Cosa resta oggi dello Zecchino d’Oro
Il festival di canzoni per bambini ha accompagnato varie generazioni, ma farlo in mezzo a YouTube e TikTok è più difficile
di Viola Stefanello
Lo Zecchino d’Oro è un festival dedicato alla musica per bambini fondato nel 1959, che da sessantun anni si tiene a Bologna, in un istituto appartenente ai frati minori del convento di Sant’Antonio, l’Antoniano. Ma è anche un’istituzione della cultura pop italiana, di cui quasi tutti, sopra i vent’anni, hanno un ricordo almeno sbiadito.
Potrebbe essere quello di una televisione in bianco e nero su cui si muovono Topo Gigio e Cino Tortorella – in arte Mago Zurlì – che ha presentato lo Zecchino d’Oro per mezzo secolo tra il 1959 e il 2008. Potrebbe essere il ritornello di una delle tantissime canzoni che sono entrate nella memoria collettiva italiana, dal maldestro cosacco Popoff al Katalicammello veloce alto e snello, dal valzer del moscerino ai quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due, che raccontava ai bambini una piccola rivoluzione mentre in Europa c’erano i moti studenteschi e operai del ‘68.
Nel 1959 la prima musicista donna della Rai, Niny Comolli, fu incaricata di creare una trasmissione che accompagnasse il “Salone del Bambino” della Triennale di Milano e decise di organizzare una sorta di festival di Sanremo per l’infanzia. Da allora a oggi è cambiato tutto nel modo in cui adulti e bambini consumano l’intrattenimento, soprattutto grazie all’arrivo di internet e poi delle piattaforme di streaming. L’offerta di programmi vecchi e nuovi, riproducibili in qualsiasi momento e quasi sempre gratis, si è moltiplicata a dismisura, e di conseguenza sono diminuiti gli eventi culturali di massa, quelli di cui intere generazioni hanno un ricordo condiviso.
Ma lo Zecchino d’Oro è ancora lì. La sessantacinquesima edizione si è tenuta come sempre all’Antoniano e va in onda tra il 22 e il 24 dicembre su Rai 1, con la direzione artistica di Carlo Conti. Il formato è sempre lo stesso da decenni: quattordici canzoni, scritte appositamente da autori adulti ma per l’infanzia, vengono interpretate da uno o più bambini solisti tra i 3 e i 12 anni. Ad accompagnarli è il Piccolo Coro dell’Antoniano, che quest’anno era composto da 57 bambini e bambine e diretto da Sabrina Simoni, che ha sostituito la storica direttrice Mariele Ventre nel 1995, dopo la sua morte.
Quest’anno le canzoni in gara trattavano i temi più disparati: c’è la crisi di mezz’età del padre di “Giovanissimo papà” e l’orso a cui si scioglie la casa per via del riscaldamento globale, il fastidio di un maglione invernale che pizzica la pelle e l’orangotango strappato alla foresta e portato a Malibù. Come da tradizione, gli animali sono i protagonisti di molte canzoni, ma ci sono alcuni dettagli che emergono dalle canzoni e che ricordano che certe cose sono cambiate: una canzone contiene il verso «hai gli occhi incollati sul tuo cellulare, chissà cosa c’è dentro», in un’altra il bambino chiede al papà di smettere di usare i filtri su Instagram per sembrare più bello.
A scegliere la migliore, come sempre, sono due giurie: una di adulti, la Giuria dei Grandi, e una di 12 bambini che votano alzando dei numeri che vanno da 6 a 10 alla fine di ogni esibizione, la Giuria dei Piccoli. Il premio è uno zecchino d’oro, ovvero una piccola moneta che prende il nome dai soldi usati da Pinocchio nella fiaba di Carlo Collodi.
Uno dei punti cardine dello Zecchino d’Oro, che viene ripetuto più volte anche durante la trasmissione, è che “vince la canzone, non l’interprete”. Da quando, negli anni Settanta del secolo scorso, il programma fu accusato di “incoraggiare il divismo infantile”, l’Antoniano ha cercato di allontanarsi dall’idea che gli interpreti delle canzoni fossero i protagonisti, come succede invece nei festival per adulti come Sanremo. L’organizzazione insiste sul fatto che i bambini vivano la partecipazione al festival come un gioco o un’avventura, e non una competizione o un’occasione come tante altre per diventare famosi.
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«Rispetto a cinquanta ma anche vent’anni fa, tra gli adulti c’è sempre più la tendenza a ragionare per tappe e fare progetti per far partecipare i figli a vari programmi, augurandosi non solo che facciano delle belle esperienze musicali, ma anche di garantire loro un futuro professionale e un accesso al mondo dello spettacolo o della televisione o della musica. Ma è una visione distorta che hanno alcuni adulti, e non risponde alla realtà», dice Sabrina Simoni, direttrice del Piccolo Coro dell’Antoniano. «Fortunatamente, allo Zecchino d’Oro questi fraintendimenti sono molto pochi, perché tutti capiscono il contesto. Da noi rimane l’idea che se qualcuno scopre di avere una predisposizione, un amore o un talento per la musica, li seguirà con l’impegno e con lo studio».
L’esperienza è piuttosto diversa per i bambini che fanno parte del coro e per quelli che partecipano come solisti. Per i primi, lo Zecchino d’Oro è uno degli eventi più importanti dell’anno, ma è anche parte di un percorso più ampio, lungo e diversificato: per esempio, il Piccolo Coro dell’Antoniano è particolarmente amato in Cina, e prima del Covid non era raro che i bambini viaggiassero fino a lì per dei concerti. «Per i bambini che fanno l’esperienza da solisti, partecipare allo Zecchino d’Oro è come entrare in una favola in cui sono assorbiti completamente: lascia in loro un’impronta fortissima», racconta Simoni, che segue anche i solisti per aiutarli con l’intonazione e la tecnica vocale.
È facile immaginare come all’apice del successo popolare della trasmissione, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, partecipare allo Zecchino d’Oro potesse essere un’enorme emozione (e un certo motivo di vanto) per i bambini che ne facevano parte. Lo stesso si può dire della seconda ondata di popolarità del programma, all’inizio degli anni Duemila, quando canzoni come “Le tagliatelle di Nonna Pina” o “Il cuoco pasticcione” cominciarono ad essere usate anche all’interno di trasmissioni molto seguite come La prova del cuoco e Paperissima Sprint, e i grandi classici del repertorio venivano proposti costantemente dagli animatori dei centri estivi o dei villaggi turistici.
Oggi i maggiori estimatori dello Zecchino d’Oro sono spesso gli adulti che sono cresciuti con le sue canzoni. Chiara Paumgardhen, la bambina di nove anni che quest’anno ha interpretato “La canzone della settimana”, ha scoperto il repertorio storico dello Zecchino quando era molto piccola perché entrambi i genitori erano stati fan sfegatati da bambini e volevano farlo conoscere anche a lei. Lei, che da grande vuole fare la cantante, dice che è stata un’esperienza molto bella e ricorda con particolare emozione il fatto di «aver provato insieme a tutti i compagni e alla maestra Sabrina tutte le nostre bellissime canzoni». Ma il padre dice che lo Zecchino d’Oro non è molto conosciuto tra gli amici della figlia, «e quindi questa esperienza rimane un ricordo principalmente per noi genitori».
Anche Eugenio Cesaro, cantante trentunenne della band Eugenio in via di Gioia e autore della “Canzone della settimana”, ha trovato molto emozionante scrivere per la trasmissione. «Io sono nato e cresciuto in una famiglia in cui fin da piccoli ci si metteva in piedi sugli sgabelli a cantare canzoni per bambini. Mia mamma aveva mandato delle canzoni allo Zecchino in passato, quindi quando mi si è parata davanti l’occasione di scriverne una anch’io non ho avuto alcuna difficoltà. Mio cugino aveva partecipato allo Zecchino d’Oro con “Ma che pizza”, nel 1994, anno in cui poi vinse “Metti la canottiera”, e sapevo quella canzone a memoria, ce l’ho nel DNA.»
Per decenni, insomma, lo Zecchino d’Oro è stato un fenomeno di massa ineludibile, seguito da decine di milioni di persone. La trasmissione è stata mandata prima in eurovisione e poi in mondovisione per vari anni, e a lungo sono arrivate canzoni scritte da autori di tutto il mondo. “Volevo un gatto nero”, che nemmeno vinse la sua edizione nel 1969, ha venduto moltissimo in Giappone. Cristina d’Avena, che all’età di tre anni aveva interpretato “Il valzer del moscerino” e aveva poi partecipato per anni al Piccolo Coro, è diventata una celebrità cantando le sigle dei cartoni animati.
Nel 2008 l’UNESCO, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di preservare il patrimonio culturale dell’umanità, ha dichiarato lo Zecchino d’Oro “patrimonio dell’Umanità per una cultura di pace”, citando l’impegno nel far incontrare bambini e culture musicali di tutto il mondo e la promozione della non-violenza e della pace attraverso i testi delle canzoni.
Oggi, i bambini si imbattono nelle canzoni del festival principalmente in tre modi. Uno è il cartone animato 44Gatti, co-prodotto dall’Antoniano e da Rai Ragazzi e distribuito anche all’estero: la serie segue le avventure di un gruppo di gatti che compongono una band che si chiama Buffycats. Molti altri le imparano perché i genitori e i nonni gliele cantano da piccoli, perché avevano un CD con una vecchia compilation di classici in casa e, soprattutto, grazie a YouTube, su cui l’Antoniano punta tantissimo da dieci anni a questa parte. Quest’anno, il canale ufficiale ha superato i 2 milioni di iscritti e i 2 miliardi di visualizzazioni complessive.
Cercando “canzoni per bambini” su YouTube, sono diverse le canzoni dello Zecchino d’Oro che appaiono tra i primi risultati. Tra le canzoni che hanno più visualizzazioni ce ne sono soprattutto di vecchie: “Volevo un gatto nero” (che è del 1969 e ha 255 milioni di visualizzazioni), “Il coccodrillo come fa?” (1993, 152 milioni) e “Il caffè della Peppina” (1971, 117 milioni). Al quinto posto, però, ce n’è una uscita nel 2017 che è diventata molto virale tra i più piccoli: si chiama “L’anisello Nunù”, ha 93 milioni di visualizzazioni e parla di un somaro dislessico. Il fatto che le canzoni siano sempre accompagnate da video – e spesso da cartoni animati – aiuta.
«Il nostro pubblico web è sempre quello: si tratta di mamme e famiglie. In particolare mamme di bambini dai 3 agli 8 anni, donne tra i 25 e i 40 anni. Abbiamo anche adolescenti che una volta cresciuti si riascoltano le canzoni e poi le nonne, che si ricordano le canzoni dei loro Zecchini», spiega Cinzia Del Vecchio, che da più di dieci anni coordina l’attività del Piccolo Coro dell’Antoniano online.
Su TikTok, che è senza dubbio il social network dove i ragazzini sono più presenti, finora è stato deciso di non aprire un profilo perché «secondo le loro regole, i bambini non ci potrebbero stare. Poi ci sono lo stesso, ma noi vogliamo rispettare l’infanzia e non mercificarla troppo», dice Del Vecchio. In vista del sessantesimo anniversario della fondazione del Piccolo Coro, nel 2023, conta però di aprire un account TikTok i cui contenuti siano indirizzati soprattutto a giovani e adulti nostalgici. «Vogliamo raccontare l’amore che le persone provano verso lo Zecchino d’Oro, che genera ancora ricordi teneri, coinvolgendo anche ex bambini che ne hanno fatto parte e che potrebbero raccontare il backstage. Stiamo cercando di rivolgerci a quel mondo di persone che ricordano sempre lo Zecchino e magari sono genitori di bimbi che lo seguono adesso», continua Del Vecchio.
Per Luca Barra, che insegna Televisione e media digitali all’Università di Bologna, «lo Zecchino nello scenario contemporaneo si trova ad essere inevitabilmente tante cose insieme», finendo per incrociare tante generazioni che l’hanno vissuto in modo diverso. «È uno spazio in cui nonni e genitori tramandano ai figli una tradizione». Il fatto che sia organizzato nel periodo natalizio, quando i bambini non vanno a scuola e i genitori hanno spesso le ferie dal lavoro, non è casuale: il valore dello Zecchino d’Oro stava infatti anche nel fatto che fosse un evento collettivo, che generava dei riferimenti condivisi tra i bambini, che avevano ascoltato e imparato le stesse canzoni.
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«Oggi, i bambini sono al centro di stimoli molto ampi e numerosi, grazie alla televisione che offre tantissimi canali dedicati alla programmazione per bambini e alle piattaforme digitali, che costruiscono sullo stesso tipo di programmazione parte della loro offerta», dice Barra. «Il valore di programmi come lo Zecchino è il fatto che, anche in un momento in cui tutti quanti consumano contenuti in base alle loro preferenze individuali come e dove vogliono grazie alla tecnologia, continui ad esserci un rituale condiviso, un terreno comune, un immaginario che magari è meno rivoluzionario di altri prodotti, ma ha il valore del classico, della sicurezza in mezzo alla tempesta».