Forse sta finendo l’era in cui “ci sono troppe serie tv”
Dopo anni di abbondanza, negli Stati Uniti reti televisive e piattaforme di streaming stanno rallentando con le nuove produzioni
Negli Stati Uniti gli ultimi vent’anni sono stati spesso definiti la “golden age of television” (“l’era dell’oro della televisione”): un periodo particolarmente florido sia per quanto riguarda la quantità di serie tv prodotte sia per la loro alta qualità, cominciato all’incirca nel 1999 con l’uscita dei Soprano e proseguito poi con grandi successi come Mad Men, Breaking Bad e Game of Thrones. Nella televisione sono arrivati insomma tantissimi soldi, che poi via via si sono spostati sulle piattaforme di streaming: ma a lungo, per chi aveva un’idea più o meno buona per una nuova serie tv era piuttosto facile trovare qualcuno disposto a credere e investire nel progetto.
Negli ultimi anni infatti le tante piattaforme di streaming hanno avuto un disperato bisogno di nuovi contenuti originali per competere con un numero crescente di rivali, col risultato che l’offerta è stata vastissima e perfino eccessiva: da tempo è diffusa tra critici, addetti ai lavori e semplici spettatori l’impressione che escano troppe serie, per la stragrande maggioranza di scarsa qualità. Le cose però ora stanno cambiando e i soldi a disposizione sembrano essere in diminuzione. In un articolo sul New York Times, il giornalista John Koblin ha scritto che «l’offerta infinita di nuovi programmi che ha contribuito a definire l’era dello streaming – generando nuove serie a un ritmo vertiginoso ma anche travolgendo gli spettatori con un quantitativo eccessivo di scelta – sembra finalmente rallentare».
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Secondo uno studio dell’istituto di ricerca Ampere Analysis, il numero di nuove serie messe in produzione dai canali televisivi e dalle piattaforme di streaming e destinate al pubblico americano è calato del 24% nella seconda parte del 2022, rispetto allo stesso periodo del 2021, e del 40% rispetto al 2019. È stato peraltro un calo piuttosto improvviso, perché nella prima metà dell’anno le produzioni sembravano seguire i soliti ritmi, e anzi essere in aumento, per un totale di 325 nuove serie messe in cantiere.
In primavera, però, erano arrivate le prime avvisaglie di una certa crisi nel settore dello streaming: ad aprile, Netflix aveva comunicato di aver perso per la prima volta nella sua storia abbonati a livello globale, 200mila in un trimestre. L’azienda aveva dato la colpa alle famiglie che condividono gli account ma soprattutto alla concorrenza, che «sta creando venti contrari alla crescita dei ricavi».
Il prezzo delle azioni di Netflix era crollato, così come anche quello di molte altre aziende di intrattenimento. Tra le preoccupazioni per la più ampia crisi economica – che, tra le altre cose, ha portato molti a riconsiderare il proprio abbonamento a uno o più servizi di streaming – si è cominciato a parlare molto di più della necessità di generare profitti, e non soltanto nuovi abbonati da esibire nelle assemblee degli azionisti. A luglio, Bloomberg aveva pubblicato un articolo intitolato “L’era dell’oro della televisione è finita. È cominciata l’era dell’austerità”.
«In parte è una questione di tagliare i costi e controbilanciare il calo dei prezzi delle azioni, in parte si tratta di ripensare la modalità di acquisto frenetico degli ultimi cinque anni», ha detto al New York Times Robert Greenblatt, produttore ed ex presidente di NBC Entertainment e WarnerMedia. Negli ultimi anni, infatti, è successo anche che sia stata autorizzata la produzione di serie senza che fosse nemmeno pronta la sceneggiatura.
Le aziende che hanno tagliato di più il numero di serie acquistate per il pubblico statunitense nella seconda metà del 2022 sono Netflix, Warner Bros. Discovery (che include HBO) e Paramount. Non hanno gli stessi problemi Apple TV+ e Amazon Prime, che possono contare sul fatto che le loro aziende madri, Apple e Amazon, sono molto ricche e non hanno per ora bisogno che i loro servizi di streaming siano economicamente autosufficienti.
In queste circostanze, il New York Times racconta che vari agenti stanno consigliando ai loro clienti che vogliono vendere le proprie sceneggiature di aspettare che passi il momento di crisi. Altri, invece, stanno considerando di proporre film, e non serie: «In netto contrasto con ciò che è accaduto per oltre 20 anni, gli sceneggiatori ora prendono progetti televisivi e li convertono in lungometraggi perché saranno più facili da realizzare. La verità è che molti progetti degli ultimi 20 anni che avrebbero dovuto essere film sono stati trasformati in serie tv», ha detto lo sceneggiatore Jay Carson.
La crisi, comunque, è principalmente statunitense: gli acquisti di serie internazionali oppure dei cosiddetti programmi “unscripted” (come reality, talent show e giochi) continuano ad andare benissimo.
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Secondo Koblin, però, gli spettatori non dovrebbero preoccuparsi, sia perché i tempi di produzione delle serie tv sono molto lunghi e quindi ci vorranno anni prima di accorgersi di un’eventuale diminuzione dell’offerta televisiva statunitense, sia perché una diminuzione dell’offerta potrebbe essere in ogni caso un bene. «Alla fine, potrebbe esserci un lato positivo per gli spettatori: ridurre il volume di serie prodotte potrebbe portare a una percentuale più alta di programmi di qualità», scrive il giornalista.