Pelé e il suo agente, raccontati da Eduardo Galeano
Lo scrittore uruguaiano intervistò il campione brasiliano e il suo ingombrante manager, Pepe el Gordo
Lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, l’autore di Le vene aperte dell’America Latina, era un grande appassionato di calcio e ne scrisse tantissimo. Era dunque inevitabile che nel corso della sua vita (1940-2015) scrivesse anche di Pelé, uno dei più grandi calciatori di sempre, morto giovedì a 82 anni. In uno dei testi raccolti in Chiuso per calcio, un’antologia di articoli e saggi dello scrittore che sarà pubblicata il 26 gennaio da Sur, Galeano scrive proprio un ritratto di Pelé, raccontato insieme al suo manager spagnolo José González Ozores, che ebbe un ruolo molto rilevante nella sua carriera. Di seguito pubblichiamo il testo.
Chiuso per calcio si può già preordinare online. Il titolo del libro è una citazione del cartello che Galeano appendeva fuori dalla porta di casa durante i Mondiali.
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Montevideo, 1963
Lunedì, ore 21
Nei salotti dell’hotel Columbia, un diplomatico amico mio sostiene ad alta voce che questa intervista val bene la pena. Senza scomporsi, don José Ozores, detto Pepe el Gordo, manager, amministratore, angelo custode, padre, fratello, agente e ufficio stampa di Pelé, dice: «Sì, certo, come no. Le ambasciate. Lui è più Ambasciatore di tutti gli ambasciatori messi insieme. Si parla di Lui in posti dove non sanno neppure dove sta, il Brasile. E il Brasile cosa gli dà, a Lui? Tasse. Ecco cosa gli dà». E così lei è il procuratore, dico. Mi spiega: «Vive con me, mangia con me, me ne prendo cura, gestisco i suoi affari. Come se fosse mio figlio». Abbandona il portoghese per lo spagnolo, così da non lasciare adito a dubbi: «Sì, anche Life ha voluto fare un reportage del genere, e di molte pagine. Gli ho fatto sborsare un bel po’ di dollari. Se non hanno problemi a mettere un preto [un nero] in copertina, nonostante la discriminazione razziale, sarà perché gli fa entrare un sacco di soldi. E dunque, Lui ha il diritto di partecipare a questi guadagni. In qualsiasi paese, una rivista con la Sua faccia vende tonnellate di copie. Nei sondaggi di popolarità è al primo posto, sempre, ovunque. Poi vengono Jacqueline Kennedy, Chruščëv, De Gaulle e tutti gli altri». Gli elenco 137 differenze tra Life e Marcha. «Sì, certo, come no. Capisco. Ma ecco, Lui è di sopra, sta riposando. Non vuole saperne niente. Ci sono sempre così tanti giornalisti e fotografi; si renda conto, Lui è stanco, prigioniero del suo nome. Intrappolato dalla gloria. Edson Arantes vorrebbe essere una persona qualunque, ma non glielo permettono. È condannato a essere Pelé, ed è per questo che si ritirerà dal calcio». Il diplomatico ammutolisce e sorride. Sa che Pelé non si ritirerà. Sarà Pelé fino a non farcela più, fino a quando gli anni o l’ostilità dei rivali lo distruggeranno. Pelé: la pantera nera venerata da ottanta milioni di brasiliani, che elettrizza gli spalti in tutto il mondo. Un ragazzino sulla vetta di una montagna di gloria e di denaro. Giro la testa e lo vedo, con gli occhi socchiusi di fronte a un quadro di Vicente Martín, che avrà sicuramente raddoppiato il suo valore da quando Lui ci ha posato lo sguardo. Mi avvicino, e con me un nugolo di giornalisti. Divampano i flash delle macchine fotografiche. Desisto. Camnitzer abbozza un disegno della Perla Nera, ma non serve a niente. Già sulla porta, sento le proteste dei colleghi arrabbiati: «È più facile fare un’intervista a Goulart che a questo signore! Con Goulart sono stato mezz’ora a chiacchierare tranquillamente in ambasciata. È vero o no?» E il diplomatico amico prova a distendere gli animi: «Mas Jango é Jango. E Pelé é o mais grande líder de América…»1
Martedì, ore 9
Faccio colazione con Pepe el Gordo. «Quanto mangiano gli uruguayani», dice. «Noi brasiliani…» Brasiliani? «Io sono nato in un sobborgo di Pontevedra, a essere sinceri. Però sono già dieci anni che sto a Santos». Mi racconta che da quattro segue O Rei. «Lui gioca a calcio da quando aveva quindici anni: campo e pallone, campo e pallone. Ora ne ha ventitré, ma non ha mai trovato tempo per maturare». E aggiunge, paterno: «Ha bisogno di qualcuno». Qualcuno come Pepe el Gordo, suggerisco. «È stato Zito a dire: Pepe è l’uomo giusto. Con Zito siamo soci nell’impresa di costruzioni; e da allora sto sempre con Lui». Perché lo chiamano Pelé? «Non lo sa nessuno. Lo hanno sempre chiamato Pelé. Da quando era un ragazzino secco e molto povero che viveva al centro di allenamento del Santos, facendo le commissioni per i veterani e lavando a terra». Mi interessa la storia della scoperta. Come Dio è stato rivelato agli uomini. «Come uno schiavo ai tempi dei negrieri», dice, aggrottando la fronte e increspando i baffi. «Un impiegato pubblico di Baurú Lo ha notato. E ha detto al presidente del Santos: «Se mi fa ottenere il trasferimento da quest’ufficio a quello di São Paulo, io le porto una meraviglia». E gliel’ha portato, contro la volontà della madre, che non voleva che Lui si dedicasse al calcio. Sapeva cosa significa, perché anche Suo padre è stato un giocatore, a Baurú. Non ha mai voluto un figlio famoso. Continua a essere la madre di Dico, il ragazzino, il suo piccolino», dice; e apre le mani: «La Madre: una Santa dell’altare, che si alza e cammina». Il cronista si ammutolisce. Qualcuno porta via il vassoio con le tazze sporche. Pepe el Gordo insiste: «È come le dico. Una Santa». Donna Celeste, madre del mineiro2 di Três Corações dalla fama universale, vede suo figlio solo per puro caso. Le tournée negli altri stati brasiliani, e all’estero, occupano sette, otto o nove mesi all’anno, e nei mesi che restano Pelé gioca sui campi di São Paulo o riposa, sotto l’ala protettiva di Pepe el Gordo, che gli sta con il fiato sul collo. Giornalisti e ammiratori sbattono contro questa muraglia venuta dalla Galizia, che sa tutto di Lui, tutto quello che c’è da sapere, e molto di più. Manager? «Amico, padre, fratello». Il Santos gli paga uno stipendio? Si indigna: «No! Non sono stipendiato dal Santos. Se il Santos decidesse di pagarmi, non ci sarebbe denaro a sufficienza. No. Chi prende soldi non è un amico. Io gliel’ho detto al ragazzo: Il giorno che vorrai darmi un solo cruceiro, ti picchio».
Lui sta dormendo nella stanza accanto. Non è andato ad allenarsi questa mattina, perché non si sentiva bene. «Raffreddore», spiega Pepe el Gordo: «E poi, Lui non ha bisogno di allenarsi». Pelé mangia poco e dorme molto. Quando si fa prendere la mano con il cibo, ha gli incubi e parla nel sonno. Per questo Pepe el Gordo non gli permette di mangiare nulla più che «qualche panino con carne e formaggio, e uno o due bicchieri di succo di frutta». Oggetto di ammirazione universale, fattore di euforia o miseria per milioni e milioni di persone: bisogna prendersi cura di Lui. Forse perché sarebbe imperdonabile dimenticare la lezione di una delle divinità che lo hanno preceduto nella storia: Buddha è morto per un’indigestione di carne di maiale.
Martedì, ore 10.30
Usciamo a fare un giro per il centro storico di Montevideo: la zona della costa, che affaccia sul Rio de la Plata. Ho in mano una copia di O Cruzeiro che, ovviamente, parla di Lui. Discuto dell’articolo insieme a Pepe el Gordo. Mi indica una foto: un nemico vestito di nero. «Quell’arbitro è un ermafrodito», spiega.
C’è un sole ardente, stamattina. Amante dei paesaggi come sono, osservo e commento. Ma Pepe el Gordo chiede il prezzo delle cose: «Quanto è caro, quanto è caro». E parla, come sempre, della gloria che ha tra le mani, perché «Dio in Cielo, e Pelé in Terra». Due volte campione del mondo, ai suoi piedi ha l’enorme apparato giornalistico, televisivo, radiofonico e cinematografico del Brasile, Lui; lo corteggiano i politici e lo tormentano le marche di caffè o di automobili o di bevande, perché Lui, il suo nome o la sua firma o il suo volto, vendono. Atma, azienda che produce materiale plastico, fabbrica palloni con su stampato un autografo di Pelé, e la vendita è un successo assicurato; il libro Eu sou Pelé è stato un bestseller in Brasile, ed è in corso di traduzione in inglese: in Germania la prima edizione ha fatto furore, già esaurita. Sulla seconda edizione Pepe el Gordo non riceverà nulla: «Non ho accettato royalties. Ho preso un anticipo sui diritti e ciao. Detesto le complicazioni». L’argentino Christensen, invece, ha girato un film sul Grande Argomento, O Rei Pelé, che ha contribuito ad aggiungere cruceiros all’alta montagna di milioni. Pelé e Pepe el Gordo sono soci di varie aziende potenti, e tutte queste entrate vengono considerate «complementari».
Penso a Baltazar, stella ormai spenta, che oggi carica valigie nel porto di Santos. E penso a Garrincha, che, da quanto ho capito, è caduto in disgrazia. Glielo dico. Pepe el Gordo si fa il segno della croce: «Pelé ha calcio e giudizio», dice, «e Garrincha no». Dettagli sul caso: «Ha abbandonato la moglie e le otto figlie. Quell’artista è stata la sua rovina». Dico la mia: Elza Soares valeva bene una messa. Si crea uno spiacevole equivoco e Pepe el Gordo mi risponde che sì, Lui va a messa tutte le domeniche. Inoltre, recita il rosario due volte al giorno. Un buon cattolico. Un cattolico fervente, a cui piace seguire i comandamenti. Tutti. «Lui, a una ragazza vergine, non la rovina. Ecco la personalità del ragazzo». Non fuma, non beve, sta alla larga dai locali notturni. Adora i bambini e i vecchi. «Lui è come un figlio. Che un giorno mi sono ritrovato in casa. Ed è un problema tutto mio: non avrò pace fino a quando non lo vedrò su un altare, o in una statua, come quella», dice, indicando il monumento a Garibaldi.
Martedì, ore 12
All’hotel Columbia sono arrivati i rinforzi. Verdoux, Mansilla e Casimiro Rueda3, tutti insieme. Presentazioni. Saliamo. Lui sta ancora dormendo. Chiacchieriamo nella stanza accanto, di fronte al mare. «Mettetevi comodi», dice Pepe el Gordo, con le scarpe poggiate sul davanzale della finestra. «Stavo dicendo all’amico qua, che Lui, se non fosse nato essere umano, sarebbe nato pallone. Il miglior calciatore di tutti i tempi». Non lo contraddico, mi fa strano, però mi stava dicendo, in verità, che Pelé è un prigioniero del calcio, e che non è felice.
Mansilla prende le distanze con parole esotiche. Dice che considerando il prezzo internazionale dell’oro puro a 24 carati, che viaggia intorno a un dollaro e quindici centesimi al grammo, Pelé vale molto più di quanto pesa, letteralmente. Pepe el Gordo non ama questi calcoli, e afferma: «Non c’è né denaro né oro che possano pagare Pelé. Lui gioca perché gli piace. Non ha bisogno d’altro». Certo le offerte non sono mancate: mentre il Santos era in tournée in Europa, la Juventus ha offerto 800 milioni di cruceiros, qualcosa come 800.000 dollari.
Alcuni dirigenti erano favorevoli al trasferimento, e Lui ha consultato Pepe el Gordo. «Gli ho detto: “Se mi prometti che non te ne andrai mai dal Santos, farò in modo che ti paghino ancora di più in patria”». Poi, nel ’61, è arrivata una proposta dell’Inter: offrivano un milione di dollari per il club, un milione di dollari per lui e duecentomila extra affinché lo convincessi, oltre allo stipendio mensile che ci fosse saltato in mente di pretendere. Ho informato il ragazzo, e Lui mi ha chiesto: “E la nostra promessa?”» Mansilla si agita sulla sedia. «Allora», dice, «lei era disposto a concludere l’affare». Pepe el Gordo trasalisce: «Non c’è denaro al mondo che possa comprare la mia parola. La maggior parte dei giornalisti crede che stia sfruttando il nome e la fama di Pelé…» «Ma è una stupidaggine», sminuisce Verdoux, cavallerescamente: «Il mio collega non voleva insinuare niente del genere». «Ah, ecco», dice Pepe el Gordo. «Il mondo di oggi è più materialista che spirituale, ed è difficile ammettere che qualcuno faccia qualcosa senza volere nulla in cambio. Io prima ero libero; ora non più. Prima vivevo meglio, andavo dove volevo, ero padrone di me stesso. Ma questo nuovo incarico è una croce: ho ottanta milioni di brasiliani che non si fidano di me perché sono straniero». E racconta di nuovo la storia dell’offerta dell’Inter: quando è arrivato il signor Ricci, Pepe el Gordo, che presagiva aria di mazzette, ha nascosto un registratore dietro la finestra e ha messo un microfono tra le tende. Successivamente ha reso pubblica, in radio, la proposta indecente.
Casimiro Rueda si fa serio: «È che se Pelé se ne andasse via dal Brasile, scoppierebbe la rivoluzione».
«Proprio così, Lui non può usare la sua abilità al di fuori del posto in cui Dio l’ha collocato».
Però Mansilla insiste. Gira gli occhi dicendo che ammira la devozione e l’amicizia di Pepe el Gordo nei confronti di Pelé, ma che le virtù umane sono come fili d’erba al sole, così fragili e facili da bruciare. «Il denaro non mi si attacca alle mani», insiste Pepe. «A me, non mi compra nessuno». E si immergono in una discussione che al cronista ricorda quel dialogo apocrifo tra Bernard Shaw e Samuel Goldwyn, nel quale Shaw
arrivò alla conclusione che non si sarebbero mai potuti capire perché a lui, Shaw, importava solo il denaro, mentre a Goldwyn interessava solo l’arte. Pepe el Gordo dice che i soldi non avevano salvato suo padre da un’ulcera allo stomaco, che l’amore non c’è denaro che possa comprarlo, che la condizione umana non può essere ridotta alla condizione materiale e che Pelé, Lui, il ragazzo, non è una merce. E Mansilla risponde che non doveva essere troppo critico rispetto ai soldi, che possono essere un buono strumento in mani sante, che Von Braun e altri geni lavorano per il denaro e non per la democrazia, e dice: «È umano».
«È un male, sì», risponde Pepe el Gordo. «L’ha detto lei».
Verdoux, nel frattempo, sbadiglia dalla sua poltrona con la faccia scettica.
Martedì, ore 14
Appare, infine, Lui. Senza altare: un felino non molto muscoloso, che mi offre una pesca. «Le nostre sono più piccole», dice, «così non perdono il succo». Ha la faccia ancora assonnata, la voce rauca per il raffreddore; parla poco, in uno spagnolo corretto, e sorride, con una certa malinconia.
«Il Mozart del calcio», lo hanno chiamato gli europei, folgorati dal suo stile ritmico, elegante in campo; a Rio de Janeiro i biglietti delle sue partite si vendono con mesi di anticipo, e i quotidiani di tutto il Brasile si occupano di lui nelle pagine degli editoriali; squilli di tromba annunciano il Suo passaggio per le capitali di tutto il mondo. Ma Lui non sembra rendersene conto: non è né abbagliato né sopraffatto dalla gloria, la sopporta, semplicemente, perché è così che vanno le cose.
Pelé non è questo essere umano qualunque. Deve esserci un errore. Non può essere Pelé questo ragazzotto timido che mi parla di Dondinho, suo padre, come di un calciatore «molto più forte» di lui, sebbene al cronista risulti che sia stato solo mediocre, e che confessa umilmente di farsi il segno della croce prima di ogni partita «affinché non mi facciano male», e poi dopo ogni partita «per ringraziare»; non è Pelé questo ragazzo con lo sguardo ingenuo che non capisce perché la gente lo venera e lo odia allo stesso tempo.
«Non sono mai la vittima», dice. «Sui campi brasiliani, è sempre l’altro ad avere ragione. L’arbitro o l’avversario». L’ostilità degli spalti è esplosa negli ultim tempi, soprattutto nello stadio di Pacaembú4. Meglio gioca, più viene fischiato, insultato e contestato dallo stesso pubblico paulista che a Pelé, quando indossa la maglia della Nazionale in altri stadi, vota la propria anima. Il Santos, squadra che non viene dalla Capitale, ha vinto numerose competizioni nazionali e internazionali, e Pelé è la sua stella d’oro zecchino: il pubblico della capitale, però, non lo perdona: «Non me lo merito», si difende. «Non me la sono inventata io questa storia che gira, il fatto che sia il miglior giocatore del mondo. Io non c’entro niente. Mi creda, non sono un mascarado, un ipocrita. Credo che il miglior giocatore del mondo debba ancora nascere. Dovrà essere il migliore in ogni ruolo: come portiere, come difensore, come attaccante». Gli dico che ha dimostrato di essere un magnifico portiere, recentemente5, e che è stato impiegato in quasi tutti i ruoli. Scuote la testa, fa spallucce, mi guarda, senza comprendere perché mi stia impegnando così tanto a credere che Pelé sia Pelé.
Gli chiedo se sia davvero vittima di un maleficio: una volta il pubblico voleva incendiare il pullman su cui viaggiava, alla fine di una partita, al grido di «Stregone! Stregone!» Un sorriso gli plasma il volto, come se fosse di gomma. «Hanno iniziato gli italiani con questa storia», racconta: «A dire che avevo una macchinetta magica, che ci mettevo dentro le foto della gente che non mi piaceva e che questa gente moriva». E non è vero? «Nooo…», dice. Cos’è successo nella partita contro l’Independiente, a Buenos Aires? «Non lo sappiamo neppure noi, cosa è successo». Però cinque gol… «Nel calcio capita».6 Rolán non è stato troppo irruento nella marcatura? «Un po’ aggressivo, sì, però senza cattive intenzioni, eh, lo scriva che lo ha fatto senza cattive intenzioni». Non si sente sotto assedio, a volte, in campo? Non ha l’impressione che il giocatore che ha di fronte cerchi la fama ai suoi danni? Fa una smorfia: «Quando un giocatore duro marca Pelé, è doppiamente duro». Per questo crede in Dio? Perché ha paura? «Credo in Dio perché è una fede. E Dio mi protegge». E del Peñarol7, non ha paura? «Nelle amichevoli, il Santos scende in campo per giocare e la squadra avversaria scende in campo per vincere. Ecco cosa succede. Non mi metto a correre rischi nelle amichevoli. Quando vedo che può succedermi qualcosa, non mi metto a correre rischi».
Qual è la domanda più idiota che le hanno fatto? «Eh… tante. Tante domande stupide. Se mi piace giocare a calcio». E le piace? Se la ride. «Da piccolo, volevo fare l’aviatore». Che libro sta leggendo, adesso? Dicono che le piaccia leggere. «Mi piace. Mi piace, sì. Soprattutto libri didattici; tutta quella storia del Far West e cose del genere. Ora sto leggendo dei racconti di Mariazinha8 e Problemi tra padri e figli». Mi citi alcuni degli ultimi titoli che ha letto. Ci pensa un momento, poi elenca: «Dell’amore e della felicità nel matrimonio, Il libro della natura, Dal fallimento al successo, Relazioni umane». E non la annoiano, questi libri? «Me li compra Pepe el Gordo», dice, «è lui a comprare i libri per farmeli leggere». Pepe el Gordo? «Sì, il mio manager». Perché vive a casa sua? «Perché mi capisce. È strano che abbia trovato questa intesa proprio con uno straniero. Perché io ho un temperamento difficile, sa». È per questo che non si è ancora sposato? «È molto presto». Gli chiedo se per caso non si è sposato con il calcio; dice: «Il calcio, prima, era un amore. Ora è una professione». E poi fa marcia indietro: «È chiaro che deve esserci anche amore, perché altrimenti non si può». Non si può cosa? «Giocare». E così non accetterebbe, se lo vendessero a una squadra straniera. Vestirà la maglia del Santos fino alla fine. «Per ora, non è tra i miei pensieri andarmene. Poi, chissà».
E finalmente Pelé, l’amico di Jango Goulart, rispondendo a una mia domanda si scopre un po’ con un giudizio positivo su Lacerda: «Lo conosco, sì, ma non ci ho mai parlato. Sembra un uomo a cui piace lavorare, e che sa ciò che vuole». E a livello politico? «Neppure di questo capisco niente».
Pepe el Gordo, che lo ha lasciato solo per troppo tempo, riappare alle sue spalle. «Ora basta. Devi riposare», dice, «non devi affaticarti». E Pelé, rassegnato, sale a passo lento verso la sua stanza. Decine di migliaia di spettatori hanno pagato profumatamente i biglietti per vederlo giocare contro il Peñarol, e Lui ha perso il diritto di deludere gli ammiratori, i curiosi e i nemici. Quel raffreddore deve essere annientato prima del match, e lo sarà, senza dubbio. Per questo c’è Pepe el Gordo, con le sue compresse di Redoxon in mano.
Martedì, ore 15
Missione compiuta. All’uscita dell’hotel trovo alcuni ragazzini che palleggiano contro le mura dell’hotel Columbia che danno verso calle Misiones. Sono inseguito dalle voci: «Arriva, arriva». «Tua!» «Dai, Pelé». «Lascia! Tira!»
Il sole mi ferisce gli occhi, ma una brezza leggera ha iniziato a soffiare, leggerissima, dal Rio de la Plata.
1 In portoghese nell’originale: «Ma Jango è Jango. E Pelé è il più grande leader d’America». [n.d.t.]
2 Três Corações, la città che ha dato i natali a Pelé, è nello stato di Minas Gerais. I suoi abitanti vengono chiamati mineiros. [n.d.t.]
3 Verdoux, Mansilla e Casimiro Rueda erano tre degli pseudonimi usati da Mauricio Müller, scrittore uruguayano, saggista, critico teatrale. Era nato in Romania. [n.d.t.]
4 Lo stadio che ospitava le partite casalinghe del Corinthians, storico rivale del Santos negli anni Sessanta. [n.d.t.]
5 Nella semifinale della Copa do Brasil del 1963, contro il Gremio, il portiere del Santos venne espulso e Pelé, già autore di una tripletta, lo sostituì, sventando due tiri pericolosi. [n.d.t.]
6 Il 1° febbraio del 1964 l’Independiente di Avellaneda ridicolizzò il Santos sconfiggendolo per 5-1. Questo e altri indizi fanno sospettare che la data posta in esergo al racconto sia sbagliata. [n.d.t.].
7 Il Santos affrontò in amichevole la squadra uruguayana del Peñarol il 6 febbraio 1964, cinque giorni dopo la gara contro l’Independiente, perdendo 5-0. [n.d.t.]
8 Mariazinha Congílio, scrittrice e giornalista brasiliana. [n.d.t.]
@ Edizioni SUR 2023
Chiuso per calcio di Eduardo Galeano
edizione italiana a cura di l’Ultimo Uomo
traduzione di Fabrizio Gabrielli
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