L’industria dei giochi da tavolo fa i conti col colonialismo
Da anni è in corso un dibattito sui giochi che si basano su logiche di sfruttamento di territori e popoli, ma qualcosa sta cambiando
Ogni anno, da anni, vengono pubblicati circa 3000 nuovi giochi da tavolo, e sia per gli appassionati che per chi vuole avvicinarsi a questo hobby esistono ormai giochi adatti a qualsiasi gusto. C’è quello che ti invita a riconoscere le più diverse specie di uccelli, quello in cui bisogna trovare e fermare Hitler e quello in cui collabori con gli amici per evitare la diffusione di malattie altamente contagiose, oltre alle tantissime edizioni diverse di classici come Monopoli.
Una categoria di giochi particolarmente apprezzata dai giocatori e dalla critica è quella dei cosiddetti “Eurogames”, o “in stile tedesco”, chiamati così perché si sono sviluppati a partire dagli anni Ottanta in Germania. Nella categoria rientrano pienamente classici moderni come Catan, Carcassonne, Alta Tensione e Puerto Rico. Negli Eurogames, i giocatori non combattono direttamente tra loro, ma sviluppano strategie per accumulare risorse e ottenere punti. Inoltre non vengono mai eliminati dal gioco e l’elemento della fortuna è molto limitato. Un’altra caratteristica del genere è che le regole sono spesso piuttosto semplici da imparare e che le partite non sono molto lunghe, il che è ideale per le persone a cui piace giocare ma senza impegnarsi per mezza giornata.
Normalmente, gli Eurogames hanno una specifica ambientazione storica e geografica, che serve principalmente a fare da sfondo a meccaniche di gioco basate sull’estrazione e l’accumulazione delle risorse. Da tempo, però, sia tra gli accademici che studiano i giochi da tavolo come fenomeno culturale sia tra i critici e gli appassionati che ne discutono su forum specializzati come BoardGameGeek è in corso una conversazione sul fatto che molti di questi giochi siano ambientati al tempo del colonialismo, il periodo iniziato con la conquista dell’America in cui le potenze europee acquisirono il controllo di grandi territori in altri continenti, sfruttandone le risorse e sottomettendone le popolazioni. Il problema nasce dal fatto che le dinamiche di questi giochi richiedono ai partecipanti di immaginare di essere proprietari di piantagioni o colonizzatori il cui scopo è rendere più produttivi e civilizzati i territori conquistati.
L’esempio più eclatante è quello di Puerto Rico, che è uscito nel 2002 e da anni è molto in alto nella lista dei giochi da tavolo migliori di sempre stilata da BoardGameGeek: nella più recente era al 38esimo posto. I giocatori sono chiamati a interpretare un gruppo di magnati europei che attraversano l’Atlantico dopo l’arrivo dei primi esploratori spagnoli nelle Grandi Antille, arrivando sull’isola di Porto Rico. Il libretto delle regole introduce il gioco così:
Cercatore d’oro, capitano, sindaco, colonizzatore, artigiano oppure costruttore? Quale ruolo interpreterai nel nuovo mondo? Possiederai le piantagioni più floride? Costruirai i palazzi di maggior valore? Hai un solo obiettivo: ottenere il maggior benessere e il più alto rispetto!
Per ottenere «benessere e rispetto», nel proprio turno i giocatori cercano di trasformare il territorio in un ordinato insediamento imperiale del Sedicesimo secolo: piantano tabacco, zucchero e mais dove prima c’erano terreni incolti, trasformano scogliere rocciose in porti utili a rispedire le merci prodotte attraverso l’oceano, costruiscono città. Il tutto avviene grazie all’aiuto di quelli che il gioco chiama “coloni”, che nelle prime edizioni del gioco erano rappresentati da piccoli dischi marroni e arrivavano su delle navi per lavorare nelle piantagioni dei giocatori.
Il tema del colonialismo non è proprio solo di Puerto Rico: sia in Goa (2004) che in Macao (2009) i giocatori interpretano dei coloni portoghesi a cui viene chiesto di commerciare spezie e appropriarsi di territori. In Mombasa (2015), i giocatori sono a capo di una compagnia imperiale britannica che sta invadendo l’Africa orientale. Anche il popolarissimo I coloni di Catan, che è arrivato prima di tutti gli altri (nel 1997), si basa su meccaniche estrattive simili: nel suo caso, le risorse vengono estratte da una landa immaginaria, vuota ma produttiva, in cui l’unico abitante oltre ai giocatori è il Brigante, che comunque lavora per conto di un giocatore o l’altro.
«La maggior parte di questi giochi da tavolo non è “pro-colonialista”, ovviamente. Ma simula una lunga storia di imperialismo europeo, il che significa necessariamente che molti di noi passano intere serate a cercare di capire il modo più efficiente per sfruttare le risorse (e talvolta la gente) di una terra appena “scoperta”», riassume Aaron Zimmerman su Ars Technica.
Già nel 2016, sulla rivista accademica Analog Game Studies, la ricercatrice Nancy Foasberg scriveva che diversi Eurogames usciti dopo Catan sono basati sulla percezione del territorio su cui si muovono i giocatori come di una “terra di nessuno”, ma al contrario di Catan sono ambientati in paesi reali, dove il colonialismo ha veramente estratto moltissime risorse. Così facendo, dice Foasberg, questi giochi «usano l’astrazione per trasformare territori reali, ex colonie, in terre di nessuno. Anche i crudeli imperi coloniali dei secoli scorsi possono essere trasformati in una pacifica competizione tra colonizzatori, senza che appaia mai un indigeno, o uno schiavo».
Secondo la studiosa, questi giochi
tendono a celebrare la produttività del colonialismo, con una rappresentazione che consente ai giocatori di provare il gusto di gestire un territorio in modo efficiente e acquisire ricchezza, ma al contempo sostenendo implicitamente l’ideologia colonialista secondo cui i territori fuori dall’Europa non appartenessero a nessuno prima dell’arrivo dei coloni. (…) Cancellando le popolazioni colonizzate dalle nostre rappresentazioni del colonialismo, questi giochi perpetuano una narrazione che dà la priorità alla ricchezza dei potenti e ai piaceri della costruzione di un impero che crea quella ricchezza, ignorando la violenza attraverso la quale viene acquisita. È possibile considerare questi giochi come nonviolenti solo perché la loro violenza è nascosta, e le loro vittime cancellate.
Nella maggior parte dei casi, infatti, questi giochi non fanno riferimento alle eventuali popolazioni indigene che abitavano su quei territori prima dell’arrivo dei coloni. In altri casi, come in Archipelago (2012), i giocatori vengono avvisati di «stare attenti ai nativi», perché «se sono troppo infelici o se troppi di loro sono disoccupati, potrebbero ribellarsi e dichiarare indipendenza. In quel caso, tutti perderanno!»
Secondo Bruno Faidutti, game designer e accademico francese che ha scritto una lunga riflessione sul tema, il motivo principale per cui così tanti Eurogames sono ambientati in epoca coloniale è puramente pratico: i giochi da tavolo si basano per loro natura principalmente su pezzi di cartone bidimensionali, e immaginare un gioco a partire da una mappa è piuttosto facile. «L’ambientazione di un gioco deve essere molto semplice e intuitiva, e funziona al meglio quando utilizza collegamenti già conosciuti dai giocatori, non quando cerca di introdurne di nuovi. Le ambientazioni prese in prestito dalla cultura pop, come le saghe di fantascienza o fantasy, sono ottime per questo, ma non le conoscono tutti. Le ambientazioni esotiche semplificate sono meglio, perché le riconoscono più persone. Inoltre, i giochi da tavolo sono spesso giocati da adulti e bambini insieme, e quindi richiedono ambientazioni e immagini “infantili”, riconoscibili da varie generazioni di persone», ha scritto Faidutti.
Ma secondo Lukas Boch, ricercatore tedesco specializzato nella rappresentazione della storia nei giochi da tavolo, il fatto che l’industria dei giochi da tavolo sia stata (e sia tuttora) prevalentemente composta da uomini bianchi ha fatto sì che la gravità delle prevaricazioni compiute dagli europei sulle popolazioni indigene in epoca coloniali fosse sottovalutata.
«Gli autori semplicemente mancavano (e talvolta mancano ancora) del senso dell’inconcepibile crudeltà associata alla colonizzazione, che rende il tema molto delicato per tante persone. Nei primi anni Duemila sapevamo già quali crimini erano stati commessi durante il colonialismo, ma le persone che danno importanza al tema non erano rappresentate nella comunità dei giochi da tavolo», ha detto Boch. «Ora, però, la comunità dei giochi da tavolo sta diventando sempre più globale, e giochi che originariamente erano stati prodotti per determinati mercati vengono venduti in tutto il mondo. All’improvviso, giochi come Puerto Rico vengono giocati anche da persone che provengono dalla vera Porto Rico, quindi non dovremmo sorprenderci che ci sia della resistenza».
Le discussioni in materia dividono la comunità degli appassionati di giochi da tavolo da anni: da una parte c’è chi vuole vedere questo hobby come un semplice piacere escapista, da proteggere da interpretazioni che ritiene troppo politiche, dall’altra esiste una tendenza crescente a vedere i giochi da tavolo come un fenomeno culturale influente, e quindi degno di essere criticato e analizzato come si fa con film, libri e altri prodotti culturali. Una delle discussioni più lunghe e intense della storia della piattaforma BoardGameGeek, per esempio, verte proprio sulla simbologia del colonialismo all’interno di Puerto Rico.
Queste nuove sensibilità stanno cominciando a cambiare anche l’industria. Nel 2019 sarebbe dovuto uscire un gioco di guerra chiamato Scramble for Africa (“Spartizione dell’Africa” in inglese), ma la casa produttrice ne ha annullato la pubblicazione dopo moltissime lamentele. Mombasa e Maracaibo – altri due giochi ambientati in epoca coloniale – nelle edizioni più recenti riconoscono apertamente la crudeltà del tema e includono qualche dato storico, sottolineando che «le compagnie commerciali erano associazioni formate con lo scopo di esplorazione, commercio e colonizzazione, il che le collega indissolubilmente a un capitolo molto oscuro della storia umana: il colonialismo». Il suo creatore, Alexander Pfister, nel 2021 ha pubblicato anche un’espansione di Maracaibo chiamata The Uprising, che permette ai giocatori di interpretare personaggi indigeni che lavorano insieme per liberare le città dal dominio coloniale.
– Leggi anche: Fino agli anni Cinquanta sono esistiti gli “zoo umani”
Per quanto riguarda Puerto Rico, le edizioni più recenti del gioco sono state leggermente modificate: i dischetti che rappresentano i coloni non sono più marroni (colore che ricordava la pelle degli schiavi portati in America dall’Africa), ma viola, e nel regolamento ora si incoraggiano i giocatori a studiare la storia del colonialismo «e i danni che ha causato in tutto il mondo». E l’anno scorso la casa editrice di Puerto Rico ha pubblicato Puerto Rico 1897, creato da un gruppo di game designer indigeni. Questa volta, la descrizione del gioco dice:
Siamo nell’anno 1897. Porto Rico cerca di riorganizzarsi per il mondo moderno e di lasciarsi alle spalle l’era del colonialismo. I giocatori si calano nei ruoli di agricoltori portoricani che competono per assumere lavoratori, coltivare lo zucchero e il tabacco, vendere merce preziosa e per creare un’importante infrastruttura cittadina. Vince l’agricoltore che riesce a ottenere più prestigio.
Negli ultimi anni, poi, sono usciti diversi giochi di alta qualità che hanno lo scopo dichiarato di allontanarsi dalle dinamiche estrattive degli Eurogames classici, mettendo al centro del gioco tematiche apertamente anticolonialiste e ambientaliste. Il più famoso è Spirit Island, che al momento occupa la decima posizione nella lista dei giochi da tavolo migliori di sempre per BoardGameGeek: è un gioco cooperativo in cui ognuno interpreta il ruolo di uno spirito della natura, chiamato a proteggere un’isola dagli europei che vogliono colonizzarla, distruggendone le foreste e costruendo insediamenti.
«Penso che nella comunità ci sia una comprensione crescente del fatto che una rappresentazione sterilizzata del colonialismo, che ne omette i crimini, sia problematica. Anche se nel tuo gioco non stai descrivendo torture, stupri, massacri, schiavitù e genocidio, stai promuovendo una falsa narrazione sul colonialismo, che nel mondo reale è stato responsabile di tutti questi crimini», ha detto il creatore di Spirit Island, R. Eric Reuss.