Dopo 50 anni di carcere, a Renato Vallanzasca non viene concessa la semilibertà
Il celebre e raccontatissimo criminale milanese non si è mai ravveduto, per i giudici, e rischia una detenzione ancora più dura
di Stefano Nazzi
Renato Vallanzasca, uno dei più famosi e raccontati criminali italiani, responsabile tra gli anni Settanta e Ottanta di rapine, sequestri, omicidi ed evasioni, ha 72 anni e ne ha trascorsi in carcere 50. Tuttora è detenuto nel carcere milanese di Bollate: meno di un mese fa, il tribunale di Sorveglianza gli ha negato l’accesso alla libertà condizionale o, in subordine, al regime di semilibertà, richiesto dai suoi avvocati Corrado Limentani e Paolo Antonio Muzzi. La decisione è stata presa nonostante la procura generale avesse dato parere positivo.
Il giudice del tribunale di Sorveglianza ha motivato la sua decisione dicendo che Vallanzasca «non ha mai mostrato comportamenti positivi di ravvedimento da cui poter desumere l’abbandono delle scelte criminali». Come esempio del suo carattere tuttora intemperante viene citato un diverbio avuto ad agosto con un agente della polizia penitenziaria durante il controllo delle urine. Il tribunale di Sorveglianza riconosce che Vallanzasca sia «un uomo provato» ma le «condizioni di salute del detenuto non possono avere rilievo».
Una precedente richiesta, analoga, era stata bocciata dal tribunale di Sorveglianza nel 2020, con una decisione poi confermata dalla Corte di Cassazione nel 2021. Il prossimo 18 gennaio il tribunale di Sorveglianza dovrà inoltre decidere sulla richiesta del pubblico ministero presso il giudice dell’esecuzione, secondo la quale a Vallanzasca dovrebbero essere applicati altri sei mesi di isolamento diurno sulla base del cumulo delle pene.
Vallanzasca aveva avuto accesso al regime di semilibertà nel 2010: gli venne revocata dopo che, nel 2014, era stato accusato di aver rubato un paio di boxer e altri oggetti di scarso valore in un supermercato di Milano. Lui ha sempre negato sostenendo che qualcuno gli avesse messo nella borsa quegli oggetti. Disse: «Io non sono un uomo che crede ai complotti ma certo quello che mi è accaduto è strano». Nel novembre del 2014, Vallanzasca fu condannato a dieci mesi per tentata rapina impropria.
Quell’evento ha ancora oggi un peso nelle decisioni del tribunale di Sorveglianza. «La condanna fu a dieci mesi», dicono i suoi avvocati, «Vallanzasca la sta scontando in pratica da otto anni. Le sue condizioni di salute non sono buone, non potrebbero esserlo dopo 50 anni trascorsi in carcere. È un uomo stanco, di 72 anni, lontanissimo dal mondo criminale, non rappresenta nessun pericolo. A parte il piccolo furto del 2014, che lui peraltro nega, non commette reati da 40 anni».
Gli avvocati di Renato Vallanzasca, e chi sostiene le sue richieste, non negano certamente la gravità dei reati commessi tra gli anni Settanta e Ottanta e per i quali fu condannato a quattro ergastoli. Sostengono però che, a distanza di 40 anni da quei fatti, abbia il diritto di accedere ai benefici di legge previsti. La semilibertà può essere applicata dopo l’espiazione di metà della pena o, per i delitti più gravi, di almeno due terzi. L’ammissione è subordinata ai progressi compiuti nel corso del trattamento, e alla valutazione che ci siano le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società. La liberazione condizionale può essere concessa al condannato all’ergastolo quando abbia scontato almeno 26 anni di pena.
Il caso di Vallanzasca è quindi unico tra i detenuti italiani. Il suo nome è certamente molto pesante nella storia criminale, ed è anche una sorta di simbolo per tutte le storie, molte vere e alcune ingigantite e trasformate in leggende, che lo hanno riguardato negli anni. In una lettera scritta al tribunale di Sorveglianza nel 2020, Vallanzasca esordì dicendo: «ora che ritengo siano altri gli ideali da seguire, quell’etichetta continua a “perseguitarmi”. Per tutti resto il bandito». Scrisse anche: «non di rado mi son sentito rimproverare da destra a manca, di aver il più delle volte sottaciuto alle mie vittime e torno a dire per l’ennesima volta che la mia è stata una decisione mirata proprio perché trattasi del silenzio che si deve come il massimo rispetto per le vittime! Non ci sono parole dignitose. Non ci possono essere parole».
Per i giudici che nel 2020 negarono la semilibertà, però, Vallanzasca ha sempre preferito «non confrontarsi con la dolorosità del male arrecato». Inoltre, non sarebbe mai arrivato a un «definitivo ripudio del passato stile di vita e l’irreversibile accettazione di modelli di condotta normativamente e socialmente conformi». In quella sentenza il tribunale di Sorveglianza parlò di «una «prematura e continua devianza che è accresciuta nel corso degli anni e lo ha accompagnato durante tutta la vita». Venne sottolineata anche la sua «pericolosità sociale».
Di quella «prematura e continua devianza» parlava nella sua lettera lo stesso Vallanzasca, facendo coincidere l’inizio con i suoi sette anni d’età:
Cominciai a far parlare di me per aver liberato un nugolo di animali dallo zoo-circo Medini. Da quel momento, quello che avrebbe potuto sembrare un gioco un tantino sopra le righe di un turbolento fanciullo è diventato poi uno stile di vita. I falsi miti, la forza che mi sembrava di dimostrare al mondo intero, i soldi facili. Allora era ed ero proprio così. Ora tutto sembra diverso da quest’ottica, dallo sguardo di un uomo di 70 anni che ripensa agli errori da un’ennesima galera.
Il fatto a cui si riferisce nella sua lettera è la liberazione, nella primavera del 1958, di una tigre del circo Medini attendato in via Porpora, nella zona milanese di Lambrate, a poche decine di metri da casa sua. Vallanzasca, che aveva otto anni (è nato il 4 maggio 1950), fu portato nel carcere minorile Beccaria di Milano dove rimase 48 ore per poi essere dato in affidamento a quella che lui chiamava zia Rosa, cioè la moglie del padre, che abitava in via Apuli, nel quartiere Giambellino.
È tra Giambellino e Lambrate che Vallanzasca iniziò a compiere, con altri adolescenti suoi complici, una serie di piccoli furti: taccheggi nei grandi magazzini. Dopo i primi piccoli reati, Vallanzasca e gli altri passarono a furti più gravi: si creò una vera “batteria”, il termine con cui la malavita indica i gruppi di rapinatori. Il nome di Vallanzasca cominciò a circolare nel mondo della malavita. La banda venne chiamata sui giornali prima “gang dei drogati”, poi iniziò a circolare la definizione “banda della Comasina”. Uno dei membri della “batteria” era infatti figlio del titolare di un bar del quartiere Comasina di Milano. In realtà però né Vallanzasca né il suo gruppo avevano nulla a che fare con quella zona, ma continuavano invece a farsi vedere soprattutto nei bar del Giambellino e, per quanto riguarda Vallanzasca, a Lambrate.
Dai primi anni Settanta la banda iniziò a diventare famosa. Si avvicendarono una quarantina di persone ma il nucleo originario, cioè le più vicine a Vallanzasca, erano Antonio Colia detto il Pinella, la sua compagna Pina Usuelli, Rossano Cochis, Vito Pesce, Angela Corradi, Claudio Gatti, Mario Carluccio e Antonio Furiato.
Nel 1972, dopo una rapina al supermercato Esselunga di via Monterosa, Vallanzasca venne arrestato dalla squadra mobile di Milano diretta da Achille Serra, che ricordò così al Giornale quel primo arresto:
Ogni sabato a Milano c’era una rapina nei supermercati. Quattro o cinque ragazzotti sparavano in aria con il mitra e saccheggiavano i negozi. Questi episodi divennero così frequenti da seminare il panico tra la popolazione, tanto che le persone finirono per avere paura di uscire per fare la spesa…
Renato Vallanzasca era tra i sospettati della rapina, e venne portato in questura per accertamenti. Raccontò ancora Serra:
Mi disse “Caro Achille – era così che mi chiamava – se riesci a mandarmi in galera ti regalo questo orologio d’oro”, disse sfilandosi l’orologio Rolex dal polso. Nel mentre mi telefonò il maresciallo Scuri per dirmi di aver trovato nel secchio dell’immondizia di casa Vallanzasca tanti pezzettini di carta che, ricomposti come un puzzle, davano le buste paga dei dipendenti dell’Esselunga…
Poco prima di essere arrestato, Vallanzasca aveva avuto un figlio con la sua fidanzata di allora. Disse in un’intervista anni dopo:
Maxim (Massimiliano, ndr) è nato il 17 luglio del 1972. L’ultima volta che l’ho visto aveva tre anni. Quando è nato pensavo di essermi sistemato, economicamente stavo bene, e non avevo più niente a che vedere con la malavita. Questo per dire che non sono uno che mette al mondo un figlio tanto per… . Poi è andata come è andata. Ho provato a contattarlo, ma mi ha fatto sapere che non gli importa nulla di me. So solamente che porta il cognome della madre. Vivono a Rozzano e lei si è messa con uno che ha una ditta di bottoni o qualcosa del genere.
Con il figlio Vallanzasca non ha più avuto nessun contatto.
Per la rapina fu condannato a dieci anni di carcere. Dopo quattro anni, grazie a una guardia carceraria compiacente, riuscì a farsi mandare in infermeria per una sospetta epatite. Attorno a questo episodio nacque la storia, raccontata anche nel film Vallanzasca – Gli angeli del male del 2010, di Michele Placido, secondo cui Vallanzasca avrebbe ingerito uova marce e si sarebbe addirittura iniettato urina per via endovenosa per potersi ammalare. Più semplicemente, alcune guardie carcerarie furono corrotte e Vallanzasca riuscì a fuggire.
Durante la fuga verso sud l’auto su cui viaggiava assieme ad alcuni complici venne fermata a un posto di blocco. I banditi spararono: venne ucciso l’appuntato di polizia Bruno Lucchesi. Per quell’omicidio si autoaccusarono altri due esponenti della banda. Vallanzasca, che era latitante, venne comunque condannato all’ergastolo.
La banda venne ricostituita. In un anno portarono a termine 76 rapine e quattro sequestri di persona. Era un periodo violentissimo a Milano, con una media di 150 omicidi all’anno (nel 2021 sono stati nove). Solo nel 1977 in città avvennero 34 sequestri di persona. Si scontrarono, soprattutto per il controllo delle bische clandestine, la banda di Francis Turatello, figlio del boss della mafia italo-americana Frank Coppola, detto “Frank tre dita”, con la banda di Angelo Epaminonda, detto “il Tebano”. La banda di Vallanzasca entrò in conflitto con quella di Turatello, ma poi venne sancita la pace e i due divennero amici.
Il 17 novembre 1976 la banda andò in piazza Vetra, a Milano, per organizzare una rapina a un’agenzia della banca Cariplo. Due poliziotti si insospettirono, e ci fu un lungo conflitto a fuoco. Un poliziotto, il vice brigadiere Giovanni Ripani, fu ucciso. Morì anche un bandito, uno degli uomini più legati a Vallanzasca: Mario Carluccio. Un altro bandito, Franco Carreccia, ferito, venne arrestato. Quel giorno in piazza c’erano Antonio Colia e Rossano Cochis. Vallanzasca non partecipò alla sparatoria: era dentro la banca per quello che, disse poi, doveva essere un sopralluogo. Il Corriere della Sera titolò: “Banditi uccidono un brigadiere della Volante. Sparatoria in piazza Vetra: muore un gangster. La gang dei drogati sorpresa dalla polizia mentre stava per assaltare la Cassa di Risparmio”.
Nel dicembre 1976 la banda sequestrò in via Caprilli, a Milano, Emanuela Trapani, figlia di un imprenditore. La ragazza venne rilasciata a gennaio 1977 dopo il pagamento di un riscatto di un miliardo di lire. Fu molto raccontata dai giornali la storia di un legame sentimentale tra Vallanzasca e la giovane rapita. Lui stesso lo raccontò, mentre Trapani non ne ha mai parlato. Fu allora che nacquero i soprannomi “il bel René” o “il bandito dagli occhi di ghiaccio” o il “Dillinger della Comasina”, con cui i giornali chiamavano Vallanzasca. Lui ha detto di aver sempre detestato quegli appellativi (John Herbert Dillinger fu un celebre criminale statunitense degli anni Trenta, più volte evaso dal carcere).
Il 6 febbraio 1977 al casello autostradale di Dalmine, in provincia di Bergamo, l’auto su cui viaggiavano Vallanzasca, Antonio Furlato e Michele Giglio fu fermata a un posto di blocco. I tre spararono, gli agenti della polizia stradale risposero al fuoco: furono uccisi i poliziotti Luigi D’Andrea e Renato Barborini. Morì anche Furlato.
Vallanzasca, ferito, si rifugiò a Roma dove venne arrestato il 15 febbraio 1977. Nel 1979, nel carcere di Rebibbia, si sposò con Giuliana Brusa, un’ammiratrice che gli aveva scritto più volte. Testimoni delle nozze furono il capo del clan dei Marsigliesi, Alberto Bergamelli, e Francis Turatello, che due anni più tardi nel carcere sardo di Badu ‘e Carros venne ucciso da Pasquale Barra, detto “‘o animale”, Vincenzo Andraous, il “killer delle carceri”, Salvatore Maltese e Antonino Faro. Il motivo di quell’omicidio non è mai stato chiarito.
Nel 1980 Vallanzasca fu trasferito a Milano. Il 28 aprile di quell’anno evase assieme ad altri 16 detenuti tra cui Corrado Alunni, militante prima delle Brigate Rosse e poi delle Formazioni comuniste combattenti. In 17 presero in ostaggio alcune guardie e uscirono dal portone del carcere sparando. Alunni venne colpito alla testa da un colpo sparato dalle guardie carcerarie. Anche Vallanzasca fu ferito ma riuscì ad allontanarsi. Le sue condizioni erano però piuttosto gravi: i suoi complici, che lo avevano aiutato ad allontanarsi dalla zona di San Vittore, lo lasciarono davanti all’ospedale San Carlo.
Dopo le cure, Vallanzasca fu portato nel carcere di Novara. Qui, nel 1981, ci fu una violenta rivolta dei detenuti. Approfittando del caos, Vallanzasca raggiunse un ex membro della sua banda, Massimo Loi, che si era pentito, e lo uccise con quattro coltellate. Ricordò Achille Serra:
Loi aveva fatto da autista a due malviventi che erano entrati a casa dei genitori di Vallanzasca per impossessarsi di 100 milioni di vecchie lire. La rapina trascese a tal punto che i banditi presero a calci il papà di Renato. Questo episodio Vallanzasca se lo legò al dito e quando ebbe a tiro Loi, si vendicò.
Vallanzasca negò a lungo di essere stato l’autore di quel delitto. Lo confessò però implicitamente nella biografia scritta con il giornalista Leonardo Coen, L’ultima fuga:
Vallanzasca tira fuori dalla tasca due coltelli, uno lo allunga a Massimo. Loi rifiuta di prenderlo. Non sa che fare. Non cerca neanche di scappare. Resta inchiodato al pavimento, lasciando cadere il coltello che Renato gli ha lasciato in mano. “Cornuto, difenditi perché ti sto ammazzando!” grida Renato che lo piglia a schiaffi. “Hai ragione (…) sono stato una merda… perdonami”. Renato invece continua a mollargli schiaffoni su schiaffoni (…) Loi commette l’errore fatale. Con la forza della disperazione, reagisce… Afferra il coltello caduto per terra, lo ficca nella coscia destra di Renato. È la sua condanna a morte. “Era questo che aspettavo!” Vallanzasca vibra quattro coltellate: due raggiungono Massimo al petto, una allo stomaco, l’ultima alla gola, uno squarcio che gli recide la giugulare. Il corpo si accascia.
Il 18 luglio 1987 Vallanzasca fuggì di nuovo in quella che fu la sua evasione più assurda: scappò dal traghetto che da Genova lo stava portando a Nuoro. I carabinieri lo assegnarono per sbaglio alla cabina che di solito veniva data agli agenti delle forze dell’ordine, che aveva l’oblò. Vallanzasca svitò i bulloni e uscì dal traghetto che ancora doveva salpare da Genova. Tornò a Milano chiedendo vari passaggi ad automobilisti. Disse poi: «La cosa che mi colpì di più una volta a Milano fu che non la riconoscevo. Non è che fosse più bella o più brutta, semplicemente non era quella che ricordavo».
Durante la pausa di un processo aveva detto al giornalista di Radio Popolare Umberto Gay che, se fosse riuscito a evadere, sarebbe andato a trovarlo alla radio. Così fece: si presentò alla sede della radio di piazza Santo Stefano e lì si fece intervistare. Umberto Gay e Fabio Poletti, che condussero l’intervista, la mandarono in onda dicendo che era stata fatta per telefono, ma la verità venne presto scoperta. Rimasto solo in una stanza per pochi minuti, Vallanzasca aveva rubato dalla tasca della giacca di Poletti la sua patente. Fu con quella che si fece registrare in un albergo di Grado, in provincia di Gorizia, dove venne arrestato venti giorni dopo.
Disse Achille Serra:
Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto. Anni dopo mi scrisse una lettera in cui mi chiese di aiutare la mamma che era anziana e non poteva andare a trovarlo in carcere a Bollate. Riuscii a farlo trasferire a Milano e lui, per Natale, mi inviò un calendario per ringraziarmi del favore. Da quel giorno non l’ho mai più sentito.
Nel 1995 fu accusato di aver tentato una nuova fuga, dal carcere di Nuoro, con l’aiuto della sua legale di allora. Nel 2008, si sposò con una sua amica d’infanzia, Antonella D’Agostino, ex compagna di Francis Turatello, dalla quale divorziò nel 2018.
Vallanzasca scrisse nella lettera che inviò nel 2020 al giudice del tribunale di Sorveglianza:
Di anni ne sono passati tanti, ma penso che nessuno possa credere che il tutto sia trascorso senza lasciare la ben minima traccia, il bambino del circo ha fatto il suo tempo, così come il bel René e non si può credere che un’intera vita tribolata possa non essere servita a crescere nulla. E seppur nell’attuale silenzio, i pensieri sulla mia vita mi hanno accompagnato, così come la consapevolezza dei danni che le mie scelte hanno creato. A tutti. Il mio futuro ora potrebbe essere quello di un percorso in comunità, magari per poter essere utile a chi, più giovane di me, potrebbe trarre qualche giovamento dalla mia vita assurda.
I suoi avvocati hanno spiegato che chiederanno ancora l’ammissione alla condizionale e in subordine alla semilibertà. Ma prima bisogna attendere che il 18 gennaio il tribunale si esprima sulla richiesta di isolamento diurno avanzata dal giudice per l’esecuzione della pena: «oggi, allo stato attuale delle cose, sarebbe davvero una misura senza senso», dicono i suoi legali.