L’epoca d’oro dei fandom
Sono le comunità di appassionati di uno specifico film, serie, libro, fumetto, band o qualsiasi altro prodotto culturale: e non sono mai state così influenti
di Viola Stefanello
Nel dicembre del 1893 la rivista inglese The Strand Magazine pubblicò un racconto di Arthur Conan Doyle. Si intitolava “The final problem” e, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere l’ultima storia con protagonista il celebre investigatore Sherlock Holmes. Benché il personaggio lo avesse reso molto famoso molto in fretta, Conan Doyle voleva cominciare a scrivere di temi più seri, e sentiva che uccidere Sherlock fosse l’unico modo per liberarsene.
La reazione del pubblico alla morte improvvisa del detective fu senza precedenti: secondo alcune ricostruzioni storiche tantissime persone si aggirarono per le strade di Londra con un fazzoletto nero legato al braccio o al cappello nei giorni dopo la pubblicazione, in segno di lutto. Secondo un articolo della BBC, The Strand sopravvisse a malapena al gran numero di cancellazioni degli abbonamenti. Nacquero club dedicati alla scrittura di racconti, intesi non per la pubblicazione ma per la condivisione reciproca di una passione, che avessero Holmes come protagonista. Conan Doyle ricevette moltissime lettere di sdegno, ma anche offerte monetarie sempre più consistenti in cambio di nuovi racconti che avessero Sherlock Holmes come protagonista: alla fine, nel 1903 cedette alle pressioni e pubblicò “L’avventura della casa vuota”, in cui raccontava che Holmes aveva soltanto finto la propria morte: in totale, avrebbe scritto quattro romanzi e 56 storie sul geniale investigatore, l’ultima delle quali nel 1927.
Secondo vari esperti di storia dei media, quello composto dagli appassionati di Sherlock Holmes è il primo esempio storico di fandom, un nome con cui si definiscono quelle sottoculture creative che si sviluppano attorno all’amore comune di un gruppo più o meno nutrito di persone verso un prodotto culturale.
Oggi è impossibile quantificare quanti siano i fandom: ne può nascere uno grande o piccolo attorno a qualsiasi film, serie tv, videogioco, fumetto, libro, gruppo musicale o celebrità. Ne esistono di enormi attorno a prodotti mainstream come Harry Potter, Game of Thrones, Star Wars, i film Marvel e gruppi pop coreani come i BTS, ma altri ne sono nati attorno a prodotti molto più di nicchia, o addirittura mai esistiti.
Se ai tempi di Arthur Conan Doyle l’unico modo per condividere la propria passione con altri fan era riunirsi fisicamente in club o mandarsi lettere, da quando esiste il web alcuni fandom sono diventati dei fenomeni enormi e piuttosto potenti, capaci di cambiare le sorti del libro, della band o del film attorno a cui sono nati. E di muovere tantissimi soldi.
Le origini del fenomeno
«Di fandom si è cominciato a parlare come di un movimento strutturato e organizzato nel XIX secolo, per riferirsi agli appassionati di particolari hobby, soprattutto sport come la boxe», racconta Eleonora Benecchi, ricercatrice che si occupa di fandom per l’Università della Svizzera italiana.
«A lungo è stato usato per descrivere una pratica culturale molto maschile: i fan super entusiasti che hanno comportamenti sopra le righe, diversi da quelli del resto del pubblico. Fin da subito ha un’accezione istintivamente negativa, sia perché designa comportamenti spesso al limite, sia perché viene considerata dall’esterno di cattivo gusto o troppo lontana dal comportamento normato. Oggi, però, andare a tutte le partite del Milan, comprare le maglie, aspettare i giocatori fuori dallo stadio e via dicendo è considerato socialmente accettabile, mentre i fan di altri prodotti culturali sono ancora caratterizzati come individui solitari e ossessivi», dice Benecchi.
Al di fuori dello sport (e di Sherlock Holmes), i primi fandom si svilupparono attorno ad artisti e gruppi musicali – un esempio celebre è quello delle fan dei Beatles, a lungo accusate di essere isteriche e ossessive – e alla letteratura fantasy e fantascientifica. Già negli anni Trenta, soprattutto negli Stati Uniti, nacquero vari club e convention, ovvero eventi spesso organizzati dal basso che permettevano a fan provenienti da varie parti del mondo di incontrarsi in un solo luogo per discutere del tema che li accomunava e fare amicizia.
Se i club e le convention sono stati a lungo spazi dominati prevalentemente da uomini impegnati a dimostrare la propria passione attraverso il collezionismo o la discussione critica delle opere, le donne hanno storicamente partecipato ai fandom soprattutto tramite la produzione letteraria, ovvero producendo, scrivendo e illustrando le cosiddette “fanzine”, piccole riviste fatte in casa dedicate a prodotti culturali creati e commercializzati da qualcun altro.
Nel 1986 l’autrice Camille Bacon-Smith scriveva sul New York Times che fin dagli anni Settanta le fanzine dedicate a Star Trek – la serie fantascientifica attorno a cui si è sviluppato uno dei fandom più vivaci del secolo scorso, che venne addirittura salvata dalla cancellazione dall’invio massiccio di lettere alla società televisiva che la produceva – erano scritte, illustrate e composte al 90 per cento da donne.
Cosa si fa, nei fandom
Al contrario di chi si limita ad apprezzare un film, una serie tv o un libro, chi appartiene a una comunità di fan spesso vi contribuisce in modo creativo e partecipato. C’è chi lo fa traducendo e pubblicando i sottotitoli di ogni nuova puntata della serie animata giapponese che ama, evitando agli altri di dover aspettare per mesi il doppiaggio ufficiale. C’è chi fa cosplay, ovvero indossa (e spesso crea personalmente) i vestiti dei personaggi delle proprie storie preferite. C’è chi gira e pubblica video di ore ed ore in cui individua i temi ricorrenti nei romanzi del suo autore preferito, compara nei minimi dettagli le differenze tra il personaggio di un fumetto e come quel personaggio è stato trasposto nell’adattamento cinematografico o espone le sue teorie sul modo in cui una serie potrebbe finire. Ci sono tantissime persone che si dedicano alla fan art, ovvero alla creazione e condivisione di disegni, illustrazioni e dipinti che hanno come oggetto i personaggi del prodotto culturale di cui sono appassionati. Diverse, ma non tutte, sono a sfondo romantico o sessuale.
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Queste varie comunità non vanno sempre d’amore e d’accordo. Le persone (principalmente uomini) impegnate in cosiddette attività “di curatela”, ovvero che esprimono la propria passione imparando a memoria quanti più fatti possibili su una storia o un personaggio, dibattendo quali siano gli episodi migliori di una serie o in quale ordine abbia senso guardare i film di Star Wars, spesso guardano con un certo sospetto, se non con aperta ostilità e persino disgusto, quelle che partecipano ad attività “trasformative”. Ovvero che manipolano le storie che amano, creando arte ispirata ai personaggi o scrivendo racconti – le fanfiction – che coinvolgono questi personaggi o sono ambientati nel mondo immaginato dagli scrittori o dagli sceneggiatori di cui si apprezza il lavoro.
I fandom trasformativi sono composti principalmente di donne e persone LGBTQ+: la giornalista Constance Grady di Vox scrive che è perché «consente a gruppi storicamente emarginati la possibilità di sovvertire la prospettiva, di fare a pezzi una storia e di riformularla a proprio piacimento. Spesso sembra che non ci sia molto spazio per le persone marginalizzate nelle narrazioni culturali dominanti, ma nei fandom c’è volutamente spazio per tutti».
Così, l’illustrazione di una fan può immaginare lo Sherlock Holmes interpretato da Benedict Cumberbatch nella serie della BBC che si bacia con John Watson (interpretato da Martin Freeman), anche se gli sceneggiatori hanno deciso di non far mai diventare la loro relazione esplicitamente romantica. O un’autrice di fanfiction può scrivere trenta capitoli a partire dall’idea che Katelyn Stark sia sopravvissuta al suo assassinio in Game of Thrones e ora cerchi vendetta. La qualità di questi racconti, che molto raramente vengono riletti da qualcuno di diverso dall’autore prima di essere pubblicati, varia moltissimo: tante sono scritte in modo molto amatoriale, magari da ragazze molto giovani per cui le fanfiction sono soltanto un hobby, mentre altre sono talmente avvincenti e apprezzate da portare i loro autori a considerare una carriera nella scrittura professionale.
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Per tante persone, l’appartenenza a un fandom è una parte molto centrale della propria identità: in una lettera a queste comunità pubblicata su Vox nel 2016, la giornalista Aja Romano scrisse di aver inizialmente imparato a programmare, creare gif, editare audio e video e fare altre cose che ora fa per lavoro per poter partecipare più attivamente ai fandom di cui faceva parte. «Fandom è fare l’esperienza di una comunità composta principalmente di donne e persone queer che costruiscono cose insieme, si sostengono a vicenda e imparano le une dalle altre. Il fandom ci rende ogni giorno più acuti, più intelligenti, più talentuosi, più creativi, più sovversivi e politicamente e culturalmente consapevoli», aggiunse Romano.
Le convention esistono ancora oggi, e anche in Italia esistono eventi grandi o piccoli che riuniscono fandom di tutti i tipi: il più grande in assoluto è il Lucca Comics and Games, che si tiene ogni anno tra gli ultimi giorni di ottobre e i primi di novembre e attira decine di migliaia di persone. Ma la maggior parte delle attività si svolge senza dubbio online.
Gli spazi favoriti cambiano in base al genere di fandom: YouTube e Reddit sono molto utilizzati per condividere analisi e teorie soprattutto in forma di video essay, ovvero di video più o meno lunghi in cui ci si addentra in un particolare tema. Per condividere opinioni, novità e meme si usa molto Twitter, mentre per le piccole curiosità funziona molto bene TikTok.
La piattaforma di social networking dove più in assoluto hanno trovato il proprio spazio i fandom – soprattutto quelli “trasformativi” – è però Tumblr: tuttora moltissimi dei contenuti sul sito sono incomprensibili a chi non ha almeno un’infarinatura minima sul gergo del mondo dei fandom.
Ci sono poi tantissimi archivi diversi in cui è possibile trovare decine di migliaia di fanfiction. «Al momento la più usata è AO3, ovvero Archive of our own: è un archivio vecchio stile, privo di raccomandazioni algoritmiche, anche se ora si sta considerando di introdurle», spiega Eleonora Caruso, che tiene un corso di fanfiction alla Scuola Holden di Torino. «In Italia poi abbiamo EFP, che sta per Erica’s Fanfiction Page: una volta era frequentatissimo, ma ha perso un po’ di popolarità perché ormai tantissimi leggono in inglese e trovano addirittura imbarazzante leggere in italiano. Ma ne sono usciti diversi autori che hanno poi fatto carriera, come Virginia de Winter, che ha cominciato scrivendo fanfiction su Harry Potter».
Critiche e controversie
Come molte altre sottoculture, anche i fandom vengono spesso visti con sospetto: negli anni Novanta, la polizia inglese cominciò addirittura a raccogliere dei fascicoli che contenevano informazioni sulle vite e gli spostamenti di vari fan di serie di fantascienza come Star Trek e X-Files perché temevano che si trasformassero in pericolose sette. «Ciò che preoccupa è la devozione che alcuni gruppi e individui hanno nei confronti dei contenuti di questi programmi», si legge nei loro documenti. «Il problema è che un numero crescente di persone non li tratta come intrattenimento e trova impossibile separare la fantasia dalla realtà».
Secondo Constance Grady, di Vox, l’allarmismo che nasce attorno all’idea che chi appartiene ai fandom sia un individuo ossessivo e instabile è direttamente legato al sessismo. «Storicamente, ogni volta che le giovani donne sono interessate a una forma culturale, ci piace dire che sta facendo loro del male e che sono sbagliate se si appassionano a quella cosa, a meno che quei prodotti culturali non diventino di massa, e in tal caso non sono più “cose da femmine” e quindi vanno bene», scrive Grady. «I romanzi erano considerati pericolosi e si credeva che facessero impazzire le donne, fino a quando non sono diventati dei classici degni di essere studiati all’università. La passione per i Beatles era da persone ottuse, oziose e fallite, fino a quando i Beatles non sono diventati una band amata da tutti».
Questo non vuol dire che non ci siano elementi problematici all’interno dei fandom. Uno dei problemi ricorrenti sono le cosiddette “shipping wars”, in cui con “shipping” non si intende il trasporto marittimo ma un verbo creato dall’abbreviazione di “relationship”, ovvero “relazione” in inglese. Intere comunità sono estremamente divise al proprio interno tra vari gruppi che difendono strenuamente l’idea che una certa coppia di personaggi dovrebbe finire per stare insieme facendo nascere una “ship”, e che si offendono a vicenda, spesso anche pesantemente, arrivando ad accusarsi di pedofilia, razzismo o omofobia.
Un altro grosso problema è il “gatekeeping”, ovvero la tendenza di alcune comunità a rifiutarsi di includere nuove persone che pur condividono la stessa passione, pensando che siano in cattiva fede, che non conoscano davvero bene il prodotto culturale in questione o che lo stiano facendo soltanto per attirare attenzione. O, nel peggiore dei casi, per distruggere il fandom dall’interno. È una delle interpretazioni che è stata data al cosiddetto Gamergate, uno dei periodi di misoginia più violenti della storia di internet, nato come reazione alla percepita eccessiva apertura del mondo dei videogiochi alle donne, a partire dalla convinzione che quel mondo dovesse rimanere prettamente maschile.
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L’impatto culturale
La storia di Arthur Conan Doyle e della riluttante resurrezione del personaggio di Sherlock Holmes – ma anche della continuazione di Star Trek dopo che era stato inizialmente cancellato – dimostra che, fin da quando sono esistiti, i fandom hanno avuto un certo potere sulle storie che amavano, nonostante coinvolgano una minoranza delle persone che consumano regolarmente libri, musica, film e serie tv.
Oggi, i fandom sono presi in grossa considerazione dall’industria dell’intrattenimento. Sia perché, passando moltissimo tempo online a discutere delle storie che amano, «smontando le scene in cerca di indizi, ascoltando dialoghi con l’attenzione di un agente sotto copertura», come aveva scritto la giornalista Shirley Li sull’Atlantic, mettono talvolta in difficoltà autori e sceneggiatori, svelando prima del previsto le prossime evoluzioni della storia. Sia perché sono composti da consumatori fidelizzati, a cui è particolarmente semplice vendere gadget o esperienze tematiche: Netflix, ad esempio, ha capitalizzato moltissimo su questa consapevolezza, costruendo dei negozi temporanei a tema in grandi città come Londra, New York e Parigi in concomitanza con l’uscita di serie a cui tiene particolarmente, come Stranger Things.
«Fino a poco tempo fa, le aziende hanno ampiamente tollerato le persone che volevano far propri i mondi immaginari di cui non possedevano la proprietà intellettuale, basandosi sulla teoria che prendere di mira i fan non fosse una buona strategia di marketing», ha scritto la studiosa di legge sul diritto d’autore Madhavi Sunder. «Quando nelle università cominciarono a spuntare i campionati di Quidditch (lo sport inventato da J.K. Rowling nella saga di Harry Potter, ndr), la Warner Brothers prese in considerazione l’idea di appropriarsene come parte del franchise di Harry Potter, ma alla fine decise di non farlo. Oggi ci sono più di 300 squadre di Quidditch in giro per il mondo. Ma nel frattempo l’idea di fare soldi vendendo esperienze è cresciuta, e i consumatori (soprattutto millennial) preferiscono fare cose piuttosto che possederle: quindi, molti creatori di prodotti culturali stanno rivedendo il loro atteggiamento lassista in materia, e ora ci sono sempre più sforzi per far pagare i fan per le attività che per anni hanno fatto gratis».
Così, l’organismo legale che gestisce la proprietà intellettuale di J.R.R. Tolkien ha fatto chiudere un campo estivo dedicato al Signore degli Anelli, la DC Comics ha chiesto a un produttore d’auto di smettere di vendere repliche a grandezza naturale della Batmobile, e la Disney ha fatto causa a un produttore di giochi per aver creato una versione per cellulare di un gioco di carte immaginario proveniente dall’universo di Star Wars. Cartoon Network ha fatto chiudere un bar ispirato al cartone animato Rick and Morty a Washington e la Warner Bros un locale che ricreava la Sala Grande della Scuola di magia di Hogwarts. Qualche anno fa, poi, l’idea di alcuni fan italiani di creare un film prequel che raccontasse la storia di Voldemort, l’antagonista della saga di Harry Potter, era stata molto ridimensionata dopo un intervento della Warner Bros.
«Di fatto, che piaccia o meno, la produzione dei fan contribuisce allo sviluppo dell’universo narrativo collegato al testo originale tanto quanto le produzioni ufficiali», dice Benecchi. «Ed è un fenomeno che con la rete è impossibile limitare». In alcuni casi, anzi, una maggioranza dei fan ha una visione su come dovrebbe andare una storia che è in totale contrasto con il modo in cui gli sceneggiatori la stanno immaginando: è successo per esempio con la serie Supernatural, il cui fandom ha chiesto a gran voce per anni e anni che fosse esplicitata una relazione tra due dei personaggi principali.
Secondo l’autrice di libri fantasy Licia Troisi, che negli ultimi vent’anni ha scritto diverse saghe di successo, tra cui Le cronache del mondo emerso e La ragazza drago, «il modo migliore per essere fedeli al fandom è essere fedeli a sé stessi, quindi cerco di non lasciarmi influenzare da quello che mi chiedono. I lettori credono spesso di volere che succeda una cosa, ma vogliono in realtà essere stupiti, anche se dovesse essere in negativo. Fa parte del gioco».
Troisi racconta anche come la sua casa editrice in passato abbia indetto dei piccoli concorsi per i fan, offrendo loro la possibilità di modificare leggermente qualche elemento di trama. «In un caso, potevano scegliere un oggetto da inserire nella trama: scelsero una clessidra, e mi piacque talmente tanto come idea che la misi addirittura al centro della trama. Recentemente alcuni lettori mi hanno detto che gli piacerebbe che ci fosse una storia d’amore LGBT nei miei prossimi libri, ed era una cosa a cui pensavo già da tempo».
La convinzione che i fandom siano molto importanti per l’industria culturale ha però portato negli ultimi anni anche ad alcune storture. Con la massiccia adozione dei social network, questo senso di importanza è aumentato, soprattutto grazie a piattaforme come Tumblr e Twitter, dove i fan possono esprimere in tempo reale le proprie opinioni e delusioni sulla nuova stagione di un telefilm o sull’ultima dichiarazione di una celebrità sapendo che sceneggiatori, artisti e critici frequentano lo stesso spazio digitale e leggeranno almeno una parte dei commenti.
Da una parte questo ha portato alla convinzione, da parte di alcuni fan, che le persone che creano le storie a cui loro sono affezionati dovrebbero ascoltare le loro lamentele e cambiare la propria visione per soddisfare le aspettative di una parte del fandom. «Pensiamo a quello che è successo con gli ultimi film di Star Wars, quando hanno provato a inserire nuovi personaggi appartenenti a minoranze etniche e quegli attori sono stati insultati in massa online», dice Benecchi. «In quel caso, parliamo di un fandom che è da sempre abituato a vedere rappresentato un certo tipo di realtà, e che nel momento in cui vengono introdotte variazioni per rappresentare anche altre popolazioni marginalizzate lo vedono come un allontanamento dalle loro aspettative».
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