Quante sono davvero le commissioni sui pagamenti elettronici
A trattenere una piccola percentuale sono sia le banche sia i gestori delle carte, ma definirla con precisione è difficile
Il governo di Giorgia Meloni ha rinunciato all’idea di eliminare l’obbligo per gli esercenti di accettare i pagamenti elettronici, quindi con carte di credito e bancomat, per le spese sotto ai 60 euro. La decisione è arrivata dopo settimane di accese discussioni sulla diffusione e i vantaggi del cosiddetto POS (un acronimo di point of sale, “punto di vendita”), il dispositivo che riceve i pagamenti elettronici nei negozi. L’articolo della bozza della prossima legge di bilancio che permetteva agli esercenti di rifiutare i pagamenti elettronici sotto ai 60 euro era stato criticato da più parti, anche dalla Commissione Europea, che temeva avrebbe incentivato l’evasione fiscale.
L’obbligo di accettare i pagamenti elettronici per qualsiasi somma era stato introdotto a giugno dal governo di Mario Draghi, ed era stato pensato per favorire i pagamenti tracciabili, anche per i piccoli importi, per contrastare l’evasione fiscale e fornire migliori servizi ai consumatori. Ma il governo Meloni aveva cercato di eliminarlo per fare un favore ai commercianti, che in parte se ne lamentavano sostenendo che le commissioni sui pagamenti tramite POS fossero troppo alte, specialmente sulle piccole somme. Molti esperti però ritengono che queste commissioni siano in realtà piuttosto basse e che le diverse categorie di esercenti le usino come pretesto per continuare ad accettare una parte dei pagamenti in contanti, che possono consentire margini più ampi per evadere il fisco.
A prescindere dai pretesti, resta il fatto che per i commercianti accettare i pagamenti elettronici comporta un costo, e nei mesi scorsi il sito Pagella Politica aveva provato a fare i conti, concludendo che non è per niente facile arrivare a stime precise. I pagamenti elettronici sono un servizio e il loro prezzo è deciso in autonomia dai fornitori, ossia le banche e i cosiddetti “circuiti”, come Bancomat, VISA o Mastercard. Non è possibile però sapere con certezza a quanto ammontano in media le commissioni perché si tratta di accordi presi tra privati.
Il primo passo è scomporre le commissioni sulla base di chi le riceve: quelle che vanno alla banca che emette la carta, quelle che riceve la banca dell’esercente, quelle che vanno ai circuiti su cui si appoggia la carta.
La commissioni che vanno alle banche si chiamano “interbancarie”: la banca dell’esercente, una volta ricevuto il pagamento, trattiene un importo in percentuale (la commissione interbancaria) che dovrà spartirsi con la banca che ha emesso la carta. Queste sono le uniche commissioni che è più semplice da quantificare perché sono regolate da una legge europea che ne stabilisce un tetto massimo: dello 0,2 per cento per i bancomat o le carte di debito e dello 0,3 per cento per le carte di credito.
Ci sono poi le commissioni pagate ai circuiti delle carte, che sono una percentuale della transazione. In alcuni casi, che restano comunque piuttosto rari, la commissione è un importo fisso (che in proporzione risulta quindi più oneroso nel caso di piccoli pagamenti). Le banche che ricevono il pagamento trattengono una parte dell’importo e la girano al circuito. Al contrario delle commissioni interbancarie, quelle sulle transazioni non sono soggette a specifiche leggi e cambiano a seconda delle banche e dei circuiti.
Infine, c’è il costo della macchinetta fisica, un importo che va al gestore che tecnicamente collega e gestisce l’infrastruttura (come Nexi, Verifone o altri). Il POS si può acquistare o noleggiare, e c’è una differenza: se è di proprietà ci si deve fare carico degli interventi di manutenzione, se è noleggiato solitamente la manutenzione è a carico dell’operatore e di solito in tempi più rapidi.
Ricapitolando: ci sono le commissioni interbancarie e quelle per il circuito delle carte; infine, il costo della macchinetta fisica. Messe tutte insieme comportano un costo per gli esercenti, ma stabilire con precisione il loro valore complessivo non è semplice. Come ha spiegato a Pagella Politica Matteo Risi, ricercatore dell’Osservatorio innovative payments del Politecnico di Milano, il sistema è in generale piuttosto opaco per motivi di concorrenza: le banche applicano le commissioni che vogliono, facendo anche differenze tra cliente e cliente, e non vogliono far sapere a quanto ammontano sia ai concorrenti ma anche alla clientela in generale.
Si può quindi ragionare in termini di valori massimi e di forbici entro cui si muovono le commissioni. Sul Corriere della Sera Milena Gabanelli e Francesco Tortora hanno provato a mettere insieme alcune delle offerte che hanno trovato sul mercato: in media le commissioni a carico dell’esercente sono dello 0,7 per cento se si paga con il bancomat, mentre dell’1,2 per cento con tutte le altre carte (credito e debito), a cui vanno ad aggiungersi i costi accessori di noleggio o acquisto del POS.
Il che significa che, in media, per un pagamento di 10 euro un esercente può pagare tra i 7 e i 12 centesimi. Diversi circuiti tuttavia offrono varie promozioni che escludono dalle commissioni i piccoli importi: come Bancomat, che nel 2020 le ha cancellate per due anni per i pagamenti sotto i 5 euro.
Si tratta però di calcoli da prendere con cautela. La varietà delle offerte dei gestori fa sì che probabilmente un esercente che ha aperto da poco abbia un contratto più nuovo e al passo coi tempi con la sua banca, quindi più conveniente, rispetto a chi invece lo aveva sottoscritto anni prima e non ha mai rinegoziato le condizioni con il suo istituto di credito. Allo stesso modo, è possibile e plausibile che le banche offrano condizioni migliori alle aziende più grandi e quindi con più transazioni, mentre mantengano commissioni più elevate per i piccoli operatori che non abbiano un grande giro d’affari.
Negli anni si sono affacciati sul mercato nuovi operatori per i pagamenti con carta che si sono messi in competizione con le banche e che diffondono condizioni più trasparenti. È sempre più diffuso SumUp, un servizio che fornisce un piccolo terminale portatile e che propone una commissione complessiva fissa dell’1,95 per cento per ogni pagamento. Nexi ha inoltre attivato una serie di promozioni per favorire i piccoli pagamenti: per esempio, ce n’è una valida fino al 31 dicembre che rimborsa le commissioni per i pagamenti inferiori ai 10 euro.
Si tratta di percentuali basse, ma molti esercenti se ne lamentano comunque, soprattutto quelli che vendono prodotti con piccoli margini di guadagno, come le edicole e i tabaccai. La differenza anche in questo caso la fanno le condizioni che i singoli esercenti negoziano: a un commerciante con margini molto ridotti può convenire provare a ottenere condizioni migliori dalla banca, anche per non perdere quei clienti che preferiscono pagare con la carta.
Negli ultimi anni i governi in carica hanno introdotto alcuni sgravi per compensare queste commissioni ai commercianti e rendere così meno oneroso accettare i pagamenti elettronici. Nell’ottobre del 2019, il governo di PD e Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte aveva introdotto un credito di imposta del 30 per cento sull’importo pagato in commissioni per gli esercenti con un fatturato sotto i 400 mila euro: cioè aveva dato la possibilità di detrarre dalle tasse il 30 per cento delle spese per le commissioni sui pagamenti elettronici. Il governo Draghi aveva poi aumentato al 100 per cento il credito d’imposta fino al 30 giugno, quindi di fatto gli esercenti venivano compensati totalmente delle commissioni. Ma a inizio luglio, proprio quando sono entrate in vigore le sanzioni in caso di rifiuto di un pagamento elettronico, la percentuale rimborsabile è tornata a essere del 30 per cento.
A proposito dei piani alternativi del governo per compensare le commissioni, Meloni ha detto che «ci inventeremo un altro modo». È probabile che il governo cercherà di aumentare di nuovo la percentuale di commissioni pagate da presentare come credito di imposta.
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