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  • Martedì 27 dicembre 2022

Troppa gente va al pronto soccorso

La metà degli accessi riguarda codici verdi e bianchi, casi che dovrebbero essere curati da medici di famiglia e guardie mediche

Persone in attesa fuori da un pronto soccorso in Campania (ANSA/CESARE ABBATE)
Persone in attesa fuori da un pronto soccorso in Campania (ANSA/CESARE ABBATE)
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Lunedì 19 dicembre il pronto soccorso del policlinico San Martino di Genova ha accolto e curato 183 persone. Nonostante sia un ospedale dedicato ai casi chiamati di “alta complessità”, cioè i più gravi, la maggior parte dei pazienti ha ricevuto un codice verde o un codice bianco. Entrambi i colori identificano una priorità bassa o molto bassa. Sono persone con problemi di salute ordinari, per esempio con una febbre da influenza particolarmente persistente, e che quindi potrebbero essere visitate dai medici di famiglia o dalle guardie mediche, eppure preferiscono rivolgersi all’ospedale. Il risultato è evidente e noto: l’attesa al pronto soccorso è spesso lunghissima, i reparti sono intasati e il lavoro di medici e infermieri è faticoso e stressante.

Il direttore generale del San Martino, Salvatore Giuffrida, dice che lunedì il pronto soccorso ha ricevuto anche 20 pazienti in codice rosso, cioè in imminente pericolo di vita, e 22 in codice arancione, con funzioni vitali a rischio. «Salvare le vite, quello è il nostro mestiere», dice. «Ma in questo periodo gli interventi che salvano vite fanno meno notizia rispetto alle lunghe attese che vediamo negli ospedali di tutta Italia».

A Giuffrida bastano poche parole per elencare le cause dei principali problemi che accomunano la maggior parte dei pronto soccorso: il ricorso esagerato alla presentazione spontanea, la carenza della cosiddetta medicina territoriale, la mancanza di posti letto nei reparti, le grosse difficoltà nel trovare medici e infermieri.

Nelle ultime settimane il fenomeno degli accessi impropri, così come vengono definiti i codici verdi e bianchi, è particolarmente significativo per via dell’influenza arrivata in anticipo. Pur non essendo una malattia trascurabile, soprattutto per le persone anziane, l’influenza di solito non richiede il ricorso al pronto soccorso, a cui però si rivolgono moltissime persone con sintomi lievi come febbre e dolori articolari. Andare all’ospedale quando si ha l’influenza, poi, può portare a ulteriori contagi.

Al momento l’unico modo per osservare l’incidenza degli accessi impropri sul totale degli interventi nelle ultime settimane sono i dati diffusi dai singoli ospedali. Per avere un quadro complessivo si dovrà aspettare la pubblicazione dei dati di Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. I più recenti, pubblicati all’inizio di dicembre e relativi all’intero 2021, confermano che il problema degli accessi impropri è storico e non accenna a diminuire.

Prendendo in esame i giorni feriali nella fascia oraria dalle 8 alle 20, nel 2021 in tutti gli ospedali italiani sono stati assegnati oltre 2,6 milioni di codici verdi e bianchi, il 51,7 per cento di tutti gli accessi al pronto soccorso. Nelle ore notturne e nei giorni festivi i codici bianchi e verdi sono stati quasi 2 milioni, il 38 per cento degli accessi complessivi.

La situazione è molto diversa da regione a regione. Agenas utilizza come indicatore il tasso di accessi annui ogni mille persone che abitano nel territorio delle aziende sanitarie. Quelle in cui nel 2021 è stato osservato il tasso di accesso più alto (tra le ore 8 e le 20 nei giorni feriali) sono la provincia di Bolzano, con 121 accessi impropri all’anno ogni mille abitanti, l’azienda sanitaria della città di Torino e la Asl “Torino 5” che interessa la zona di Chieri, Carmagnola, Moncalieri e Nichelino, in Piemonte.

Tra le aziende sanitarie in fondo alla classifica ci sono l’Asl di Potenza e l’Asl della provincia di Savona, che hanno tassi sospettosamente bassi. C’è una spiegazione: i dati relativi alle ultime posizioni della classifica sono spesso falsati dalla presenza di servizi privati, soprattutto gestiti da cooperative che trattano i casi meno gravi, che lasciano ai pronto soccorso soltanto i pazienti in codice rosso e arancione.

L’aumento significativo del numero di accessi impropri al pronto soccorso avvenne tra le fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, e dall’inizio degli anni Duemila è abbastanza stabile. Il fenomeno è dovuto in buona parte al progressivo invecchiamento della popolazione e al ruolo sempre più centrale degli ospedali a discapito della rete dei medici di famiglia, più precaria rispetto al passato. Da un lato è anche un segnale positivo: significa che le persone percepiscono gli ospedali come luoghi sicuri, attrezzati, a cui rivolgersi anche a costo di aspettare per ore.

Per cercare di rispondere al notevole aumento degli accessi, all’inizio degli anni Duemila venne introdotto il triage, che in francese significa “smistamento”, un sistema di accoglienza e valutazione dei pazienti. L’obiettivo del triage è assegnare un grado di priorità di accesso alle cure sulla base di una valutazione delle condizioni di salute: viene fatto quasi esclusivamente da personale infermieristico preparato per questo lavoro. Anche se basata sulla decisione di una persona, la valutazione dei codici è oggettiva. Oltre ai sintomi e al possibile rischio di un’evoluzione grave, devono essere considerati anche il dolore, l’età, la disabilità, la fragilità, le particolarità organizzative del reparto.

Fino al 2019 i codici erano quattro: bianco, verde, giallo e rosso. In seguito a un accordo tra le regioni, che gestiscono in autonomia la sanità, è stato introdotto un nuovo schema con cinque livelli di gravità, da 1 a 5, con l’indicazione del tempo massimo di attesa.

Il numero 1 indica il livello massimo di emergenza, in codice rosso, quando il paziente è in pericolo di vita e l’intervento deve essere immediato. Il 2 sta per «urgenza», in codice arancione, quando c’è un rischio di compromissione delle funzioni vitali e il trattamento va eseguito entro 15 minuti. Il 3, in azzurro, è l’urgenza chiamata differibile con tempo di attesa di un’ora. Il 4 indica l’urgenza minore, in verde, che richiede prestazioni semplici da fornire entro due ore. Il 5, in codice bianco, è un problema non urgente da trattare entro 240 minuti. Dalla presa in carico alla conclusione della prestazione non dovrebbero passare più di 8 ore.

Il limite più evidente di questo sistema, chiamato a valutare ogni giorno migliaia di persone, è la mancanza di una sorta di filtro intermedio: la decisione di rivolgersi al pronto soccorso, infatti, non dovrebbe essere basata su una percezione personale, ma sul consiglio del medico di famiglia o della guardia medica. Il filtro è poco efficace perché la cosiddetta sanità territoriale è molto carente. Moltissimi medici di famiglia sono andati in pensione e non sono stati sostituiti, quelli rimasti hanno sempre più pazienti e faticano a rispondere a tutte le richieste. In molte regioni è complicato consultare un medico o un pediatra, anche solo al telefono.

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Questa mancanza ormai conclamata ha effetti non soltanto sull’andamento degli accessi impropri, stabili negli ultimi anni, ma anche sulle persone con malattie croniche potenzialmente causa di scompensi. Se i malati cronici non vengono tenuti sotto controllo con visite ed esami aumenta il rischio di conseguenze gravi e improvvise, che richiedono l’intervento del pronto soccorso causando una pressione maggiore sui reparti della medicina di urgenza.

Secondo uno studio fatto sulla popolazione della provincia di Lecce, realizzato nel 2017 su un campione di 530 persone e pubblicato dalla rivista scientifica della SIMEU, la società italiana della medicina di emergenza-urgenza, il 63,7 per cento delle persone intervistate non consulta il proprio medico prima di andare al pronto soccorso e quasi la metà considera il pronto soccorso come unico luogo con specialisti e strumenti adatti a risolvere i problemi di salute.

Molte persone hanno detto di avere più fiducia nell’ospedale rispetto al medico di famiglia, ma dai risultati emerge anche un certo disinteresse nei confronti di informazioni basilari in caso di problemi di salute: l’11,7 per cento del campione non conosce gli orari di accesso del proprio medico curante, il 41,4 per cento non saprebbe contattare la guardia medica in caso di necessità.

Oltre alla mancanza del filtro da parte dei medici di famiglia, un altro problema dei reparti di pronto soccorso è il cosiddetto boarding, cioè lo stazionamento dei pazienti in attesa di un ricovero in piccole stanze oppure sulle barelle nei corridoi. La permanenza eccessiva, conseguenza della mancata presa in carico da parte di altri reparti, complica il lavoro di medici e infermieri del pronto soccorso e in definitiva crea ingorghi e lunghissime attese.

Un paziente dovrebbe attendere il ricovero al massimo per sei ore, eppure non sono rari casi in cui vengono segnalate attese di giorni. «In pronto soccorso facciamo oltre 20 milioni di visite l’anno, ma di fatto gestiamo anche veri e propri “reparti fantasma”: 800mila pazienti vi stanziano per almeno 2 giorni per ricevere cure e 18mila anziani muoiono in barella in attesa di un posto letto», ha detto Fabio De Iaco, direttore della medicina d’emergenza dell’ospedale Maria Vittoria di Torino e presidente della SIMEU. «Mettiamo la toppa ai problemi della sanità e facciamo le veci di quello che non funziona nella medicina del territorio e nei reparti».

Andrea Bellone, fino all’inizio dell’anno primario del pronto soccorso dell’ospedale Niguarda di Milano, ora nel comitato tecnico scientifico del ministero per la medicina d’emergenza, dice che c’è troppa sproporzione tra la domanda e l’offerta: gli ospedali faticano a prendersi cura dei codici verdi, ma soprattutto dei malati più complessi, che necessitano di un ricovero. «Nei pronto soccorso c’è un evidente sovraffollamento con una scarsa disponibilità di posti letto nei reparti che complica molto la gestione», dice. «Con la pandemia le cose sono peggiorate: mancano letti, mancano medici di famiglia, mancano medici specialisti nei pronto soccorso».

Secondo i dati diffusi dall’Anaao Assomed, uno dei principali sindacati di medici ospedalieri, nel decennio tra il 2010 e il 2020 sono stati tagliati 30.492 posti letto per gli acuti, cioè dedicati ai casi urgenti, con una riduzione del 19 per cento sul totale. Il taglio maggiore ha riguardato il Molise, la Calabria, la Puglia, la Liguria, regioni in cui è stato tagliato più di un posto letto su quattro. Il taglio più pesante, tuttavia, ha riguardato i posti letto per ricoveri di lungodegenza, dove secondo il sindacato c’è stata una diminuzione media nazionale che sfiora il 30%.

Sempre l’Anaao Assomed ha segnalato la scarsa attrattiva dei reparti di pronto soccorso: oltre la metà delle borse di specializzazione in medicina d’urgenza, 537 su 886, non sono state assegnate. I motivi sono diversi, per esempio la mancanza di incentivi economici per un lavoro molto stressante. «Ma il problema più grosso riguarda la qualità del lavoro, che va oltre lo stipendio», dice Bellone. «Chi lavora al pronto soccorso fa una vita piuttosto infame: si lavora cinque notti al mese, in tre fine settimana su quattro, con sovraffollamento costante, casi complessi, una preoccupante conflittualità. E tutto questo va peggiorando».

Diverse regioni negli ultimi anni hanno cercato, invano, di risolvere il problema degli accessi impropri e in generale del sovraffollamento dei pronto soccorso. Uno dei piani su cui c’è più attesa è stato inserito nel PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza, e prevede la costruzione di 1.350 Case della Comunità: sono ambulatori aperti 24 ore al giorno, sette giorni su sette, in cui lavorano medici di medicina generale e dove le persone possono andare per un’assistenza medica immediata senza rivolgersi al pronto soccorso. Nelle Case della Comunità verranno seguiti i malati cronici e lavoreranno assistenti sociali per creare un dialogo diretto con i servizi sociali dei comuni. L’obiettivo dichiarato è quello di avere una maggiore collaborazione tra l’assistenza sociale e quella sanitaria.

In molte regioni, per esempio in Lombardia, sono già state inaugurate diverse Case della Comunità. I problemi, però, non sono stati risolti: le nuove strutture al momento sono vuote perché non sono state fatte nuove assunzioni di medici e infermieri.

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