La Dakar va dove non esistono strade
Parte sabato in Arabia Saudita, con un percorso di oltre ottomila chilometri da un mare a un altro, con un deserto nel mezzo
Inizia sabato, con una tappa prologo di pochi chilometri, l’edizione numero 45 del Rally Dakar, meglio noto come “la Dakar”, sebbene siano passati ormai quindici anni dall’ultima volta che arrivò davvero a Dakar, la capitale del Senegal. Per la quarta volta consecutiva si terrà interamente in Arabia Saudita, quest’anno con un percorso che parte dal Mar Rosso e che dopo oltre ottomila chilometri, molti dei quali su e giù per grandi dune sabbiose, il 15 gennaio terminerà sul Golfo Persico. Gli iscritti sono oltre 800, i veicoli alla partenza, alcuni dei quali con pilota e copilota nell’abitacolo, sono poco meno di 500.
La Dakar è un rally raid, una corsa in cui ogni tappa prevede una parte cronometrata e una che invece non lo è: la vittoria finale si ottiene sommando i tempi ottenuti nei tratti cronometrati di ogni tappa. È una corsa off-road, fuori strada, in cui ancor prima di essere veloci è importante evitare danni eccessivi ai veicoli, essere in grado di ripararli e sapersi orientare lungo le tappe. Tappe durante le quali si può scegliere dove andare, pur dovendo transitare però da appositi waypoint, punti di passaggio obbligato. Tra una tappa e l’altra chi ha meccanici al seguito può farsi assistere nei lavori di manutenzione o riparazione dei veicoli. Ci sono però due tappe speciali, note come marathon, in cui piloti ed eventuali navigatori al loro fianco devono cavarsela da soli. O al più con l’aiuto di altri partecipanti, tra i quali c’è in genere molta solidarietà.
In passato alla Dakar hanno partecipato veicoli a motore di ogni tipo e dal numero variabile di ruote, comprese una Panda, una Vespa e un’auto-friggitrice. Anche quest’anno, tra quad, camion, moto, auto e altri mezzi, ci saranno veicoli di ogni genere, con diverse classifiche relative. Come sempre, le più seguite saranno però quella delle moto e quella delle auto. C’è anche la categoria Dakar Classic, riservata a veicoli un po’ attempati, che comunque dovranno percorrere anche loro migliaia di chilometri.
Rispetto alle ultime edizioni, quest’anno sono state aggiunte due tappe e sono state aumentate sia la lunghezza totale che quella dei molti tratti cronometrati: la più lunga sarà la sesta, con 877 chilometri totali, 466 dei quali saranno cronometrati. David Castera, da tre anni direttore della Dakar, ha spiegato che erano stati gli stessi partecipanti, dopo l’edizione del 2022, a chiedere una corsa «più difficile».
La prima settimana sarà più veloce, tra strade rocciose e su percorsi in parte già battuti; la seconda, dopo l’unico giorno di riposo nella capitale saudita Riad, avrà invece tante, tante dune. In particolare, le due tappe marathon saranno proprio quelle attraverso il Rub Al-Khal, uno dei più grandi deserti di sabbia al mondo, anche noto come “il quarto vuoto”, che occupa una superficie di 650mila chilometri quadrati (più del doppio rispetto a quella dell’Italia) nel sud della penisola araba. Con ogni probabilità, saranno quelle le tappe decisive e in cui sono attese velocità medie basse, vicine ai 50 chilometri orari. «Saranno due rally diversi», ha detto Castera parlando della prima e della seconda settimana. La corsa terminerà il 15 gennaio a Dammam, una città costiera vicina al Bahrein e a circa quattro ore di macchina (una macchina normale) da Doha, la capitale del Qatar.
Le dune, comunque, sono parte integrante della Dakar, fin dalle sue prime edizioni. Quella che un tempo era la Parigi-Dakar fu ideata e all’inizio organizzata da Thierry Sabine, pilota automobilistico francese che un paio di anni prima si era perso nel deserto libico durante il rally raid Abidjan-Nizza. Nonostante avesse rischiato la vita prima di essere soccorso e salvato, decise di organizzare un rally attraverso il Sahara.
La prima edizione cominciò il 26 dicembre 1978 da Parigi: partirono in 182 e a Dakar arrivarono in 74. Nel 1992 arrivò a Città del Capo, in Sudafrica, nel 1994 fu una Parigi-Dakar-Parigi, nel 1997 fu una Dakar-Agadez-Dakar e nel 2009, dopo un anno in cui non si svolse (e dopo crescenti problemi legati all’instabilità nei paesi che attraversava) si spostò in Sudamerica, dove restò fino al 2019, pur conservando il nome Dakar.
Per evidenti ragioni, la Dakar è anche una corsa pericolosa, durante la quale sono morte negli anni 70 persone, tra piloti, spettatori e persone al seguito. Lo stesso Sabine morì in Mali nel 1986 in un incidente all’elicottero su cui era salito per organizzare la corsa.
Da qualche anno la Dakar – che è controllata dalla francese ASO, organizzatrice anche del Tour de France – è in Arabia Saudita perché il paese offre in effetti percorsi e paesaggi parecchio affini a quelli del rally, ma anche per volontà del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, da alcuni mesi anche primo ministro, di usare, così come sta facendo il Qatar, lo sport per fini economici, politici e soprattutto diplomatici.
Nel tempo, per la Dakar, non sono cambiati solo arrivi e partenze. Da un paio di anni, a chi parte viene infatti consegnato, 15 minuti prima della partenza di ogni tratto cronometrato, un roadbook digitale, una sorta di guida al percorso, da usare per orientarsi e trovare i waypoint. A partire da quest’anno, i roadbook digitali saranno consegnati anche ai motociclisti, per i quali è cambiata anche la regola secondo cui chi vinceva una tappa partiva primo in quella seguente: una cosa che molti consideravano uno svantaggio, visto che implicava affrontare un nuovo percorso prima di tutti gli altri.
Un’altra novità di quest’anno sta nel fatto che, fatta eccezione per il giorno di riposo a Riad, partecipanti e meccanici dormiranno sempre nei cosiddetti “bivacchi”, delle mini-città itineranti al seguito della corsa. Si è deciso così dopo che un anno fa un’auto esplose prima della partenza, ferendo gravemente il pilota Philippe Boutron in quello che si sospetta possa essere stato un attentato terroristico (le indagini sono ancora in corso).
I bivacchi sono luoghi con molti comfort (un campo da calcio, un parrucchiere, una sala giochi) ma anche aree conviviali e spesso caotiche, in cui c’è qualcuno che prova a riposare tra una gara e l’altra, qualcuno che prova a svagarsi e qualcun altro che invece lavora fino all’ultimo minuto per sistemare i veicoli, spesso facendo parecchio rumore.
Tra i tanti alla partenza ci sono piloti professionisti e debuttanti, molti uomini ma comunque più di cinquanta donne, e, tra gli altri, il settantaseienne francese Jean-Pierre Strugo, che partecipò alla sua prima Dakar nel 1985 e che riuscì a terminare la corsa soltanto alla sua quinta partecipazione. Alla partenza ci saranno inoltre Carlos Sainz (campione del mondo di rally, tre volte vincitore della Dakar e padre del pilota della Ferrari col suo stesso nome), il qatariota Nasser al-Attiyah (vincitore di quattro Dakar, l’ultima nel 2022), il francese Sébastien Loeb (altro campione di rally) e il cinquantasettenne francese Stéphane Peterhansel, che di Dakar ne ha vinte 14: 8 in auto e 6 in moto.
Tra le auto ce n’è una ibrida di Audi, che già l’anno scorso vinse alcune tappe. Tra i tanti piloti automobilistici c’è anche l’ex pilota di MotoGP Carlos Checa, secondo il quale «è troppo pericoloso fare la Dakar in moto». Tra le moto, la cui gara è ritenuta quella più estrema e quindi più pura e vicina all’idea originale di Sabine, uno dei principali favoriti è il britannico Sam Sunderland, già vincitore nella passata edizione.
Ancor più che nelle gare di rally non raid, quelle su un percorso predefinito, visionato e provato in precedenza, alla Dakar è importante, spesso imprescindibile, il ruolo dei navigatori, anche noti come copiloti. Sono quelli che stanno accanto ai piloti e, guardandosi attorno e guardando il tablet dato loro poco prima della partenza, dicono al pilota dove andare. Uno di loro, il quarantaseienne Mathieu Baumel, ha detto all’Équipe: «nel rally tradizionale la percentuale di merito di un copilota sta attorno al 15 per cento; per un rally raid sale al 50, a volte perfino al 100, perché spesso non è una questione di velocità, ma di arrivare nel posto giusto».
Baumel iniziò quando il roadbook era di carta ed era fornito la notte prima della tappa, e quindi lui e gli altri navigatori la passavano svegli a studiare il percorso, anche con l’ausilio di internet e mappe satellitari. Ora, con i tablet consegnati pochi minuti prima, è tutto diverso, dice, ma c’è ancora chi sbaglia strada: «nella Dakar dell’anno scorso» ha ricordato «ci imbattevamo in qualcuno che andava sparato in direzione opposta alla nostra, e in quei casi non sai chi dei due l’ha sbagliata».
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