C’è vita al di là della pornografia mainstream
Diversa da quella pensata da uomini e per uomini: in molti casi ha tanto a che fare con l'attivismo politico e poco con il porno e il sesso
di Giulia Siviero
La pornografia mainstream, quella disponibile su siti come Pornhub, per capirci, ha portato a una standardizzazione della sessualità e dell’immaginario sessuale. Ha plasmato il modo in cui si concepisce il sesso, il modo in cui lo si fa e come se ne parla. Ha costruito precisi canoni estetici e modelli convenzionali di mascolinità e femminilità. Mettendo al centro la ricerca di un piacere funzionale a quello maschile, ha poi normato o escluso pratiche, corpi e desideri che non corrispondevano a quei criteri. Un altro porno però esiste e ha una storia. È, soprattutto, uno strumento sovversivo e politico che vuole cambiare l’immaginario collettivo sul sesso, sui corpi e sui ruoli di genere imposti dalla pornografia mainstream.
Marciare a tempo
L’industria pornografica contemporanea nacque negli anni Cinquanta negli Stati Uniti quando, nel dicembre del 1953, Hugh Hefner fondò una nuova rivista: Playboy, esplicitamente pensata per uomini eterosessuali.
Nel primo numero di Playboy, quello con una foto di Marilyn Monroe in copertina, Hefner scriveva, nell’editoriale: «Se sei un uomo tra i 18 e gli 80 anni, Playboy fa per te». E ancora: «Vogliamo chiarire fin dall’inizio che non siamo un magazine per famiglie. Se sei la sorella, la moglie o la suocera di un uomo, e hai preso questa rivista per sbaglio, per favore passala a lui e torna al tuo Ladies Home Companion (una rivista femminile, ndr)».
Playboy ebbe un enorme successo: nel 1960 raggiunse un milione di copie e negli anni Settanta arrivò ad avere un pubblico maschile di sette milioni di lettori e osservatori. Quello che fece Playboy fu trasformare la pornografia eterosessuale in cultura di massa.
Come è spiegato bene in un articolo dell’attivista La Fra, con Playboy «lo sguardo dell’uomo» si è insinuato «in una artificiosa intimità per spiare le vite surreali di donne giovanissime, chirurgicamente rimodellate e apparentemente prive di una ricerca del piacere non funzionale a quello maschile». I corpi che vengono mostrati corrispondono a determinati canoni estetici, rappresentano «l’esasperazione di ciò che è considerato “femminile”» e «sono il risultato di una ricercata architettura di genere». L’effetto è paradossale: «Il mondo dell’immaginario pornografico è popolato di super-femmine che svolgono azioni quotidiane, come passare l’aspirapolvere o battere a macchina, e che con espressione di sorpresa e accondiscendenza soddisfano le voglie del maschio di turno». Ed è popolato, spiega sempre La Fra, da «un esercito di maschi addestrati a “marciare a tempo”».
Paul B. Preciado, filosofo e scrittore spagnolo che si occupa di teoria queer e studi di genere e che di Playboy si è occupato molto, sostiene che la pornografia sia «una potente tecnologia di produzione di genere e sessualità» che ha creato e normalizzato i modelli stereotipati di mascolinità e femminilità, e che ha generato «scenari utopici scritti per soddisfare l’occhio eterosessuale maschile». La pornografia «mostra essa stessa quali sessualità vengano al suo interno socialmente legittimate o scoraggiate, quali siano le pratiche accettabili e i soggetti rappresentabili e degni di essere “sessualmente desiderabili”». Codifica la sessualità, induce desideri, impone stereotipi, stabilisce ciò che è “normale” e esclude ciò che non lo è.
Anti-sex e pro-sex
Hugh Hefner, fondatore di Playboy, fu da subito criticato e osteggiato dalle femministe, che lo accusarono di ridurre le donne a semplici oggetti e di svilirne la sessualità («Sono le nostre acerrime nemiche», disse lui, commissionando su Playboy un pezzo che le screditava).
Ma la storia era più complicata di così. Nei movimenti femministi, la pornografia divenne infatti un argomento di conflitto molto aspro. A partire dalla fine degli anni Sessanta, all’interno del pensiero femminista il rapporto sessuale era diventato una vera e propria vicenda politica: alla radice del predominio maschile sulle donne, avevano teorizzato diverse pensatrici, non c’era lo sfruttamento economico né l’esclusione dai diritti politici e civili (come avevano sostenuto le femministe fino a quel momento), ma una supremazia nella sfera della sessualità e della riproduzione. Alle donne era stato cioè imposto un modello di sessualità basato unicamente sul piacere maschile, un piacere che conduce alla procreazione e che porta, automaticamente, all’imposizione di ruoli sociali e familiari ben definiti.
I temi centrali di questo nuovo femminismo divennero la sessualità slegata dalla riproduzione, dal piacere, dalla famiglia e dalla maternità, a cui si connettevano una serie di obiettivi: l’autodeterminazione e la conoscenza delle donne sul loro corpo, l’incremento dei mezzi di contraccezione, la richiesta di legalizzazione dell’aborto, i consultori femministi e così via.
– Leggi anche: Storia di un libro femminista rivoluzionario
A partire dal presupposto che alla base dell’oppressione delle donne ci fosse il sesso, parte del femminismo degli anni Settanta e Ottanta soprattutto di ambito statunitense interpretò la pornografia come il prodotto più evidente della disuguaglianza sociale, economica e politica tra i sessi. E attraverso la pornografia spiegò lo sfruttamento politico e sessuale delle donne, così come la violenza esercitata nei loro confronti.
Attraverso il gruppo “Women Against Pornography” (Donne contro la pornografia) creato nel 1979 e guidato dall’attivista Andrea Dworkin e dall’avvocata Catharine MacKinnon, questo femminismo rifiutò dunque la pornografia in quanto tale arrivando a sostenere, nei confronti della pornografia e poi del lavoro sessuale, posizioni abolizioniste e censorie.
Allo stesso tempo si sviluppò un altro movimento di donne, che si identificava anch’esso con il movimento femminista e che venne definito pro-sex. Denunciava anch’esso l’industria pornografica commerciale così com’era, ma criticava le conclusioni a cui era arrivato il femminismo abolizionista. Sosteneva che le rappresentazioni pornografiche mainstream non fossero le uniche possibili, che il corpo e il piacere delle donne non avevano un’unica storia, e che potevano dunque rappresentare anche una resistenza al patriarcato.
Questo femminismo parlò della necessità di una nuova politica della sessualità: che mettesse al centro la riappropriazione femminile del piacere e della sua rappresentazione.
Come racconta Valentine aka Fluida Wolf, autrice del libro PostPorno. Corpi liberi di sperimentare per sovvertire gli immaginari sessuali, «stava nascendo una sorta di attivismo del piacere in cui sex worker e attrici porno erano pronte a autodeterminarsi, a rivendicare la loro libertà di scelta, e che cominciarono a lavorare in modo differente intorno a molte questioni che avevano a che fare con la sessualità: con il fine di riappropriarsi delle tecnologie di produzione di rappresentazione sessuale e del piacere».
Uno dei momenti più importanti di questa rivoluzione avvenne nel 1982, quando l’attrice porno Annie Sprinkle, statunitense, decise di non farsi più dirigere, ma di dirigere se stessa nel film Deep inside Annie Sprinkle. «La svolta fu epocale», dice Valentine aka Fluida Wolf: «Non solo questa volta dietro la telecamera c’era una donna, ma vennero ribaltate le dinamiche e le rappresentazioni del femminile: venne dato spazio agli orgasmi, ai desideri e al piacere che fino a quel momento non era stato contemplato».
Sprinkle non fu l’unica protagonista di questo momento rivoluzionario: come lei ce ne furono molte altre, tutte accomunate dalla radicale messa in discussione del porno mainstream. E con loro iniziò una nuova era del porno.
Un altro porno è possibile
L’altro porno, cioè il porno nato dalla ribellione al porno mainstream e ai suoi codici, è una categoria molto articolata e in continua espansione. Comprende esperienze differenti che pur nella diversità si trovano spesso a coesistere. Ci sono produzioni che si auto-definiscono di porno indipendente, etico, femminista, queer o tutte queste categorie insieme.
Si parla di porno indipendente, riassume Valentine aka Fluida Wolf, «quando dietro non ci sono grandi interessi finanziari o compagnie; è etico perché queste piccole produzioni pongono spesso l’accento sui diritti di chi lavora per loro garantendo equità negli stipendi, protezioni durante il sesso e la crucialità del consenso; è femminista nel momento in cui decide di posizionarsi politicamente e dare visibilità al piacere e all’autodeterminazione di tutti quei soggetti da sempre oppressi dal patriarcato; è queer nell’offrire una rappresentazione della sessualità dei corpi e delle pratiche che travalica e rompe con il binarismo di genere».
Il postporno sfugge, invece, a categorizzazioni e definizioni (sono le stesse persone che lo praticano a definirlo), ma di sicuro si può dire che è un porno caratterizzato politicamente. Non ha tanto a che fare con il porno e con il sesso: usa la sessualità come una forma di attivismo politico e quasi mai ha l’intento di produrre eccitazione in chi lo guarda. Semmai, un cambiamento sociale.
Il termine postporno fu inventato nel 1990 dall’artista olandese Wink van Kempen per un nuovo spettacolo di Annie Sprinkle, il cui momento centrale era rappresentato dalla performance A public cervix announcement. Quella performance presentava già molte delle caratteristiche che possono essere attribuite al postporno e aiuta a comprendere che cosa esso rappresenti e significhi.
Seduta su una poltrona davanti al pubblico di un teatro di New York, Sprinkle apriva le gambe, inseriva uno speculum nella vulva e invitava spettatori e spettatrici ad avvicinarsi e a guardare il fondo del suo utero con una torcia. «Fatti avanti, ciao, come stai? Grazie per essere venuto. Sei il benvenuto», diceva in tono colloquiale. E ancora: «Volete vedere sempre di più? Guardate, ciò che state vedendo è veramente il sesso». Sprinkle si stava riappropriando del proprio corpo: lo mostrava fino in fondo e mostrava il paradosso dello sguardo dominante nella pornografia mainstream. Con quell’azione, ha scritto Preciado, Sprinkle voleva ricondurre all’assurdo «l’imperativo di massima visibilità del sesso femminile imposto dalla pornografia tradizionale».
Una scena particolarmente attiva del postporno in Europa è stata Barcellona. A partire dagli anni Duemila, lì vennero prodotti documentari, fondati collettivi e blog, gruppi di lavoro e di ricerca. Si tennero incontri, workshop, performance e festival autofinanziati e autogestiti dove alla riflessione teorica si affiancava la pratica di produzione e sperimentazione. In Italia la postpornografia è invece storicamente legata a Slavina, performer, attivista e blogger di Malapecora.
L’intento dichiarato dal postporno è smontare i codici della pornografia mainstream e creare nuovi immaginari.
Come ha spiegato la geografa e attivista Rachele Borghi, rappresenta i soggetti esclusi dalla pornografia commerciale e che per la pornografia commerciale non hanno dignità sessuale; fa spesso ricorso all’ironia e prende le distanze da tutti gli stereotipi legati a sesso, genere, maschilità e femminilità; si sottrae alla commercializzazione e al mercato scegliendo l’autoproduzione e l’autodistribuzione; e predilige le pratiche pubbliche, come i workshop o le performance, per condividere ciò che di solito è collocato nella sfera del privato e per renderlo dunque, anche attraverso questo rovesciamento, politico e trasformativo.
Le pratiche del postporno, e alcuni esempi
I corpi che trovano spazio nella postpornografia sono gli indesiderabili per definizione: «Tutti quei corpi che erano solo e sempre stati rappresentati come oggetti abietti della rappresentazione pornografica: donne, lesbiche, gay, persone trans, minoranze sessuali, corpi non bianchi, non binari, intersessuali, corpi deformi, persone disabili, puttane, corpi mutilati. Sono messi al centro della rappresentazione e solo con la loro presenza fanno saltare tutti i codici narrativi ed estetici imposti», dice Valentine aka Fluida Wolf.
Nel suo libro, Valentine aka Fluida Wolf fa degli esempi: il film Ageless Desire (“Desiderio senza età”) del 1999, in cui tre coppie di sessantenni raccontano e mostrano con gioia la loro vita sessuale (il tema del sesso tra persone anziane è spesso rimosso), o Manifesto Gordx del 2012 in cui vengono ripresi due corpi grassi, mentre una voce dice «Ecco le mie pieghe, qui sono i miei rotoli, questo è il mio corpo, quello inappropriato, quello che apparentemente nessuno vuole scoparsi».
Poiché la sessualità così com’è stata pensata e costruita non è un fatto privato, ma un meccanismo di produzione culturale, sociale e politico, anche la decostruzione praticata nel postporno va portata fuori: da qui, l’importanza di sessualizzare lo spazio pubblico. Le azioni cosiddette di “pornoterrorismo” della performer, artista e attivista spagnola Diana J. Torres ne sono un esempio.
Torres, tra le altre cose, ha organizzato azioni di masturbazione collettiva su suolo pubblico (per «mostrare la masturbazione come qualcosa di naturale, che ci riguarda tutti/e») o i cosiddetti «pornoassalti» alle strutture religiose o governative:
«Volevamo realizzare una qualche azione a Roma e Chiara Schiavon (artista e attivista italiana, ndr) ebbe un’ispirazione divina (o diabolica): la sua idea meravigliosa fu quella di nascondere dei registratori con nastri di gemiti e altri rumori sessuali nella basilica di San Pietro, in Vaticano. (…) Studiammo come realizzarla senza troppi rischi ed elaborammo un piano molto semplice. Registrammo su due diversi registratori da pochi soldi gemiti, sculacciate, noi stesse mentre scopavamo. (…) Chiara mise il suo registratore sull’altare della Madonna del Soccorso, io il mio nella tomba di Pio XII. (…) Successe che l’altare si mise a gemere di punto in bianco (…).
Dalla tana dei fondatori della repressione sessuale sono uscite grida di piacere e il simbolismo, per me, è ben preciso: tutte le grida che non ci sono mai potute essere a causa loro, tutte queste anime condannate, trovavano una voce e parlavano dall’inferno in cui erano state relegate, passando il loro tempo scopando, avendo orgasmi scandalosi, godendosi il sesso a loro negato, in quanto non consone alla norma ecclesiastica. Le gole recise, i corpi bruciati e torturati, liberando la loro oscena vendetta. Un autentico sballo, devo dire».
Nelle performance postporno si fa poi spesso ricorso, dice Valentine aka Fluida Wolf, alle pratiche BDSM, di bondage, dominazione, sadismo e masochismo e non per forza utilizzate in senso erotico: «La sessualità, dal genitale come luogo centrale o principale, viene spostata in tutto il corpo che diventa un possibile luogo di sperimentazione del piacere». In questo immaginario viene messa in discussione anche la mascolinità: «Attraverso rappresentazioni di uomini che provano piacere in posizioni o attraverso atti che non sarebbero mai accettabili per il concetto di maschile che propone la società: uomini legati, fragili e penetrati. E questo presuppone una sovversione dei codici dati».
Altra caratteristica comune del postporno è che non si inserisce in un circuito di consumo del piacere. Si tratta di una pornografia autoprodotta e autodistribuita seguendo l’etica del “do it yourself” (DIY), che non desidera entrare nei canali di diffusione del porno mainstream e che porta avanti una forte critica al capitalismo.
Spesso, le forme di porno queer, femminista, etico e indipendente hanno invece mezzi di distribuzione e di diffusione. E sono dunque anche più conosciute.
L’esempio più celebre è quello di Erika Lust, regista, produttrice cinematografica e scrittrice svedese. Nel 2005 Lust ha fondato la sua casa di produzione e poi, nel 2010, il Lust Cinema: un cinema erotico online che promuove film diretti da donne. Per vederli è necessario iscriversi al sito e sottoscrivere un abbonamento. Il diritto al compenso è centrale per queste forme di porno: «I costi e le persone coinvolte per produrre un film sono innumerevoli e chi si occupa di porno etico ha come principale obiettivo quello di distruggere lo sfruttamento che purtroppo costituisce quasi la prassi all’interno del famoso free-porn», spiega Valentine aka Fluida Wolf.
Il rifiuto della commercializzazione è ciò che forse più di tutto differenzia il postporno dall’altro porno non mainstream. È per questo che è quasi impossibile trovare materiale postporno on-line. Come spiega Rachele Borghi, la letteratura sulla postpornografia «comprende, nella maggior parte dei casi, blog, siti internet e materiale di descrizione del fenomeno prodotto dalle stesse performer o da attivistə queer». E moltissimi riferimenti, compresi titoli, nomi di attiviste e di festival in giro per il mondo, si trovano anche nel libro di Valentine Aka Fluida Wolf.