È un gran momento per i panettoni
Non solo perché è quasi Natale, ma perché è un dolce sempre più popolare e apprezzato anche fuori dall'Italia
La tradizione del panettone, il dolce natalizio per antonomasia in Italia, ha un’origine lontanissima nel tempo e legata indissolubilmente alla città di Milano. Ma la sua forma tipica, quella che ricorda un po’ un fungo, è più recente e fu introdotta dal pasticciere industriale Angelo Motta. In un’intervista al Giorno del 1956, Motta raccontò:
Una volta il panettone era basso, a cappello, diciamo, da prete. Qualcuno lo fa ancora così. […] Nel 1919, quando aprii il mio primo negozio, in via Chiusa, cominciai a studiare un impasto nuovo, in modo da ammorbidire e rendere più soffice il panettone […]. Avevo osservato che col lievito artificiale, ormai adoperato da tutti, la pasta veniva più dura, meno leggera e saporita. Allora decisi di tenermi all’uso dei vecchi e di adoperare il lievito naturale, fatto in bottega […]. Poi aggiunsi uova e burro, misi l’uva grossa, bella chiara, che chiamo sultanina, al posto dello zibibbo ch’è sempre un po’ amaro, e per sostenere la pasta, che si era un po’ ammorbidita, studiai una specie di cintura di cartone, diciamo come un busto da donna, che tenesse su la forma. Così i miei panettoni, invece di essere schiacciati, diventarono alti, presero un po’ la forma del Duomo.
A un secolo dall’invenzione di Motta la popolarità del panettone è solo aumentata, con le produzioni artigianali che si sono moltiplicate fissando uno standard qualitativo alto, che nella percezione dei consumatori è contrapposto a quello industriale. È una tendenza che non si nota solo in Italia, ma anche all’estero, dove negli ultimi due decenni l’interesse verso il panettone è cresciuto sempre di più, specie negli Stati Uniti, in Giappone e in molti paesi europei. Secondo Conpait, la confederazione dei pasticceri italiani, le esportazioni di panettoni e pandori italiani valgono complessivamente 500 milioni di euro, una cifra in crescita del 10 per cento circa rispetto all’anno scorso.
La ricetta tradizionale del panettone prevede pochi ingredienti, ma lavorati a lungo con un procedimento un po’ complesso: farina, acqua, lievito naturale (anche detto “madre”), zucchero, burro, uova, frutta candita e uvetta. Prima di arrivare a questa forma, però, il panettone ha attraversato una lunga evoluzione, iniziata quando era un semplice pane di frumento.
Come ha ricostruito Stanislao Porzio nel suo libro Il panettone. Storia, leggende, segreti e fortune di un protagonista del Natale, l’usanza di mangiare un pane natalizio è presente da secoli a Milano, legata all’antico “rito del ciocco”, di derivazione probabilmente nordeuropea. A Natale le famiglie usavano mangiare tre pani di frumento dopo aver messo un grosso “ciocco” di legno nel camino, attribuendo al gesto un valore religioso (il numero dei pani era un rimando alla Trinità). Una fetta però veniva lasciata e conservata fino al giorno di San Biagio, il 3 febbraio. San Biagio (San Bias in milanese) è il protettore della gola, e la fetta di pane secca serviva appunto a scongiurare i malanni («el dì de san Bias se benedis la gola e el nas», dice un antico proverbio).
L’attestazione più nota del rito del ciocco e dei tre pani è contenuta in un manoscritto milanese del Quattrocento, firmato da Giorgio Valagussa, maestro privato degli Sforza. Un secolo e mezzo dopo il manoscritto di Valagussa, l’antenato del panettone riemerse in un altro documento, stavolta un dizionario, il Varon Milanes del 1606. Alla voce “Panaton de Danedaa” il dizionario riporta:
Pan grosso qual si suole fare il giorno di Natale. Per metafora, un inetto, infingardo, da poco.
Secondo Porzio questa definizione è indicativa del fatto che il panettone dell’epoca non era considerato una pietanza così ricercata. «Nel frattempo il frumento si era diffuso molto di più» dice Porzio. «Non era più esclusivo come lo era fino al 1400, quando la legge impediva alla quasi totalità dei forni milanesi la panificazione con il frumento». Probabilmente per questo, nel corso degli anni il panettone fu arricchito con ingredienti considerati più golosi. E nel 1814, nella prima edizione del dizionario Cherubini, alla voce “Panaton” si legge:
Specie di pane addobbato con burro, zucchero e uva passerina o di corinto (ughett), che suol farsi in varie forme nella nostra città in occasione delle feste di Natale, per lo che viene anche detto fra noi el panaton de Natal.
Nell’Ottocento quindi si era già arrivati quasi allo stadio definitivo: mancavano soltanto la frutta candita, il lievito e le uova. Il lievito comparve in una delle prime ricette del panettone, contenuta in un libro di cucina di Giovanni Felice Luraschi. Il cedro candito e i tuorli d’uovo, invece, si trovano per la prima volta nel ricettario di un famoso cuoco piemontese, Giovanni Vialardi. Entrambi i ricettari sono di metà Ottocento.
È probabile che sul finire del secolo il panettone fosse già noto e apprezzato anche in buona parte dell’Italia, a causa del continuo scambio che c’era tra Milano e le altre città, perlomeno quelle del Centro Nord (si sa che Giuseppe Verdi, che era emiliano, era un grande estimatore del panettone). Non solo, la pasticceria Baj di Milano già tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento spediva panettoni sia in Italia che all’estero, nei paesi con un’alta presenza di emigrati italiani come l’Argentina e gli Stati Uniti.
Perciò, quando negli anni Trenta del Novecento le pasticcerie milanesi di Motta e di Gino Alemagna industrializzarono la produzione dei panettoni, trovarono già un cospicuo mercato nazionale per vendere i propri prodotti.
L’industrializzazione portò alla diffusione di massa dei panettoni, ma gli conferì anche un gusto uniformato, favorito tra le altre cose dall’utilizzo di basi preparate al posto degli ingredienti freschi. Anche per questo un decreto del ministero delle Politiche agricole ha stabilito dal 2005 un disciplinare piuttosto preciso degli ingredienti da utilizzare se si vuole definire un prodotto da forno “panettone”, nel quale sono imposti burro e uova fresche; sono comunque compresi gli emulsionanti, indispensabili per un prodotto da forno industriale, e alcuni conservanti come il sorbato di potassio.
La differenza tra i panettoni industriali e quelli artigianali sta proprio nell’utilizzo di questi additivi, non tanto nella lavorazione che più o meno è la stessa. Un laboratorio artigianale ha tempi di preparazione abbastanza brevi, mentre le grandi aziende cominciano la produzione già in estate, per essere pronti a rifornire su vasta scala i supermercati a novembre e dicembre. Un panettone industriale deve quindi poter rimanere morbido vari mesi, senza guastarsi (ciò non significa che sia necessariamente più scadente, questo aspetto dipende anche dalla qualità del burro e degli altri ingredienti).
In ogni caso, la produzione artigianale è cresciuta sempre di più negli ultimi decenni. Secondo Porzio questo fenomeno è dovuto al fatto che il lavoro del pasticciere si è fatto sempre più itinerante: spostarsi per imparare il mestiere è diventato in certi casi un requisito importante per crescere dal punto di vista professionale. Molti pasticcieri sono passati per Milano, acquisendo le competenze sul panettone e poi portandole in giro per l’Italia: così la produzione artigianale, che prima era circoscritta a Milano e zone limitrofe, ha cominciato a crescere anche in altre zone d’Italia e poi del mondo.
Tra le prime aziende fuori dall’Italia a specializzarsi nella produzione di panettoni ce ne fu una addirittura giapponese, specializzata in prodotti da forno europei. Si trova a Kobe, si chiama Donq e produce panettoni dagli anni Novanta. Contestualmente sono comparse fiere e competizioni, volte a valorizzare soprattutto l’aspetto artigianale della produzione. Peraltro una di queste, “Re Panettone”, è stata fondata proprio da Stanislao Porzio. Tra le competizioni più celebri ci sono invece la Coppa del Mondo fondata da Giuseppe Piffaretti a Lugano, nel 2019, e il concorso Artisti del Panettone, a Milano.
Il grande interesse che c’è fuori dall’Italia attorno al panettone è testimoniato tra le altre cose dalla stampa internazionale. A dicembre il New York Times ha scritto due articoli sul tema, dopo che aveva dedicato al panettone già altri articoli nel 2011, nel 2016, nel 2017, nel 2020 e nel 2021. Questa settimana è uscito un articolo che parla di panettoni anche sul quotidiano francese Libération, intitolato «Il panettone, il pane benedetto dell’Italia», in cui si parla dell’«esplosione» della sua diffusione in tutto il mondo. C’è anche qualche scettico: un recente commento uscito sul Frankfurter Allgemeine Zeitung si lamenta della diffusione del dolce definendolo provocatoriamente «pasta lievitata ammuffita».
Secondo la giornalista Laura Lazzaroni, esperta di panificazione, il panettone ha seguito un po’ la stessa traiettoria della pizza: un prodotto comunissimo per noi italiani, che poi ha viaggiato all’estero, è stato reinterpretato e poi è tornato in Italia con una consapevolezza nuova da parte dei consumatori, che apprezzano sempre di più le rivisitazioni e le produzioni artigianali. Stando a un’indagine di NielsenIQ, il mercato italiano dei panettoni valeva 251,6 milioni di euro nel 2021, di cui il 53 per cento generato dal mercato artigianale. Oggi le pasticcerie più apprezzate normalmente investono molte risorse e attenzioni nella produzione e nella vendita di panettoni, attrezzando appositi siti per gli ordini online e proponendone varie tipologie che a volte raggiungono anche i 40 euro per un dolce da 1 kg.
«Il panettone è un esempio perfetto di come il gusto italiano viaggi sempre, avanti e indietro, contaminandosi e rinascendo» ha detto Lazzaroni al New York Times. In effetti il panettone ha almeno un tratto in comune con la pizza: il fatto che può assumere moltissime varianti, anche distanziandosi molto da quella tradizionale più apprezzata dai puristi.
– Leggi anche: Come fanno i panettoni ai laboratori di Vergani, a Milano (dalla newsletter Colonne)