Nove mesi isolata in Antartide
Alessia Nicosia ci ha raccontato come è stato vivere sempre al buio e con una temperatura esterna fino a -80 °C nella base di ricerca Concordia
di Ludovica Lugli
In questi giorni in Antartide c’è sempre luce. È il cosiddetto sole di mezzanotte, che nel continente più meridionale del pianeta va dalla fine di ottobre all’inizio di febbraio, l’estate australe. Sei mesi fa invece era sempre buio e Alessia Nicosia, una degli scienziati che hanno passato l’ultimo inverno australe alla base di ricerca italo-francese Concordia, usava una torcia per raggiungere tre piccoli tavoli piazzati sulla calotta polare a un chilometro dalla base. Una volta lì doveva fotografare i cristalli di neve che si erano depositati sui tavoli per uno degli esperimenti che seguiva. E doveva farlo in fretta, perché è meglio non passare troppo tempo all’esterno quando fuori ci sono circa -80 °C.
«I cristalli di neve sono la mia passione», dice Nicosia due settimane dopo essere rientrata in Italia, nel suo piccolo ufficio riscaldato nella sede di Bologna dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (ISAC) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR). È ancora provata dall’esperienza e dal viaggio di ritorno, ma spiega il suo lavoro nel dettaglio. «In Antartide sono diversi da quelli a cui siamo abituati perché l’aria è talmente secca che non si formano grossi fiocchi, ma cristalli molto piccoli, soprattutto quelli chiamati “aghetti” e “colonnine”: quando cadono sui guanti formano dei puntini. Ogni giorno dovevo fotografarli con un buon ingrandimento e poi, rientrata alla base, classificarli in base alla forma».
Nicosia ha 41 anni, è una fisica dell’atmosfera e nel 2022 ha preso parte alla 18esima campagna winter-over, cioè invernale, del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), che è finanziato dal ministero dell’Università e della Ricerca ed è coordinato dal CNR per le attività scientifiche e dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) per l’attuazione logistica delle spedizioni. L’Antartide è un continente disabitato che per la sua posizione e le sue caratteristiche geografiche e climatiche può darci tantissime informazioni, sia sulla Terra che sullo Spazio, e per questo è usato come un enorme laboratorio di ricerca da vari paesi del mondo, Italia compresa.
Le spedizioni del PNRA iniziano ogni anno alla fine di ottobre e per i winter-over terminano dopo un anno. Fino a febbraio, quando in Antartide è estate, partecipano decine di persone, tra cui glaciologi, climatologi, geologi, oceanografi e astronomi, e si usano sia la base Mario Zucchelli, che si trova sulla costa, sia la base Concordia, che invece è nell’interno, a 3.230 metri di altezza sul livello del mare al di sopra della calotta glaciale, l’enorme massa di ghiaccio che ricopre il continente.
Da marzo a ottobre la Mario Zucchelli resta chiusa, mentre la base Concordia rimane aperta per poter raccogliere dati di vario genere in modo continuativo. Resta però del tutto isolata dal resto del mondo: per nove mesi fa troppo freddo perché gli aerei possano raggiungerla e il ridotto personale che la abita e si occupa della manutenzione, poco più di dieci persone contro le 70-80 dei mesi estivi, non può lasciarla.
Nicosia è una degli scienziati che hanno vissuto questa esperienza estrema, paragonabile a quella degli astronauti nella Stazione Spaziale Internazionale (ISS) anche se a differenza loro i ricercatori antartici non possono essere evacuati. Vengono chiamati “invernanti” e l’anno scorso erano in 13, compresi un cuoco e due medici.
A Concordia ci sono vari osservatori permanenti, cioè strumenti che raccolgono in modo continuativo diversi tipi di dati, ad esempio sulle condizioni meteorologiche ma anche sui fenomeni sismici, e che sono collegati a reti internazionali di monitoraggio. «Il primo obiettivo degli invernanti è mantenere attivi questi campionamenti, fare la manutenzione degli strumenti, controllare che funzionino bene, aggiustare quello che si rompe», spiega Nicosia.
Può sembrare un lavoro noioso, ma basta sentire un esempio di manutenzione per cambiare idea. «Una volta alla settimana due ricercatori dovevano pulire dalla neve alcuni strumenti che si trovano su una torre metallica alta più di 30 metri che si trova a più di un chilometro dalla base. Per salire sulla scala a pioli bisogna usare l’attrezzatura da scalata. E quando si è in cima il freddo è particolarmente intenso perché a -80 °C basta anche un vento debole per percepirlo di più. «A volte sono operazioni semplici che però in quel contesto diventano difficili».
Ogni invernante segue un certo numero di studi in corso a Concordia, per cui in alcuni casi deve raccogliere di persona campioni di neve e ghiaccio, che mesi dopo sono portati in Europa per essere analizzati. Possono essere studi ideati da loro, ma più spesso sono di altri scienziati che si trovano in Italia o in Francia. Nicosia ha seguito i progetti di quattro colleghi: uno di glaciologia, la principale delle scienze praticate in Antartide, due di chimica dell’atmosfera e quello dei cristalli di neve, che invece riguarda la fisica dell’atmosfera, il suo ambito di ricerca.
Lo scopo di quest’ultimo è capire bene in che modo nevica nella zona intorno a Concordia, le proprietà chimico-fisiche della neve di quella parte dell’Antartide, per poi analizzare meglio le carote di ghiaccio che nei mesi estivi sono estratte dalla calotta per studiare il clima del passato.
«Ogni giorno uscivo in mezzo al nulla con la mia macchina fotografica, a piedi, verso i banchini», racconta Nicosia, specificando che si trovano a circa un chilometro dalla base per evitare che il piccolo inquinamento prodotto dalla presenza umana contamini la neve che c’è sopra. «Un banchino lo usavo per misurare l’accumulo di deposizione nevosa, cioè quanto fosse nevicato; un altro per fare le foto. Non era un’operazione banale perché dovevo togliermi i primi due dei tre strati di guanti per riuscire a ingrandire e con un unico strato di guanti a -80 °C si rischiano le dita: dovevo essere molto veloce. Anche riuscire a mettere a fuoco non era semplicissimo, specialmente durante la notte polare e quando c’era vento».
La stessa macchina fotografica non poteva restare troppo tempo esposta al freddo per funzionare bene, e nel tragitto verso i banchi Nicosia la teneva nella tasca più interna della sua tuta. In generale le condizioni dell’inverno polare mettono a dura prova anche strumenti e mezzi di trasporto: per prendere appunti sulla calotta glaciale si usano carta e matite e non si possono usare motoslitte per spostarsi perché sotto i -48 °C la benzina gela.
Nei mesi invernali le motoslitte a disposizione della base Concordia vengono tenute all’interno di garage scavati nel ghiaccio. Nelle grotte realizzate nella calotta la temperatura è un po’ maggiore che all’esterno, sui -50 °C, ed è costante, per questo ce ne sono diverse nei dintorni di Concordia, alcune delle quali ospitano degli strumenti di misura: sono chiamate shelter, “rifugi” in inglese.
A volte le grotte vengono usate come riparo anche dai ricercatori. «Quando si va fuori con -70 o -80 gradi è consigliato scaldarsi le mani ogni venti minuti o al massimo ogni quaranta, e il posto “caldo” più vicino è uno shelter scavato nel ghiaccio. Allora bisogna spalare un po’ di neve, sollevare la botola d’ingresso, scendere una scaletta che in genere non è proprio agevolissima ed è piuttosto scivolosa. E tutto per arrivare in un ambiente a -50 gradi. Nei casi migliori è uno shelter riscaldato e ci sono -10 °C. Comunque non bisogna soffrire di claustrofobia, perché sono delle specie di cunicoli».
Parlando delle sue attività quotidiane sulla calotta glaciale, Nicosia non usa il tono di chi stia decantando qualcosa di straordinario che ha fatto, ma trasmette comunque grande entusiasmo, aprendo parentesi e aggiungendo sempre più particolari sulla sua esperienza.
«In sostanza io ogni giorno mi vestivo e camminavo per un chilometro per andare a gestire gli strumenti in uno shelter e per fare i campionamenti, spesso da sola, anche se si cerca sempre di essere in due», continua a raccontare Nicosia. «La cosa difficile era doverlo fare tutti i giorni. Si restava alla base solo nelle rare situazioni di white out, quando si alza un vento talmente forte che risolleva la neve della calotta e per questo diminuisce molto la visibilità: al punto che uscire diventa pericoloso perché si rischia di perdere il senso dell’orientamento e perdersi. In quei casi il capo spedizione chiude la base». Nel suo periodo lì «sarà capitato 3 volte in tutto».
In ogni caso, anche quando le condizioni meteorologiche sono buone, i ricercatori escono dalla base muniti di radio geolocalizzate e ogni mezz’ora devono trasmettere un messaggio alla base dove l’informatico della spedizione rimane sempre in sala radio a monitorare chi è fuori a distanza. In un eventuale caso di emergenza, una squadra di soccorso, composta dagli stessi ricercatori che vengono addestrati anche per svolgere questo compito, viene mandata ad aiutare la persona in difficoltà. Lo scorso inverno comunque non c’è stato nessun incidente.
«Pochissime persone hanno la possibilità di vivere in Antartide per un anno, anche tra gli scienziati», racconta Nicosia, «è un’esperienza per pochi privilegiati». Certi studi si possono fare unicamente in Antartide, ma dato che i posti disponibili per ogni spedizione sono limitati, esserci stati non è una cosa da poco sul curriculum di un ricercatore.
Nicosia sognava di andarci fin dal 2013, quando aveva un assegno di ricerca all’ISAC e vedeva fotografie di pinguini e della stazione Mario Zucchelli nel computer del suo capo. «Molti colleghi prendevano parte a campagne in Antartide o nelle regioni dell’Artico, provai a propormi per andarci anche io ma inutilmente. Tra alcune persone era diffusa la mentalità per cui io, essendo madre, non fossi una persona adatta».
In Francia, dove Nicosia ha svolto parte dei suoi studi, è stato più facile: «Era il 2017, durante il mio secondo anno di dottorato, e avevo sentito che ci sarebbe stata una campagna di un mese in Artide, nel mese di marzo. Una delle ricercatrici era rimasta incinta e quindi serviva un sostituto. Ebbi il coraggio di propormi, anche se non avevo esperienza, e nell’arco di un mese ero alle Svalbard». Anche se di durata limitata fu un’esperienza avventurosa: «A Ny-Ålesund ci sono gli orsi polari e marzo è il periodo in cui si svegliano dal letargo, quindi bisogna andare in giro con un fucile per difendersi. E prima seguire un corso per imparare a usarlo».
Quell’esperienza è una delle cose che hanno aiutato Nicosia ad avere i requisiti giusti per fare l’invernante a Concordia. Oggi è ormai specializzata nell’osservazione scientifica dell’atmosfera in siti remoti ed estremi, che oltre che vicino ai Poli ha condotto in vari osservatori di montagna in Francia e in Giappone.
Per diventare invernanti comunque non basta il curriculum, ma bisogna superare delle prove di resistenza e dei controlli medici e attitudinali, perché la vita in Antartide è molto impegnativa sia a livello fisico che psicologico.
I ricercatori di Concordia sono messi alla prova nel corpo non solo dal grande freddo, ma anche dall’ipossia, cioè dalla carenza di ossigeno dovuta all’elevata altitudine della base italo-francese: una condizione che affatica molto, anche mentalmente, e che può rendere sgradevole e dolorosa la permanenza ad alta quota.
Una probabile conseguenza dell’ipossia è la difficoltà di concentrazione: «Mi ero portata un sacco di libri e articoli, pensavo che avrei sfruttato il tanto tempo libero a disposizione studiando, ma durante la notte polare non riuscivo a leggere e a rimanere concentrata», spiega Nicosia. «Fino a Pasqua sono riuscita a lavorare come revisora per alcune riviste scientifiche, ma poi per capire un solo paragrafo mi serviva leggerlo più volte. Allora mi sono dedicata ad attività manuali, come la lavorazione del legno e gli origami. Tra i colleghi c’è chi ha composto musica ad esempio».
– Leggi anche: Mentre Nicosia era a Concordia a un certo punto ha fatto molto “caldo”
Al freddo e all’ipossia si aggiungono l’assenza di cibi freschi trascorso un po’ di tempo dall’ultima consegna estiva degli aerei, e la totale mancanza di luce solare per tre mesi, che per alcune persone, tra cui Nicosia, è causa di insonnia dato che incide profondamente sul ciclo del sonno.
Quest’alterazione potrebbe anche influenzare il ciclo mestruale: durante la notte polare Nicosia aveva le mestruazioni ogni due settimane. Fortunatamente per lei aveva deciso di abbondare con i pacchi di assorbenti che si era portata dietro, dato che la base Concordia, dove lo scorso inverno Nicosia era l’unica donna, non ne era fornita. Su suo suggerimento il medico della base ha poi provveduto a segnalarne la necessità al PNRA.
Fatta eccezione per la difficoltà a dormire comunque Nicosia non ha patito particolari disagi fisici. «Ero partita con la paura di non farcela. Ho passato anni e anni a inseguire il sogno di diventare ricercatrice e non ho mai fatto attività sportiva, sono in sovrappeso, sono pigra e sono nata in una parte d’Italia, Rovigo, che non ha nulla a che vedere con le montagne. Non ero pronta insomma, però ce l’ho fatta». È un aspetto su cui insiste perché vorrebbe convincere altre donne a non aver paura di essere deboli o fragili: «Il corpo umano ha una straordinaria capacità di adattarsi, con le comodità di oggi lo abbiamo dimenticato».
Le difficoltà maggiori forse sono quelle psicologiche. Innanzitutto bisogna fare i conti con l’impossibilità di avere grandi contatti con le persone care in Italia: la connessione a internet disponibile a Concordia è piuttosto limitata e deve essere usata principalmente per inviare i dati scientifici, per cui non si possono usare i social network. Si possono fare telefonate, ma il fuso orario della base è lo stesso della Nuova Zelanda. «Parlavo con mio figlio cinque minuti al giorno, quando per me era ora di pranzo e lui si stava preparando per andare a scuola», ricorda Nicosia. «Mi mancava. Sono stata fortunata perché c’erano due padri nel gruppo e ci confortavamo a vicenda».
Alla nostalgia di casa e della famiglia poi si aggiunge la logorante esperienza della routine della base. I compiti da svolgere sono ripetitivi, e così le attività ricreative. C’è una biblioteca che è stata messa insieme con i libri e i film portati negli anni dai ricercatori che si sono succeduti e con donazioni di istituti di ricerca e fondazioni, ci sono una palestra, un calciobalilla, un biliardo, diverse console per i videogiochi e giochi di società, ma nove mesi sono lunghi.
È un problema comune anche alle altre basi di ricerca antartiche che restano aperte tutto l’anno e che per questo organizzano alcune attività collettive: le “Olimpiadi antartiche”, che prevedono tornei a distanza di specialità diverse, come sfide di piegamenti sulle braccia, e l’Antarctic Film Festival (WIFFA), a cui ogni base partecipa con un cortometraggio. Quello fatto dagli invernanti di Concordia l’anno scorso si intitola Snow Wars, ed è chiaramente ispirato a Star Wars.
Si vedono in continuazione le stesse poche persone con cui si parla sempre delle stesse cose: per questo una delle ripercussioni del soggiorno invernale alla base è una riduzione delle capacità lessicali, dovuta alla mancanza di stimoli esterni.
E non bisogna sottovalutare cosa significa restare isolati per nove mesi con persone che non si conoscono e non si sono scelte. «Si è obbligati a collaborare e a trovare un modo per gestire i conflitti. Per questo durante i corsi di selezione e quelli preparatori c’è una psicologa che segue il gruppo e si fanno attività di team building, come si dice. Perché durante la notte polare non puoi farcela da solo».
L’ipossia, la stanchezza e i diversi disagi della vita isolati possono aumentare l’irritabilità e diminuire la prontezza, che invece è indispensabile in una situazione in cui si possono correre grossi rischi, per esempio il rischio che scoppi un incendio. In Antartide l’aria è molto secca e a causa della bassa umidità c’è molta elettricità statica. A Concordia si prende continuamente la scossa e il rischio che da una scintilla si generino delle fiamme è più alto che altrove. «Sei sempre in apprensione e sai che non puoi fare mai il minimo sbaglio: anche quello può mettere a rischio la tua incolumità e quella dell’intera base, e quindi sei sotto una pressione enorme».
Per Nicosia questo aspetto della vita in Antartide è stato anche una sfida di genere. «Essendo l’unica donna sentivo di dovermi mostrare forte, perché prevaleva una mentalità maschile in cui è essenziale non mostrare debolezza o paura, nonostante i rischi. L’unico modo per gestire questo stress era non mostrare fragilità: farlo avrebbe dato fastidio. Ho dovuto sopprimere l’insicurezza, essere più spavalda. Una caratteristica che forse servirebbe di più professionalmente, a molte donne».
Nicosia già progetta di tornare in Antartide con un progetto suo. E magari di fare ricerca anche nell’Himalaya, che dopo l’Artide e l’Antartide è l’altro luogo più estremo in cui studiare la fisica dell’atmosfera. Nel frattempo ha ripreso il suo lavoro all’ISAC e all’osservatorio del monte Cimone, sull’Appennino emiliano. E cerca di recuperare con la frutta e la verdura che le è mancata per mesi.