Perché in Giappone c’è ancora la pena di morte
A parte gli Stati Uniti, è uno dei pochissimi paesi democratici ad applicarla ancora, per impiccagione
di Guido Alberto Casanova
Nelle classifiche dei paesi più democratici come quella stilata da Freedom House, il Giappone figura sempre tra quelli maggiormente avanzati in Asia. Ma uno dei problemi ancora presenti riguarda il fatto che, a parte gli Stati Uniti, il Giappone è l’unico tra i maggiori paesi industrializzati e democratici a prevedere nel proprio Codice penale la pena di morte.
La pena di morte è prevista in caso di omicidio plurimo o di omicidio particolarmente efferato e viene eseguita tramite impiccagione. È l’unico metodo vigente in Giappone, e questa pratica risale al 1873.
L’applicazione della pena di morte in Giappone avviene secondo un metodo molto preciso. Dopo l’autorizzazione a procedere firmata dal ministro della Giustizia, al condannato viene notificata la mattina stessa la propria imminente impiccagione. Una volta accompagnato al patibolo e strettogli il cappio al collo, tre guardie carcerarie premono contemporaneamente tre pulsanti diversi: solo uno di questi apre la botola dentro la quale cade il condannato. Senza sapere quale sia il bottone che effettivamente farà scattare il meccanismo, non è mai chiaro chi dei tre sia stato effettivamente ad eseguire la pena.
Dal 2000 fino a oggi, il Giappone ha portato a termine almeno una condanna a morte ogni anno (a eccezione del 2011 e del 2020) per un totale di 98 esecuzioni. L’ultima è avvenuta a luglio di quest’anno, quando un uomo di 39 anni è stato giustiziato per l’omicidio intenzionale di 7 persone compiuto nel 2008 nel quartiere di Akihabara, nel centro di Tokyo. L’omicida era stato condannato nel 2011 e il verdetto di conferma della Corte suprema era arrivato nel 2015, ma prima dell’esecuzione l’uomo aveva tentato di riaprire il proprio caso in tribunale.
Da anni le organizzazioni per i diritti umani criticano il Giappone per non aver ancora abolito la pena di morte come in tanti altri paesi sviluppati. Questo luglio dopo l’annuncio dell’ultima esecuzione Hideaki Nakagawa, il direttore di Amnesty International Japan, ha ripetuto ancora una volta l’eccezionalità del caso giapponese. «Ci sono 144 paesi che hanno abolito la pena di morte, inclusi quelli che l’hanno eliminata di fatto [cioè che non hanno mai cambiato le proprie leggi, ma non la praticano da molto tempo, ndr]. Perché il Giappone continua a usare un sistema che il 70 per cento delle nazioni al mondo considera non necessario?».
Oltre alla controversia sul ricorso stesso alla pena di morte, il Giappone è anche criticato per le modalità con le quali questa viene eseguita. Opacità, segretezza, mancanza di trasparenza e di certezze diventano elementi ricorrenti nella vita di chi viene condannato. Benché anche le Nazioni Unite abbiano criticato a più riprese il trattamento riservato ai condannati a morte nelle prigioni del paese, il Giappone si è sempre rifiutato di rivedere il proprio Codice penale.
Per legge un’esecuzione deve essere portata a termine entro 6 mesi dalla sentenza definitiva, ma questo avviene raramente e anzi, come scritto nel dicembre 2020 dall’Asahi Shimbun, il periodo medio di detenzione delle 109 persone che al tempo stavano aspettando la propria esecuzione era di circa 12 anni e 9 mesi. Senza sapere con certezza quale sarà il proprio ultimo giorno, i condannati a morte vivono in una situazione di angoscia in cui il preavviso della propria esecuzione arriva con appena 1-2 ore di anticipo: troppo poco tempo sia per potersi preparare psicologicamente e disporre le proprie ultime volontà, sia per richiedere l’intervento del proprio avvocato e cercare di bloccare l’esecuzione.
Il breve preavviso dell’esecuzione è una questione che pesa negativamente sullo stato di diritto in Giappone, soprattutto perché si aggiunge a un ambiente carcerario estremamente opaco e chiuso all’esterno: basti pensare che l’esecuzione viene comunicata ai famigliari solo dopo che questa ha avuto luogo, senza permettere loro di poter fare un’ultima visita o dare un estremo saluto.
In questo contesto di segretezza e incertezza c’è il rischio che i diritti umani dei detenuti vengano violati. Ad esempio nel luglio 2018 è stata eseguita la condanna a morte di Shoko Asahara, il capo spirituale del culto conosciuto come Aum Shinrikyo, giudicato responsabile dell’attacco terroristico con il gas sarin avvenuto nella metropolitana di Tokyo nel 1995, durante il quale morirono 13 persone.
Secondo la famiglia, tuttavia, l’incapacità mentale di intendere e volere manifestata da Shoko ne avrebbe dovuto impedire l’esecuzione dato che la legge giapponese in questi casi vieta di eseguire la pena di morte. Senza che qualcuno potesse intervenire dall’esterno per verificarne lo stato di salute, la sentenza è stata eseguita ugualmente.
Le procedure con cui sono eseguite le sentenze sono rimaste relativamente poco documentate fino a tempi abbastanza recenti.
Prima del 1998 il ministero della Giustizia non pubblicava alcun dato sulle esecuzioni avvenute nel paese e ha iniziato a comunicare al pubblico i nomi e le accuse con cui sono stati messi a morte i condannati solamente a partire dal 2007. Oltretutto l’accesso ai penitenziari dove avvengono le esecuzioni è stato negato fino al 2010, quando per la prima volta a un gruppo di giornalisti è stato concesso di entrare per mezz’ora nel carcere di Tokyo e riprendere la sala dove i condannati a morte vengono impiccati.
La mancanza di informazioni pubbliche sullo stato di salute dei condannati, sul trattamento riservato loro dalla giustizia e sulla pena di morte in generale è un grosso ostacolo al superamento della pena di morte per impiccagione in Giappone. Secondo i sondaggi circa l’80 per cento dei cittadini preferirebbe mantenerla, ma questi dati nascondono una realtà più sfumata. Se il paese adottasse come alternativa l’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale come alternativa, il 38 per cento dei giapponesi si dice pronto ad accettare l’abolizione della pena di morte.
Pur in assenza di un dibattito nazionale, il mese scorso tre detenuti condannati a morte hanno fatto causa alle autorità presso il tribunale di Osaka poiché a loro modo di vedere l’impiccagione sarebbe un metodo di esecuzione degradante per la dignità umana. Il loro obiettivo è «puntare i riflettori sulla realtà della pena di morte» e avviare una discussione pubblica in Giappone sulla continuazione di questa pratica.