L’irripetibile Sampdoria di Vialli e Mancini
Una grande storia del campionato italiano, e una delle tante cose che Gianluca Vialli ha lasciato al nostro calcio
di Pietro Cabrio
Gianluca Vialli è morto venerdì 6 gennaio a 58 anni. Viene ricordato non solo in Italia, dove trascorse gran parte della sua carriera da calciatore e poi da opinionista televisivo, ma anche all’estero: per i suoi anni al Chelsea da giocatore e allenatore, e per la sua apprezzata presenza in diverse trasmissioni televisive.
La sua storia nel calcio ha avuto quindi tanti momenti e varie forme: per ultima la vittoria degli Europei come capo delegazione della Nazionale allenata dal suo amico Roberto Mancini, mentre era già malato. E proprio con Mancini, ma negli anni Novanta, formò una memorabile coppia d’attacco che diede un contributo decisivo alla vittoria del primo e unico Scudetto nella storia della Sampdoria.
A distanza di oltre trent’anni, quella squadra rimane una delle storie più belle del calcio italiano, anche se in questo periodo i tifosi la ricorderanno con più nostalgia del solito, per la scomparsa di uno dei suoi grandi protagonisti e per la preoccupante situazione economica e sportiva in cui è stata portata dall’attuale proprietà.
La Sampdoria che il 19 maggio del 1991 vinse l’ultimo Scudetto per la città di Genova — e l’ultimo non vinto da una squadra di Torino, Milano o Roma — era stata costruita lentamente negli anni Ottanta su iniziativa del proprietario, il petroliere Paolo Mantovani, che nel 1979 la prese dalla Serie B e in tre anni la riportò in Serie A.
L’ossatura della squadra che poi divenne campione d’Italia si formò in particolare tra il 1982 e il 1986. In quel periodo vennero acquistati non ancora ventenni sia Mancini dal Bologna che Vialli dalla Cremonese. A Genova divennero due fra i migliori attaccanti italiani dell’epoca: per il loro affiatamento, in campo e fuori, vennero soprannominati “gemelli del gol”, e dopo essersi separati contribuirono alle vittorie di Lazio e Juventus.
Ma la Sampdoria campione d’Italia fu anche la squadra di Gianluca Pagliuca, che poi divenne il portiere dell’Inter, dei difensori Pietro Vierchowod e Moreno Mannini, del capitano Luca Pellegrini, del brasiliano Toninho Cerezo e dell’esterno Attilio Lombardo. E tanti altri ci passarono prima, come Liam Brady, Trevor Francis e Graeme Souness. Furono tutti messi insieme in un gruppo creato da due figure istrioniche e per tanti aspetti all’avanguardia come Mantovani e l’allenatore slavo Vujadin Boskov.
Boskov arrivò a Genova nel 1986 dopo due stagioni all’Ascoli: era stato portato lì dalla Juventus, di cui sarebbe dovuto diventare allenatore, per dargli il tempo di conoscere meglio il calcio italiano dopo aver allenato il Real Madrid nei quattro anni precedenti. Ma per una serie di coincidenze, dopo Giovanni Trapattoni alla Juventus finì Rino Marchesi, e Boskov potè quindi andare alla Sampdoria.
Era stato un grande giocatore tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma per molto tempo non poté lasciare il suo paese e la sua squadra — il Vojvodina di Novi Sad — per il divieto di espatrio imposto all’epoca ai calciatori jugoslavi. A lui, come a tanti altri connazionali, fu concesso di lasciare il paese soltanto a fine carriera, nei primi anni Sessanta, quando arrivò proprio alla Sampdoria, per una stagione.
Ritornato a Genova da allenatore, iniziò a formare una squadra con giovani promettenti come Vialli e Mancini e altri più esperti, proponendo un calcio propositivo e concreto, e lasciando negli anni una serie di memorabili citazioni.
Fin dalla prima stagione la squadra ebbe un costante miglioramento. Nel 1987 arrivò sesta in campionato; l’anno successivo quarta e vinse la Coppa Italia, trofeo che mantenne anche l’anno dopo. Grazie a questi due successi giocò la Coppa delle Coppe del 1990, e la vinse in finale contro i belgi dell’Anderlecht proprio grazie a due gol di Vialli.
Dopo aver vinto tutto quello che aveva potuto, la Sampdoria iniziò la stagione 1990/91 sperando che potesse essere quella giusta. Era diventata ormai una squadra matura, formata da un gruppo molto unito: «Una famiglia dove comandava Paolo Mantovani e dove si pensava alla Sampdoria 24 ore al giorno» ricordò in seguito Vialli. E questa unità arrivò in qualche modo anche ai tifosi, con cui si creò una connessione speciale.
Oltre a questo, le condizioni delle altre squadre si dimostrarono favorevoli a un risultato inedito per il campionato italiano. Il Napoli campione d’Italia in carica stava disputando una stagione deludente nella quale, oltre al logoramento di una squadra arrivata alla fine di un ciclo, si riflettevano i problemi con cui era alle prese Diego Armando Maradona, che a marzo del 1991 giocò proprio contro la Sampdoria la sua ultima partita in Italia. Anche la storia del Milan di Arrigo Sacchi, l’altra grande squadra italiana di quel periodo, si stava esaurendo.
Con la Juventus ancora in fase di ricostruzione e l’Inter alla fine del ciclo vincente con Trapattoni, a metà stagione soltanto il Milan teneva il passo della Sampdoria, che in estate il direttore sportivo Paolo Borea aveva rinforzato nei punti giusti acquistando un elegante ed esperto centrocampista sovietico, Oleksij Mychajlychenko, e Marco Branca come riserva di Vialli e Mancini in attacco.
Con il maggior numero di vittorie in stagione (20), il minor numero di partite perse (3), la seconda miglior difesa del campionato e il miglior attacco — sostenuto dai 19 gol del capocannoniere Vialli e dai 12 di Mancini — il 19 maggio, alla penultima giornata di campionato, la Sampdoria raggiunse i 50 punti in classifica e vinse matematicamente lo Scudetto davanti a Milan, Inter e ai rivali del Genoa, che spinti anche dai successi paralleli della Sampdoria disputarono la loro miglior stagione in Serie A in decenni.
La storia di quella Sampdoria non finì lì, ma non durò ancora per molto. Terminò di fatto un anno dopo a Wembley con la dolorosa sconfitta contro il Barcellona allenato da Johan Cruijff nella finale di Coppa dei Campioni, e con un sesto posto in campionato.
Alla fine di quella stagione lasciarono Boskov e gran parte dei giocatori che formavano l’ossatura della squadra. L’anno successivo Cerezo tornò in Brasile e Vialli andò alla Juventus. Mantovani, malato di cancro ai polmoni, morì il 14 ottobre 1993 lasciando il club al figlio Enrico, che lo gestì per un decennio con alcune difficoltà che culminarono con la retrocessione in Serie B del 1999.
– Leggi anche: Il primo e unico Scudetto del Cagliari