Poi qualcosa non è andata come doveva andare, a Cuba
«È sparita pure la prudenza delle persone quando si prova a farle parlare di politica. Con maggiore o minore indulgenza per l’operato del governo, maggiore o minore risentimento nei confronti dell’embargo, quasi tutti, potendo, vorrebbero andarsene»
Esiste una immagine che rappresenta perfettamente certi abbagli che può prendere la Storia. Risale al marzo del 2016: visita di Barack Obama a Cuba. La foto lo ritrae subito dopo il suo discorso trasmesso in diretta dalla televisione di stato. Un discorso straripante di parole come giovani, futuro, internet, cambiamento. Al suo fianco, nella fotografia, l’allora presidente cubano Raul Castro gli solleva un braccio. Non è solo un segno di cortesia per l’ospite. Somiglia piuttosto al gesto di un pugile sconfitto che sportivamente riconosce la vittoria dell’avversario. Pochi giorni dopo i Rolling Stones suonarono alla Ciudad Deportiva dell’Avana di fronte ad alcune centinaia di migliaia di persone. Mick Jagger aprì il concerto con una frase in spagnolo: los tiempos están cambiando, in citazione del vecchio titolo dylaniano.
Insomma, pareva fatta: fine di una guerra sorda durata più di mezzo secolo, progressiva fine dell’embargo, inizio di una nuova era per Cuba (e forse anche per gli Stati Uniti).
Poi, invece qualcosa non è andata per il verso giusto. La storia ha deragliato da binari che sembravano ormai sicuri e Cuba si trova oggi, 7 anni dopo, nell’identica situazione di prima, con in più il peso di una disillusione che sembra voler spegnere la celebrata vitalità dei suoi abitanti.
Sessant’anni di assedio commerciale, più il Covid, più la mancanza di materie prime, più un debito pubblico che scoraggia qualsiasi partner commerciale: fattori concomitanti che hanno spinto specie i giovani a desiderare quasi unanimemente l’espatrio. Secondo fonti statunitensi solo nell’arco del 2022 sono emigrati quasi 250mila cubani. Vale a dire il 2 per cento della popolazione, il 4 per cento della popolazione attiva del paese. Tutti giovani, potenziale classe dirigente, forza lavoro. La via di fuga non è più tanto il braccio di mare che separa l’isola dalle coste della Florida. Adesso i migranti atterrano in Nicaragua senza bisogno di visto e spariscono dai radar fin quando ricompaiono negli USA, dove in quanto rifugiati cubani godono di una specie di corridoio privilegiato. È pur vero che da altri paesi dell’area caraibica i giovani scappano anche di più, senza bisogno di corridoi privilegiati e senza la spinta di nessun embargo. Si fugge dalla fame, insomma, non dal comunismo, che ormai a Cuba risulta abbastanza annacquato. La fame è il movente, come da tutti i sud verso tutti i nord del pianeta. L’errore sta nel considerare l’isola come se fosse un paese del primo mondo, e non lo è. Cuba è un paese povero, dove la povertà è spalmata, meno evidente che altrove, ma sostanzialmente povero. E impoverito ulteriormente dall’embargo.
Nelle strade si incontrano pochi mendicanti, e se qualcuno si avvicina è per chiedere qualcosa che i turisti stentano a concepire: paracetamolo. Non ci sono medicinali, a Cuba. Il paradosso è quello di un sistema sanitario considerato modello per molti anni, oggi messo in condizioni di impotenza dalla mancanza di attrezzature moderne e persino semplici aspirine. Anche il celebrato sistema scolastico capillare è stato messo in crisi dal Covid, e la formazione delle prossime generazioni è un punto interrogativo. Il turismo, fonte di valuta pregiata e prima industria del paese, non si è ancora ripreso dalla pandemia. I grandi alberghi che appartengono allo Stato sono completamente vuoti perché mancano all’appello i grandi gruppi organizzati: e i russi specialmente, che a Cuba sono sempre stati numerosi. I camerieri dei ristoranti di stato ogni giorno indossano la divisa e apparecchiano i tavoli a regola d’arte, ma se qualche cliente si presenta la risposta è che da mangiare non c’è niente. Il turismo che funziona fa capo alle casas particulares: famiglie che cedono ai viaggiatori una stanza della loro abitazione. Una esperienza immersiva per i turisti, un’economia sommersa difficile da quantificare, per Cuba.
Anche gli osservatori più politicamente allineati col governo non negano che i problemi a Cuba ci sono e sono gravi. Il carisma di Fidel Castro ha tenuto assieme il paese oltre ogni logica, anche dopo la sua morte. L’abbrivio è durato fino a tutta la presidenza del fratello Raul. Oggi il presidente si chiama Diaz-Canel e invano cerca popolarità affiancando la propria immagine a quella dei predecessori nella cartellonistica di propaganda. Il collante che teneva assieme la nazione si è disseccato, nessuno pensa più a riverniciare i vecchi slogan rivoluzionari sui muri dell’isola. Le sedi delle innumerevoli sezioni di partito, comitati, delegazioni, consigli e deputazioni rimangono vuote. È sparita pure la prudenza delle persone quando si prova a farle parlare di politica. Con maggiore o minore indulgenza per l’operato del governo, maggiore o minore risentimento nei confronti dell’embargo, quasi tutti, potendo, vorrebbero andarsene.
Aspettando l’occasione buona, ci si arrangia con un bricolage di sussistenza spiccia. Almeno un componente di ogni famiglia si dedica quotidianamente al reperimento delle risorse. Al mattino si esce da casa con un po’ di soldi in tasca in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa. Le merci arrivano nei negozi a fiotti, non sempre nei negozi competenti. Una rivendita di cornici può intercettare una fornitura di bibite gasate e grazie al passaparola subito si crea una coda di clienti. Le bibite di cui ciascuno riesce a fare incetta verranno poi rivendute oppure scambiate con qualcos’altro. La stagione delle grandi speranze si è ridotta a questa piccola economia estemporanea.
La scorsa estate ci sono state alcune manifestazioni di piazza. Erano motivate dagli esasperanti apagones, interruzioni dell’elettricità che duravano per molte ore. Adesso il problema è scomparso grazie a un paio di grandi navi-generatore spedite dalla Turchia (Erdogan vuole giocare anche su questa scacchiera) che stazionano stabilmente nel porto dell’Avana. E assieme al problema degli apagones sono scomparse anche le manifestazioni di piazza.
Cos’è successo, allora, per cui la Storia ha deragliato dopo la famosa visita di Obama? Probabilmente qualcosa è andato storto nel lavoro diplomatico che avrebbe dovuto seguire. Qualcuno ha preteso troppo, qualcun altro si è irrigidito. Poi è venuto Trump e addio: durante la sua presidenza sono state emanate a vario titolo 243 sanzioni contro Cuba. E adesso Biden, che finora ha mantenuto il sostanziale cappio commerciale attorno al collo di Cuba. I cubani sostengono che gli Stati Uniti non si accontentano di un vicino neutrale: facendo leva sulla fame hanno capito che possono avere qualcosa di più. Bisogna capire cosa, e fino a che punto sull’isola saranno disposti a cedere. In generale l’impressione è che i cubani, forse persino il governo cubano, sarebbero ancora ben disponibili a una resa onorevole.
Nel frattempo l’aria che tira è un si-salvi-chi-può solo screziato di orgoglio nazionale. Gli osservatori più accreditati immaginano un cambiamento in tempi brevi. Ed effettivamente la sensazione è questa, di vigilia. In spagnolo i verbi aspettare e sperare coincidono con un’unica parola: esperar. I cubani questo fanno: esperan. Aspettano e sperano. Il problema è che quest’atmosfera di attesa si respira a Cuba almeno dai tempi della caduta dell’Unione Sovietica. Sono passati più di trent’anni e ancora dura, questa vigilia.