La matematica l’abbiamo scoperta o l’abbiamo inventata?
La risposta a questo dibattito millenario è cambiata a seconda del periodo storico, e per qualcuno è: un po’ e un po’
Nel trattato del 1623 Il Saggiatore, il fisico, matematico e filosofo italiano Galileo Galilei formulò attraverso una metafora uno dei pensieri ritenuti oggi più importanti nella storia dell’evoluzione del concetto di scienza e di metodo scientifico. Scrisse che «la filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi», e che quel libro «è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche».
La metafora del “libro della natura” fu ripresa da molti altri pensatori in tempi recenti: tra questi il fisico e divulgatore statunitense Richard Feynman, che nel libro La legge fisica scrisse che per conoscere e apprezzare la natura «è necessario comprendere il linguaggio che essa parla», e cioè la matematica.
Riflessioni come quelle di Galileo Galilei e Feynman sulla relazione profonda e l’interdipendenza tra la matematica e la natura hanno origini antichissime nella tradizione del pensiero filosofico occidentale e nella storia della scienza. E sono, tra le altre cose, parte di una discussione ricorrente su quale sia il modo più appropriato di intenderla, la matematica: se uno “strumento” inventato dagli esseri umani per descrivere la realtà fisica, un insieme di concetti e rappresentazioni utili a rendere la natura comprensibile; o piuttosto qualcosa che risiede nella natura stessa e, in quanto linguaggio dell’universo, esiste a prescindere dai nostri tentativi di apprenderlo. Sintetizzando la questione: ci si chiede da millenni se la matematica sia stata un’invenzione, come quella di un qualsiasi altro linguaggio formale, o una scoperta.
Una considerazione preliminare abbastanza intuitiva e molto condivisa all’interno del dibattito è che, rispetto alle scienze fisiche e naturali, la matematica manchi di una componente empirica e abbia una sua marcata autonomia. E sarebbe questa mancanza a rendere sensata la discussione. Sebbene la matematica sia il linguaggio formale indispensabile alle scienze naturali per descrivere i fenomeni osservati, non diciamo che un matematico “osserva” la derivata della funzione tangente allo stesso modo in cui diciamo, per esempio, che un biologo osserva la divisione cellulare.
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L’ipotesi che la matematica sia il linguaggio dell’universo e che i numeri siano entità reali e non semplici rappresentazioni, nella storia della filosofia, viene tradizionalmente fatta risalire al V secolo a.C., e in particolare alla scuola pitagorica nella Grecia classica. Per i pitagorici la realtà era fondamentalmente matematica: credevano fosse fatta di oggetti matematici nello stesso modo in cui la materia è fatta di atomi. I numeri erano sia unità reali che princìpi universali, e la monade (dal greco μόνος, monos: unico, uno) era il principio primo da cui derivavano tutti gli altri numeri ed elementi dell’Universo.
Per Platone i numeri e le forme geometriche erano enti concreti e reali, indipendenti dall’esistenza del soggetto che ne fa esperienza e conoscenza. Come scrisse nella Repubblica, «la geometria è la scienza di ciò che sempre è, e non di ciò che in un certo momento si genera e in un altro momento perisce». E questa idea, pur passando attraverso varie rielaborazioni, è rimasta largamente condivisa da molti matematici nel corso dei secoli.
Nel Novecento la tradizione pitagorico-platonica fu ripresa, per esempio, dal matematico svizzero Paul Bernays e dal matematico tedesco Georg Cantor, considerato il fondatore della teoria degli insiemi e uno dei primi teorici dell’infinito come qualcosa di misurabile.
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Secondo una concezione rielaborata in vari modi ma comunque condivisa dagli esponenti del cosiddetto platonismo matematico, i matematici isolano gli oggetti della natura definendone le proprietà: ma ciò non toglie che quegli oggetti esistano e abbiano una loro stabilità a prescindere dagli esseri umani. In questo senso, la matematica sarebbe quindi una “scoperta” non troppo diversa da quella comunemente attribuita agli esploratori europei che raggiunsero l’America alla fine del Quattrocento. La “scoprirono” nel senso che scoprirono qualcosa che già c’era: la esplorarono, e muovendosi in quegli spazi attribuirono nomi ai fiori, alle piante e agli altri oggetti che osservavano.
Uno dei più citati sostenitori dell’ipotesi della scoperta della matematica fu il matematico austriaco Kurt Gödel, secondo il quale classi e concetti della matematica possono essere concepiti come oggetti reali. Per Gödel le classi intese come «pluralità di cose», e le proprietà e le relazioni tra queste cose, esistono indipendentemente dalle nostre definizioni.
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Un argomento utilizzato spesso nel dibattito per sostenere l’idea che la matematica sia il linguaggio della natura – ciò che dà struttura al mondo fisico e che pertanto esiste indipendentemente da qualsiasi nostro sforzo di comprensione – è la presenza di particolari strutture e regolarità nella natura stessa. Un esempio frequente è quello dei frattali, enti geometrici dotati di determinate proprietà di scala, tali per cui rappresentazioni in scale diverse di uno stesso oggetto frattale presentano similitudini strutturali. Il cavolo romano è uno degli esempi più citati e familiari, benché la regolarità dei frattali sia approssimativa e non prosegua all’infinito.
Altre strutture significative provengono dal regno animale. È nota, per esempio, la forma esagonale delle cellette di cera (favo) costruite dalle api operaie nell’alveare o nell’arnia per depositarvi il miele e il polline necessari per il sostentamento delle larve. Una delle ipotesi formulate per spiegare questa struttura verticale è che l’esagono regolare – un esagono con sei lati di uguale lunghezza e sei angoli di uguale ampiezza – sia la figura geometrica che permette di tassellare una superficie piana nel modo più efficiente possibile: cioè con il minimo utilizzo di materiale da costruzione (la cera, nel caso delle api).
In base a questa ipotesi, il favo sarebbe quindi composto da celle esagonali perché le api cercano di preservare risorse minimizzando la quantità di cera utilizzata per costruirlo: azione evolutivamente sensata, come osservò il naturalista inglese Charles Darwin. Qualsiasi altra tassellatura comporterebbe infatti un rapporto meno vantaggioso tra superficie del piano complessivamente ricoperta e perimetro della tassellatura. A parità di superficie da tassellare, le api dovrebbero compiere uno sforzo maggiore se utilizzassero poligoni diversi dall’esagono (triangoli equilateri o quadrati, per esempio, che pure permetterebbero di ricoprire uniformemente la superficie).
Sebbene fosse conosciuta fin dal I secolo a.C., un primo e incompleto tentativo di dimostrare la congettura del nido d’ape (honeycomb conjecture) è attribuito al matematico greco Pappo di Alessandria, vissuto tra il III e il IV secolo d.C. Ma trascorsero circa 1.600 anni prima che venisse dimostrata formalmente: ci riuscì nel 1999 il matematico statunitense Thomas Hales, che convertì la congettura in un teorema.
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Un altro fenomeno biologico che mostra una regolarità matematica nel regno animale sono i cicli di vita di due specie di cicale del genere Magicicada, diffuse in Nord America. Entrambe trascorrono la maggior parte della loro vita sottoterra: gli esemplari di una specie (Magicicada tredecim) emergono tutti insieme in grandissime quantità ogni 13 anni, e quelli dell’altra specie (Magicicada septendecim) fanno lo stesso ma ogni 17 anni.
Una delle spiegazioni più condivise di questo fenomeno fa riferimento al fatto che 13 e 17 siano numeri primi abbastanza grandi. Questo permette alle “nidiate” di cicale che emergono periodicamente dal terreno di evitare vari predatori che hanno cicli di vita di diverse lunghezze: più di quanti le cicale ne eviterebbero se i loro cicli di vita non fossero di 13 e 17 anni ma, per esempio, di 12 e 14 anni.
Supponendo che ci siano predatori delle cicale con cicli di vita di 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9 anni, avere un ciclo di vita di 12 anni per una cicala implicherebbe ogni volta l’incontro con predatori i cui cicli di vita sono di 2, 3, 4 e 6 anni (tutti sottomultipli di 12). Ma se il ciclo di vita della cicala è di 13 o di 17 anni, molti meno predatori i cui cicli di vita sono di 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 o 9 anni saranno presenti sul terreno nel momento in cui le cicale emergeranno. Inoltre, in questo modo, le probabilità di incontro tra le due specie di cicale – che competono per le stesse risorse – sono molto limitate: una volta ogni 221 anni (minimo comune multiplo di 13 e 17).
Il fatto che spieghi così tanti fenomeni osservabili della natura e indipendenti dal nostro comprenderli suggerirebbe che la matematica non sia qualcosa che gli esseri umani hanno inventato, ma piuttosto qualcosa che hanno scoperto. Inoltre, come dimostra l’esempio della congettura di Pappo di Alessandria e del teorema dimostrato da Hales nel 1999, possono trascorrere secoli prima che un’ipotesi suggerita dall’osservazione di un fenomeno naturale venga dimostrata matematicamente.
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Altri matematici pensano che la matematica sia invece un’invenzione umana: gli oggetti matematici, secondo questa prospettiva, non sarebbero oggetti che esistono da qualche parte in attesa di essere scoperti. Sono piuttosto nozioni che non esistono finché a qualcuno non viene in mente di definirle, di “crearle”, con o senza l’obiettivo di comprendere l’universo.
L’idea alla base dell’ipotesi che la matematica sia un’invenzione è che tutti gli oggetti e i concetti matematici, dalle parabole alle radici quadrate, non siano veri nel senso in cui diciamo che è vero che il fuoco brucia. Secondo un approccio noto come formalismo, le teorie matematiche sarebbero parti di un “gioco”, regole che gli esseri umani stabiliscono come stabiliscono che l’alfiere degli scacchi può muoversi soltanto in diagonale. Che due per due dia come risultato quattro, in altre parole, è tanto vero quanto è vero che spostare l’alfiere in una certa posizione sulla scacchiera, a determinate condizioni, porti a uno scacco matto: ha senso formalmente, all’interno del gioco, ma né l’alfiere né il due né il quattro esistono fuori dal gioco.
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Tra i principali sostenitori di questo approccio è spesso citato il matematico tedesco David Hilbert, vissuto tra l’Ottocento e il Novecento, in un periodo storico contraddistinto, tra le altre cose, da un diffuso impulso a intendere la matematica come una costruzione logica. Per Hilbert tutte le teorie matematiche, per quanto ricavate dalla fisica e dall’esperienza intuitiva dello spazio, avrebbero dovuto essere ridotte a sistemi formali. E a favorire la diffusione di questo approccio, secondo una lettura degli eventi storici largamente condivisa, fu in larga parte lo sviluppo delle geometrie non euclidee nell’Ottocento.
Evitando di lasciarsi guidare da consuetudini millenarie, studiosi come il matematico russo Nikolaj Ivanovič Lobačevskij ipotizzarono che lo spazio fisico potesse avere proprietà diverse da quelle definite dal matematico greco Euclide. Questa nuova impostazione permetteva di negare anziché assumere come vero uno dei più discussi e problematici postulati euclidei, il quinto: secondo una formulazione del postulato più chiara e diffusa, dato un punto P e una retta r che non passa per P, nel piano definito da r e P esiste una e una sola retta passante per P e parallela a r.
Nuovi modelli di geometria non euclidea, come per esempio quella ellittica definita dal matematico tedesco Bernhard Riemann, implicavano nuove definizioni dei termini. Se il piano diventa un insieme di punti appartenenti a una superficie sferica, e la retta diventa una circonferenza massima della superficie sferica, due rette qualsiasi di un piano hanno sempre almeno un punto in comune (assioma di Riemann).
Modelli come quello di Riemann mostrarono che la geometria di Euclide non aveva i caratteri di necessità e verità universale che le erano stati attribuiti per lungo tempo. Questo indebolì una concezione dello spazio euclideo come unico spazio oggettivamente valido o come condizione stessa di possibilità dei fenomeni. E rafforzò allo stesso tempo l’approccio formalista: i valori di verità delle asserzioni all’interno di un sistema formale potevano cambiare a seconda degli assiomi prescelti, delle regole del gioco scelte dagli esseri umani.
I formalisti non negarono che vi fossero relazioni continue tra i sistemi formali e l’esperienza empirica, ma affermarono che la matematica fosse un’invenzione umana nella misura in cui è un linguaggio di relazioni astratte che non esiste se non nel cervello di chi instaura quelle relazioni. Le strutture e i sistemi ideati dai matematici potevano servire a ordinare e descrivere fenomeni fisici del mondo reale, ma potevano anche essere sviluppate in astratto e restare per lunghissimo tempo prive di qualsiasi significato reale.
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Per esempio, il matematico inglese Godfrey Hardy, vissuto anche lui tra l’Ottocento e il Novecento, si diceva fiero del fatto che le sue teorie puramente matematiche non avessero alcuna applicazione pratica. «Non ho mai fatto niente di “utile”. Nessuna delle mie scoperte ha fatto né potrebbe fare, direttamente o indirettamente, nel bene o nel male, la minima differenza per l’amenità del mondo», disse. Eppure oggi consideriamo l’ambito di studi specifico di Hardy – la teoria dei numeri – fondamentale per le tecniche crittografiche applicate in moltissimi contesti.
Esistono tentativi di considerare la matematica allo stesso tempo un’invenzione e una scoperta, proprio a partire dall’esempio dello sviluppo imprevisto delle teorie di Hardy come di molti altri matematici. Secondo questo terzo approccio, la matematica è un’invenzione nella misura in cui è un modo di dare forma alla materia, ma anche una scoperta nella misura in cui è la materia a fornire sostanza alla matematica.
Come scrive il fisico e divulgatore scientifico inglese Robert Matthews, il fatto che uno più uno dia due come risultato, o che esista un numero infinito di numeri primi, «sono verità sulla realtà che valevano anche prima che i matematici ne venissero a conoscenza». Sono quindi «scoperte», ma allo stesso tempo sono scoperte realizzate utilizzando tecniche «inventate» dai matematici.
Un punto di vista simile è espresso anche nel libro La gioia dei numeri del matematico statunitense Steven Strogatz, docente di matematica applicata alla Cornell University, a Ithaca, nello stato di New York. Secondo Strogatz i matematici «inventano» il modo di combinare opportunamente funzioni, oggetti e risultati matematici: strumenti di cui hanno bisogno per la stessa ragione per cui un costruttore ha bisogno di martelli e trapani, e cioè per «trasformare le cose». Ma allo stesso tempo il risultato di quelle combinazioni «creative» non è noto ai matematici finché non lo «scoprono».