100 giorni di proteste in Iran
Il regime continua a reprimere duramente le manifestazioni iniziate per la morte di Mahsa Amini e che si sono trasformate nelle contestazioni più durature dalla rivoluzione del 1979
Da ormai 100 giorni in Iran proseguono le proteste cominciate a metà settembre a causa della morte di Mahsa Amini e poi trasformatesi in manifestazioni più estese contro il regime estremamente conservatore del paese. Tra la fine del 2017 e la fine del 2019 in Iran c’erano già state alcune proteste altrettanto inedite e violente contro l’aumento dei prezzi e in favore di migliori condizioni economiche. Quelle degli ultimi mesi però sono le più durature e partecipate dalla rivoluzione del 1979, che cambiò la storia del paese: coinvolgono soprattutto donne e giovani studenti, ma anche sportivi e celebrità, che hanno portato avanti e sostenuto le proteste, con molte persone uccise, arrestate o torturate.
Le prime proteste furono organizzate nel Kurdistan iraniano (nel nord-ovest del paese) dopo la presunta uccisione di Amini, una donna di 22 anni morta in carcere il 16 settembre dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per non aver indossato correttamente il velo. Presto si estesero a gran parte dell’Iran, coinvolgendo in particolare le studentesse universitarie e moltissimi giovani, che contestavano più ampiamente l’oppressione del regime e il ruolo della polizia religiosa, il corpo che si occupa di far valere le rigide regole di morale e decoro religioso in vigore in Iran.
Passati quasi tre mesi e mezzo, le proteste stanno andando avanti sia nella capitale Teheran che in altre città del paese, tra cui Sanandaj, che si trova nel Kurdistan, Mashhad, a nord-est, e Bandar Abbas, a sud, sul golfo Persico.
Uno dei gesti più ricorrenti durante la prima fase delle proteste delle studentesse era quello di togliersi o dare fuoco al velo islamico (hijab), cantando slogan contro il regime teocratico che governa il paese e contro Ali Khamenei, la Guida suprema, cioè la figura politica e religiosa più importante dell’Iran. Da qualche tempo invece si è diffusa la consuetudine di avvicinarsi ai religiosi islamici per togliere loro il turbante e poi scappare: un gesto che viene considerato un simbolo della rimozione del potere.
Nelle ultime settimane peraltro i manifestanti hanno cominciato a lanciare bombe molotov contro diversi edifici religiosi e contro la polizia.
A schoolgirl without a headscarf in Tehran knocks off a cleric’s turban & runs away. “#TurbanTossing is a campaign to protest against the symbol of access to the ruling system, privilege, corruption and oppression. #MahsaAmini #مهسا_امینی #عمامه_پرانی pic.twitter.com/rdwrTXQ2Nr
— Omid Memarian (@Omid_M) November 13, 2022
In tutto questo tempo le forze di sicurezza iraniane hanno represso con grande violenza le proteste. I video condivisi sui social network dalle organizzazioni non governative che si occupano di diritti civili mostrano tra le altre cose la polizia sparare sulla folla e picchiare i manifestanti, mentre le testimonianze delle famiglie di varie persone uccise o arrestate parlano di segni di torture, confessioni forzate e persone fatte sparire.
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Secondo l’organizzazione non governativa HRANA, l’agenzia di stampa gestita dagli attivisti per i diritti umani in Iran, sono stati uccisi più di 500 manifestanti, tra cui 69 minorenni. Altre migliaia di persone sono invece state arrestate e incriminate per aver partecipato alle proteste. Vari giornalisti sono stati condannati al carcere con l’accusa di aver fatto propaganda contro lo stato.
Finora inoltre è stata eseguita la condanna a morte di due ragazzi ritenuti colpevoli del reato di moharebeh, traducibile come «inimicizia contro Dio». Il primo era stato arrestato con l’accusa di aver bloccato una strada a Teheran e di aver aggredito e ferito un agente di polizia; il secondo di aver accoltellato e ucciso due membri delle forze di sicurezza iraniane. Entrambi sono stati impiccati. Almeno 26 persone sono state condannate a morte con accuse del tutto simili o rischiano di esserlo, scrive Amnesty International.
Nonostante la violenta repressione e alcune promesse molto vaghe da parte del regime, come quella sull’abolizione della polizia religiosa e quella di rivedere le regole sul velo obbligatorio, le proteste sono andate avanti e sono state sostenute in maniera molto trasversale in tutto il paese.
Prima della partita contro l’Inghilterra ai Mondiali di calcio in Qatar, per esempio, la Nazionale iraniana non ha cantato l’inno nazionale in segno di protesta, provocando molte critiche da parte del regime. Una delle più note attrici iraniane, Taraneh Alidoosti, è invece stata arrestata e incarcerata con l’accusa di aver «incitato al caos» per aver sostenuto le proteste e criticato le esecuzioni pubbliche.
Altre persone molto conosciute in Iran, tra cui l’ex calciatore Ali Karimi e l’attore Ashkan Khatibi, hanno detto di essere state interrogate dai servizi segreti iraniani e di aver ricevuto minacce di morte sia al telefono che sui social network per aver sostenuto i manifestanti. La ong Kurdistan Human Rights Network ha scritto che qualche giorno fa il rapper curdo Saman Yasin aveva tentato il suicidio a causa delle durissime condizioni nel carcere del nord del paese in cui era detenuto. Yasin è una delle persone che erano state condannate a morte per aver partecipato alle proteste: sabato però la Corte suprema iraniana ha fatto sapere di aver accolto il suo appello contro la sentenza, per cui il processo a suo carico dovrà essere rifatto.
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