I problemi dell’archeologia misteriosa
Usare teorie complottiste e fantascientifiche per spiegare i pezzi che ci mancano della storia umana porta con sé dei rischi
di Luca Misculin
Da un paio di mesi uno dei documentari più popolari di Netflix è interamente incentrato su una teoria, screditata da decenni, secondo cui alcune delle principali civiltà antiche furono aiutate nel loro sviluppo da una mitica e ormai perduta popolazione avanzatissima, scomparsa per via di un disastro naturale. La serie si intitola L’antica apocalisse, è stata realizzata dal controverso giornalista britannico Graham Hancock, ed è stata stroncata con nettezza dagli archeologi di mezzo mondo.
Non che ci voglia molto: basta avere qualche rudimento di storia antica per notare le molte imprecisioni, omissioni e falle logiche nelle sei puntate della serie. Ma la sua popolarità ha riaperto un dibattito sul modo piuttosto superficiale con cui lo studio delle civiltà antiche e più nello specifico l’archeologia, cioè lo studio dei resti materiali lasciati dalle persone vissute nel passato, entrano nel dibattito pubblico.
«Qualche anno fa una persona che non conoscevo a cui ero seduta accanto in aereo mi chiese che lavoro facevo. Gli dissi che ero un’archeologa e che mi occupavo in particolare della civiltà Maya», ha raccontato Sarah Kurnick in una recente conferenza del ciclo TEDx. «Lui mi rispose “Wow, adoro l’archeologia!”, e mi raccontò di quanto lo eccitasse leggere di nuove scoperte. Poi commentò quanto fosse incredibile che un gruppo di alieni del pianeta Nibiru fosse arrivato sulla Terra per fondare la civiltà sumera, in Mesopotamia. Mi capita spesso di avere conversazioni del genere».
Dal Secondo dopoguerra moltissimi prodotti della cultura popolare fra libri, film, fumetti, documentari e serie tv hanno descritto lo studio della storia antica e in particolare l’archeologia come il tentativo di risolvere alcuni punti oscuri della storia umana. In parte è davvero così, ma molti di questi prodotti hanno preferito dare credito a teorie strampalate e complottiste, piuttosto che concentrarsi sui pochi punti fermi che ci sono noti e trattare con prudenza tutto il resto, come del resto prevede l’applicazione del metodo scientifico. È così, per esempio, che la soppressione caotica e poco chiara dell’ordine dei cavalieri Templari, nel Medioevo, ha dato origine a innumerevoli leggende sul loro conto, poi condensate nel romanzo di Dan Brown Il codice Da Vinci.
Una certa dose di enfasi e banalizzazione è inevitabile quando una scoperta scientifica viene maneggiata da sceneggiatori, scrittori e giornalisti. Ma capita anche che alcune tesi trovino grande spazio nonostante lo scetticismo della comunità scientifica. Ancora oggi i giornali tendono a dare moltissimo risalto ad annunci e teorie piuttosto improbabili, ma in qualche modo percepite come affascinanti. Qualche anno fa per esempio i principali quotidiani italiani diedero ampio spazio alla teoria che il cosiddetto cavallo di Troia descritto nei poemi omerici fosse una nave, promossa da un archeologo italiano: ma la teoria, benché affascinante e non esattamente campata per aria, aveva più di un punto debole e da allora non è stata presa sul serio da nessun altro studioso.
Per non parlare del modo con cui i giornali spesso si occupano di miti e leggende, spacciandoli come plausibili. Qualche mese fa sulla stampa italiana ci si chiedeva se Atlantide, la città leggendaria che anni prima era già stata localizzata nel Mar dei Caraibi, o nel golfo di Cadice, fra Spagna e Portogallo, fosse alle Hawaii. Nessun archeologo serio ritiene che l’isola di Atlantide sia davvero esistita nelle forme in cui viene descritta dai miti arrivati fino a noi. A settembre, invece, la scoperta di uno strano scheletro in Polonia fece titolare diversi giornali italiani che era stato ritrovato il corpo di una «donna vampiro».
Del resto in Italia per molti anni è andata in onda su Rai 2 una trasmissione che conteneva quasi solo servizi considerati di pseudo-archeologia, una categoria che comprende «tutto quello che sembra archeologia ma non lo è», per usare le parole di Kurnick nel suo TEDx. Si chiamava Voyager, la conduceva il controverso divulgatore Roberto Giacobbo ed è andata in onda ininterrottamente per 243 puntate dal 2003 al 2018 (da allora Giacobbo cura un analogo programma sulle reti Mediaset, Freedom).
Spacciare l’archeologia come un campo della conoscenza in cui ogni tanto vengono fatte delle scoperte incredibili e mirabolanti è anche il modo più facile per cercare di parlare di una disciplina piuttosto recente, dato che è nata nell’Ottocento, e che richiede anni e anni di studio multidisciplinare sepolti fra i libri, oltre a una certa esperienza sul campo, nelle campagne di scavo.
È in questo divario che si crea lo spazio per la diffusione della pseudo-archeologia. «Il metodo scientifico può essere mortalmente noioso», scriveva già nel 1987 l’archeologo Brian Fagan sulla rivista Expedition: «e può richiedere, come fa spesso, un notevole addestramento. Gli scienziati inoltre parlano e scrivono in una lingua spesso incomprensibile al lettore ordinario. Le soluzioni semplici ed enfatiche a situazioni ignote e inspiegabili offerte dalla pseudo-archeologia appaiono quindi più attraenti». Specialmente se confezionate in maniera sapiente da specialisti dell’intrattenimento, come nel caso di Netflix e dell’Antica apocalisse.
Fagan faceva invece l’esempio di Erich von Däniken, uno scrittore svizzero considerato da molti uno dei principali esponenti della pseudo-archeologia. Nel 1968 scrisse un libro che da allora ha venduto milioni di copie e che per certi versi ricorda molto la teoria di Hancock sulla civiltà perduta che tramandò diverse conoscenze tecnologiche ad altre popolazioni umane: solo che secondo von Däniken non erano umani ma alieni venuti da un pianeta lontanissimo. Il libro di von Däniken ha ispirato una serie di documentari prodotti da History Channel chiamati Ancient Aliens, arrivati ormai alla 19esima stagione (in Italia sono disponibili sui canali Sky).
Gli archeologi e più in generale i divulgatori scientifici non ce l’hanno con le persone che parlano di pseudo-archeologia perché si sentono minacciati da conoscenze che potrebbero mettere in dubbio le loro certezze, come per esempio sostiene Hancock nella prima puntata dell’Antica apocalisse. I pericoli nel non saper distinguere l’archeologia vera da quella finta sono diversi.
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Per prima cosa stuzzica e alimenta un certo pensiero anti-scientifico e anti-accademico, sfruttando le lacune di storia e archeologia che possono avere anche persone più istruite in altri campi. «Si comincia col credere che delle creature mega-intelligenti abbiano aiutato gli Egizi a costruire le piramidi, ma dove si finisce?», si è chiesto il giornalista Stuart Heritage sul Guardian. «A credere che le elezioni americane siano state truccate? Che gli attentati dell’undici settembre fossero una montatura? Oppure ancora di peggio?».
La pseudo-archeologia poi svilisce e banalizza il lavoro, più difficile da raccontare ma forse altrettanto affascinante, della ricerca scientifica: che nella maggior parte dei casi non viene fatta da persone che hanno soprattutto grandi intuizioni, come a volte vengono descritti gli archeologi nei libri e nei film, quasi fossero dei detective protagonisti di un giallo. Spesso le persone più rispettate in alcuni ambiti hanno passato anni di studi faticosi, tentativi sbagliati e conversazioni con centinaia di colleghi prima di arrivare a una certa scoperta.
Il biologo svedese Svante Pääbo, che quest’anno ha vinto il premio Nobel per la Medicina, riuscì a ricostruire il DNA di un uomo di Neanderthal nel 1997: ma ci sono voluti ancora molti anni prima che studi del genere si potessero applicare ad altri scheletri di persone vissute migliaia di anni fa, tanto che secondo alcuni studiosi la cosiddetta paleogenetica è soltanto all’inizio della sua storia.
Molti sottolineano infine che parecchie tesi complottiste della cosiddetta pseudo-archeologia abbiano un sottotesto razzista. Alla base di teorie come quella promossa da Hancock nell’Antica apocalisse e nei suoi libri «c’è l’incapacità di ammettere che popolazioni diverse da quella europea possano aver realizzato opere altrettanto imponenti, come i tumuli del Nordamerica o le piramidi d’Egitto», ha scritto qualche tempo fa Andrea Ferrero, coordinatore nazionale del Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze (CICAP), una nota associazione che si occupa di promuovere il pensiero critico e scientifico.
Ferrero nota fra le altre cose che anche Hancock ha promosso esplicitamente questa tesi, in passato (dentro l’Antica apocalisse però non ne fa alcuna menzione). Nel suo libro più famoso, Impronte degli dei, Hancock «sottolinea più volte che il dio Inca Wiraqocha doveva essere di aspetto caucasico, con gli occhi azzurri e la pelle chiara», ricorda Ferrero citando una persona che secondo Hancock apparteneva a una avanzatissima civiltà perduta, che gli Inca avevano scambiato per un dio.
Anche per questo sottotesto le teorie di Hancock piacciono molto all’estrema destra statunitense ed europea. Hancock è stato ospite più volte del podcast di Joe Rogan, uno dei più famosi conduttori radiofonici statunitensi, noto per i suoi podcast sopra le righe, e di Fox News, la nota tv via cavo molto popolare nell’ala più conservatrice della destra statunitense. «Hancock ci chiede di credere a un solo e insistente uomo bianco secondo cui la nostra grandezza proviene da una singola cultura, centralizzata e proto-occidentale, invece che a migliaia di studiosi di centinaia di culture diverse che si occupano dei contenuti eterogenei che hanno dato forma alla storia umana. Non mi sorprende che le persone di destra lo apprezzino», ha commentato il divulgatore Jason Colavito sulla rivista New Republic.
Il successo dell’Antica apocalisse però potrebbe avere anche dei risvolti positivi, e convincere alcuni archeologi che il pubblico generalista è interessato a storie che riguardano civiltà antiche e di cui sappiamo relativamente poco. Ancora oggi i punti di contatto fra il mondo accademico e la divulgazione, anche su temi storici, non sono moltissimi. «L’archeologia vera e basata su fatti accertati e il giusto contesto storico è affascinante: non abbiamo bisogno degli alieni per renderla interessante. Tocca però a noi archeologi trovare nuovi modi per condividere quello che facciamo col pubblico», spiegava per esempio Kurnick nella sua conferenza per TEDx.