roma, dove si trova una centrale geotermica costruita dall’Enel alla fine degli anni ’80 e ora chiusa, fino a un pezzo di territorio della capitale, nell’exclave del comune di Roma tra il lago di Martignano e la valle del Baccano. Davanti ai consiglieri regionali, i politici dei comuni interessati e il presidente del XV Municipio romano Daniele Torquati, del Partito Democratico, si sono detti “interessati” al progetto. Torquati ha però ammesso che la ricerca del litio desta «non poca preoccupazione tra la cittadinanza». I timori principali riguardano l’impoverimento delle falde acquifere, nonostante i consumi di acqua siano inferiori rispetto ai metodi tradizionali di estrazione e l’utilizzo di sostanze chimiche durante il filtraggio.
Il 29 settembre la Altamin ha annunciato di aver ottenuto il permesso di cercare il litio su un’area di 12 chilometri quadrati a Campagnano. La concessione confina con quella di Vulcan e comprende un solo pozzo. Il primo novembre, Altamin ha fatto sapere sempre via Twitter di aver ottenuto un secondo permesso per le estrazioni, in un’area di 20,4 chilometri quadrati a Galeria, tra Cesano e Roma, che comprende tre pozzi. Per un altro permesso a Ferento, nella Tuscia viterbese, la Regione ha già escluso la Valutazione d’impatto ambientale.
Tra gli elementi fondamentali per la transizione energetica c’è pure il cobalto, utilizzato per le batterie delle auto elettriche e importato per due terzi dalla Repubblica Democratica del Congo, dove organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International denunciano da anni l’estrazione in condizioni insostenibili per l’ambiente e per i lavoratori. Nel 2020, la ong International Rights Advocates ha portato 14 famiglie congolesi davanti alla corte distrettuale di Washington per testimoniare sulla morte, gli infortuni e le malattie dei loro bambini sfruttati in miniera, denunciando multinazionali come Apple, Dell, Microsoft e Tesla. Secondo uno studio dell’università di Lovanio, in Belgio, per la transizione energetica saranno necessarie 60 mila tonnellate all’anno di cobalto, con un aumento del 330 per cento del fabbisogno attuale.
In Italia si vuole prenderlo anche da alcune miniere dismesse del Piemonte, sui due versanti di Punta Corna, una cima rocciosa di 2.800 metri nelle Valli di Lanzo, in provincia di Torino, dove il metallo si estraeva già nel Settecento ed era utilizzato per colorare di blu tessuti e ceramiche.
Nei borghi di Balme e Usseglio, trecento abitanti in totale a nord e sud della montagna, da tre anni i tecnici di Altamin fanno rilievi e sopralluoghi. In qualche caso hanno pure ingaggiato delle guide locali per farsi accompagnare in montagna. Quando la compagnia mineraria ha chiesto il permesso alla Regione Piemonte per cercare il cobalto, il comune di Usseglio – che può fornire un parere non vincolante ma non ha la facoltà di decidere sulle concessioni – ha chiesto ad Altamin alcune misure compensative, come la presenza di un archeologo durante le rilevazioni per preservare il patrimonio artistico del luogo, il reticolo di miniere medievali che si trovano tra i 2.250 e i 2.800 metri di altitudine, la manutenzione di alcuni sentieri, la costruzione del campo-base per i ricercatori in aree che non rovinino il paesaggio e una fideiussione di un milione di euro per garantire che, quando andrà via, lascerà i luoghi come li aveva trovati. La multinazionale ha accettato tutte le richieste tranne l’ultima.
Sul suo sito web, Altamin paragona i giacimenti piemontesi a quelli di Bou Azzer in Marocco, i più importanti al mondo, e mette in luce la dimensione “etica” del progetto estrattivo, che consentirebbe di ridurre le contestate importazioni dal Congo. Gli ambientalisti però non la pensano allo stesso modo. L’associazione Pro Natura Piemonte ha inviato alla Regione un documento nel quale sostiene che le estrazioni penalizzerebbero il turismo alpino, su cui si regge l’economia dei villaggi montani, consumerebbero molta acqua e inquinerebbero alcuni siti archeologici.
Il 7 dicembre, con un altro tweet, la compagnia mineraria ha annunciato la concessione della «licenza di esplorazione di Punta Corna» e «l’inizio della perforazione esplorativa in tutte e tre le zone prioritarie del sito di esplorazione», con un ampliamento dell’area prevista del 30 per cento «per includere estensioni mappate delle vene mineralizzate», vale a dire per sfruttare fino in fondo le miniere. L’investimento previsto è di due milioni e mezzo di euro. Stando agli annunci, i lavori dovrebbero cominciare in primavera.