Quelle serie che odiamo, ma guardiamo lo stesso

“Hate-watching” è un'espressione associata spesso a “Emily in Paris”, che ha un gran successo ma sembra non piacere a nessuno

Una scena della terza stagione di Emily in Paris (Netflix)
Una scena della terza stagione di Emily in Paris (Netflix)
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Da quando è uscita la sua prima stagione, nell’ottobre del 2020, la serie di Netflix Emily in Paris ha fatto parlare molto di sé. Racconta la storia di Emily Cooper, giovane statunitense che da un momento all’altro viene mandata a vivere a Parigi per “portare un punto di vista americano” in una rispettabile società francese di marketing per marchi di lusso, appena acquistata dalla multinazionale per cui lavora. La serie è prodotta da Darren Star, il creatore di Sex and the City e Beverly Hills 90210, ed è stata candidata come migliore serie comica sia agli Emmy che ai Golden Globe l’anno scorso. Netflix, che è nota per cancellare dopo la seconda stagione moltissime delle proprie serie – anche quelle seguite da fan molto accaniti, come The OA o Sense8 – ha rinnovato Emily in Paris per una quarta stagione.

A partire da queste premesse, sarebbe logico pensare che Emily in Paris sia una serie molto amata. Ma, come era già successo dopo l’uscita della prima e della seconda stagione, anche la terza – disponibile su Netflix dal 21 dicembre – è stata accolta da tantissimi commenti su quanto la trama sia prevedibile e vuota e la protagonista insopportabile, e in generale su come sia inverosimile la rappresentazione della sua vita a Parigi, tra appartamenti enormi e lussuosi, vestiti appariscenti e sempre nuovi e strade pulitissime.

Un’espressione che è stata estesamente associata a Emily in Paris è “hate-watching”, ovvero l’atto di seguire un programma, una serie o un film soltanto per divertirsi nel prenderne in giro le assurdità e deriderne la scarsa qualità, da soli o in compagnia, dal vivo o sui social e nelle chat di gruppo.

Un meme sul guardare Emily in Paris pur detestandolo: «Cosa mi dico quando inizio a guardare la terza stagione di Emily in Paris sapendo che non ne capisco il senso, ma non posso mollarla dopo due stagioni: “Lasciami stare, sociopatico analfabeta”».

Anche se può riguardare reality show scadenti e serie tv dozzinali, che molti guardano avidamente consci che si tratta di quella che viene spesso definita “televisione spazzatura”, l’hate-watching è generalmente dedicato a programmi realizzati con grossi budget, coinvolgendo registi, sceneggiatori o attori famosi, ma che hanno dei limiti oggettivi che li rendono per molti al limite dell’imbarazzante, pur esercitando un’attrazione a cui qualcuno non riesce o non vuole resistere.

Tra le serie del passato che avevano una parte di spettatori che le guardava pur detestandole, stando ai commenti che ne accompagnavano la messa in onda, c’è per esempio Glee (serie tv andata in onda dal 2009 e il 2015, nota per le sue trame drammatiche e intricatissime e le cover musicali un po’ imbarazzanti), la sitcom The Big Bang Theory e Girls, la serie che ha reso famosa Lena Dunham. Oggi la serie più famosa oggetto dell’hate-watching è probabilmente Emily in Paris.

«Ogni recensione negativa che leggo sulla terza stagione di Emily in Paris rende solo più probabile che io la guardi. Per motivi che non comprendo appieno in questo momento, non c’è nulla che possiate dire su questa abominevole serie che mi impedirà di guardarla», ha scritto su Twitter la giornalista Imogen West-Knights. «Dio, quanto detesto e adoro Emily in Paris. Non posso che continuare a guardare questa vacua televisione spazzatura solo per vedere cosa farà questa volta questa stronza e quale vestito atroce indosserà per scatenarsi nella mia amata città», ha detto la podcaster Pip Jones. E, già nel 2020, la critica Willa Paskin su Slate aveva commentato che Emily in Paris rientrava a pieno titolo nella categoria degli “hate-watch”, quelli che «ti mettono in una posizione scomoda nei confronti di te stesso e del tuo gusto».

«Questa fantasia spumeggiante e capitalista appartiene a una categoria di programmi che è molto facile giudicare. È una commedia romantica in un paese straniero dove non succede mai nulla di brutto e la graziosa protagonista scopa tantissimo e ottiene tutto quello che vuole», scrive Waskin. «Ma la cosa migliore di Emily in Paris, la cosa che la trasforma dalla serie leggera e godibile che poteva essere alla sceneggiata che tutti si divertono ad insultare è la debolezza della sua protagonista».

Lungi dall’essere un personaggio femminile complesso, Emily incarna in modo quasi grottesco diversi cliché: su tutti, quello dell’americana all’estero, che arriva in un contesto che non conosce e si aspetta che si adatti a lei; ma anche quello della millennial ossessionata dai social network, pronta a pubblicare centinaia di foto identiche a quelle già pubblicate da migliaia di altre persone per ottenere seguito online.

– Leggi anche: Il ministro della cultura ucraino se l’è presa con “Emily in Paris”

A irritare particolarmente gli spettatori è il fatto che, nonostante Emily sia sostanzialmente mostrata come una persona insipida, sprovveduta, sciocca, moralista e poco originale – circondata invece da persone che sembrano avere un’interiorità e un gusto molto più formato e interessante del suo – lei resti la protagonista e tutto finisca sempre per andare come vuole lei. Ottiene l’attenzione (addirittura l’amore) di uomini bellissimi conosciuti per caso, vive in appartamenti straordinari nonostante la nota crisi abitativa di Parigi, raccoglie decine di migliaia di follower su Instagram pubblicando cose che nella vita reale avrebbero al massimo una decina di like, convince aziende che fatturano milioni di euro all’anno ad affidarle la loro strategia di comunicazione attraverso quelli che sono descritti come colpi di genio. Nella terza stagione, finisce pure sulla copertina della rivista di cultura di Le Monde come una delle persone più influenti di Parigi.

«Stiamo parlando di una donna che indossa un berretto alla francese e una camicetta ricamata con delle piccole torri Eiffel per il suo primo giorno di lavoro e ammette candidamente di non conoscere la lingua. Nelle migliori delle ipotesi, è imbarazzante. Nel peggiore dei casi è un’incarnazione vivente dell’imperialismo culturale statunitense. Insomma, Emily è l’antagonista della sua stessa serie, a prescindere dai suoi dubbi comportamenti morali», ha scritto su The Conversation la professoressa di Film Studies al King’s College di Londra Catherine Wheatley. «Di fronte alla continua demonizzazione dell’americanità all’interno della serie, amare Emily in Paris significherebbe amare proprio ciò che la serie ci dice di odiare».

(Netflix)

Il giornalista del Boston Globe Matthew Gilbert ha provato a dare delle spiegazioni al rapporto di amore e odio che prova nei confronti di Emily in Paris: «avevo voglia di guardare qualcosa di carino e stupido, ma soprattutto carino: dopotutto, la serie è un tour di Parigi nella sua forma più smagliante».

Altri “hate-watcher”, intervistati dal New York Post, hanno detto che si divertono a guardare persone affascinanti che camminano e fanno sciocchezze in città straniere belle da vedere, a maggior ragione se queste persone fanno scelte terribili che permettono agli spettatori di giudicarle. «Nessuno impara nulla. Nessuno cresce. Emily è la protagonista quanto lo sarebbe un passeggero seduto in un taxi parigino. Ma non è una serie aggressiva o irritante. È semplicemente carina, ed è lì».

Emily in Paris racconta il genere di storia in cui si può dare per scontato che non succederà mai davvero qualcosa di scioccante o brutto alla protagonista e ai suoi amici, cosa che permette di guardarla distrattamente, come sottofondo ad altre attività, rispondendo ai messaggi sul cellulare o facendo le pulizie in casa. Già due anni fa, dopo l’uscita della prima stagione, il critico Kyle Chakya sul New Yorker teorizzava che la maggior parte della gente guardasse la serie principalmente in quanto massimo esempio di “televisione da ambiente”:

La serie sembra dire che va bene guardare il tuo telefono tutto il tempo, perché lo fa anche Emily. Le trame sono troppo esili perché ci sia il rischio di perderne il filo. Quando alzerai di nuovo lo sguardo verso la televisione, è probabile che troverai carrellate della Senna o vicoli acciottolati, adorabili ma privi di significato. (…) Come della gentile musica New Age, Emily in Paris è rassicurante, lenta e relativamente monotona, i suoi momenti drammatici sono troppo prevedibili per essere davvero drammatici. Niente di brutto succede davvero alla nostra protagonista.