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  • Lunedì 19 dicembre 2022

La disobbedienza civile sul suicidio assistito

Raccontata da Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese, che si sono autodenunciati dopo avere accompagnato in Svizzera un uomo affetto da sclerosi multipla

di Alessandra Pellegrini De Luca

Filomena Gallo, Chiara Lalli, Felicetta Maltese e Marco Cappato alla stazione dei carabinieri di Santa Maria Novella, a Firenze (ANSA/CLAUDIO GIOVANNINI)
Filomena Gallo, Chiara Lalli, Felicetta Maltese e Marco Cappato alla stazione dei carabinieri di Santa Maria Novella, a Firenze (ANSA/CLAUDIO GIOVANNINI)

Chiara Lalli, giornalista e bioeticista, e Felicetta Maltese, attivista dell’associazione Luca Coscioni, si sono autodenunciate pochi giorni fa per aiuto al suicidio. Marco Cappato, il tesoriere dell’associazione che si è autodenunciato insieme a loro, ha detto che altre quattro persone si sono rese disponibili ad affrontare conseguenze penali per aiutare chi vuole accedere al suicidio assistito ma in Italia non ne ha il diritto.

Lalli e Maltese hanno fisicamente accompagnato in una clinica svizzera Massimiliano, un uomo di 44 anni affetto da sclerosi multipla e paralizzato in gran parte del corpo, che voleva accedere al suicidio assistito. In Italia non poteva farlo perché non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, ad esempio da un respiratore o da un ventilatore meccanico. È uno dei requisiti elencati come necessari per accedere al suicidio assistito dalla Corte Costituzionale, nella sentenza 242, quella che nel 2019, sempre grazie a un atto di disobbedienza civile di Cappato, legalizzò parzialmente il suicidio assistito: il caso era quello ampiamente discusso di Fabiano Antoniani, noto anche come dj Fabo, e la sentenza, storica, è anche nota come “sentenza Cappato”.

Il viaggio di Massimiliano è stato organizzato e finanziato dall’associazione Soccorso civile, di cui Cappato è il rappresentante legale. Negli ultimi quattro mesi, in quel caso da solo, Cappato si era già autodenunciato altre due volte per aver aiutato due persone a ricorrere al suicidio assistito all’estero, sempre perché prive del requisito del sostegno vitale.

Massimiliano è morto in una clinica svizzera, nel modo che ha scelto, con i suoi familiari vicini. Ora Lalli, Maltese e Cappato rischiano da 5 a 12 anni di carcere ciascuno per aiuto al suicidio, cioè il reato previsto dall’articolo 580 del codice penale italiano, che punisce «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione».

«Intendiamo aiutare tutti coloro che ce lo chiedono, in modo sistematico», dice Cappato, che aggiunge che già altre due persone hanno chiesto questo tipo di aiuto, e che le quattro che si sono rese disponibili a fornirlo, anche a costo di conseguenze penali, sono tutte già coinvolte nelle campagne che l’associazione fa da anni per la legalizzazione e la regolamentazione di suicidio assistito e dell’eutanasia in Italia (la differenza tra le due pratiche, accomunate dalla consapevole e libera volontà di chi vi ricorre, è che nel suicidio assistito il paziente si somministra autonomamente il farmaco letale, mentre nell’eutanasia è richiesto l’intervento di un medico).

«La nostra è un’azione aperta a chi via via si unirà lungo la strada: questa non è una lotta mia individuale, ma di tutta la società», ha detto Cappato.

Cappato, Lalli e Maltese hanno fatto ricorso a una pratica politica, la disobbedienza civile, che per come la conosciamo esiste da quasi due secoli e consiste nel rifiutarsi di obbedire a una legge ritenuta ingiusta, rivendicando pubblicamente questo rifiuto e assumendosene tutte le responsabilità, con l’obiettivo ultimo di cambiare quella stessa legge.

È una pratica idealmente non violenta, teorizzata nella seconda metà dell’Ottocento dal filosofo americano Henry David Thoreau, incarcerato per essersi rifiutato di pagare le tasse per ragioni politiche. Nel corso degli anni è stata usata in vari paesi del mondo per fare storici e importanti passi avanti sui diritti umani e civili. In Italia vi fecero ricorso esponenti storici dei Radicali come Emma Bonino e Marco Pannella. Negli ultimi anni, proprio sul fine vita, è stata usata dallo stesso Cappato e da altri membri dell’associazione Luca Coscioni, con l’obiettivo finale di modificare i divieti del codice penale italiano e portare all’approvazione di una legge sul tema.

Nel caso di Massimiliano, Maltese ha raccontato di essersi sentita pronta a unirsi a Cappato e a rischiare fino a 12 anni di carcere vedendo la figlia piccola di Cappato che gli passava dietro le spalle durante una chiamata di gruppo su Zoom: «quando mia figlia aveva quell’età io mi dissi che avrei fatto di tutto per non mancarle e poterle stare vicino: non volevo che Marco rischiasse di nuovo, che corresse un ulteriore rischio di mancarle, e ho pensato che non andava lasciato solo».

Maltese ha detto che è stata una decisione soppesata, elaborata col tempo, presa valutandone i rischi, anche sulla base della fiducia che ripone in Filomena Gallo, avvocata e segretaria dell’associazione Luca Coscioni.

 

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Lalli ha detto invece di aver deciso di unirsi alla disobbedienza civile rendendosi conto che a un certo punto, per lei, «era come se non ci fossero alternative moralmente accettabili». Secondo Lalli, «ogni tanto bisognerebbe smettere di parlare nel nome di queste persone e ascoltarle, parlarci, o anche solo fare un piccolo sforzo di immedesimazione, provare a immaginare anche solo per cinque minuti – provare a farlo, magari – cosa significhi non potersi muovere, aver bisogno di aiuto anche per fare la cosa più minuscola, come grattarsi o bere un bicchiere d’acqua».

Lalli ha raccontato che per arrivare in Svizzera lei e Maltese si sono alternate alla guida del veicolo. Una volta arrivate, una sera con Massimiliano hanno giocato a carte: «le sue carte le reggevo io, lui non poteva farlo: sembra un dettaglio inutile, ma non lo è. Quando ti trovi in quella condizione l’unico pensiero che può darti un minimo di pace è l’idea di essere libero di scegliere di uscirne: magari poi non lo fai, magari decidi di aspettare, ma sai che hai una via d’uscita, che puoi scegliere di interrompere quella condizione, sai che non sei costretto a subire l’ulteriore sofferenza di saperti incastrato in una condizione di impossibilità, senza via d’uscita».

Lalli ha raccontato di essersi chiesta cosa potesse fare per permettere a queste persone di poter scegliere: «mi sono risposta che ho una patente, che posso guidare e dar loro un pezzetto microscopico del mio aiuto: a quel punto non ho pensato troppo alle conseguenze, ho deciso semplicemente di farlo, forse l’ho fatto anche perché vorrei qualcuno facesse lo stesso per me».

– Ascolta anche: L’intervista di Chiara Lalli a Politics

Alla disobbedienza civile sul fine vita non si è arrivati in modo improvviso. Nel 2006 lo fece Mario Riccio, il medico anestesista che permise a Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, di morire interrompendo il trattamento sanitario che lo teneva in vita. Lo aveva richiesto in più occasioni e pubblicamente lo stesso Welby, che a partire dalla sua condizione, anni prima, aveva introdotto con forza il tema della legalizzazione dell’eutanasia nel dibattito pubblico italiano.

Riccio fu imputato per omicidio del consenziente, e poi prosciolto con una sentenza in cui la giudice citò anche l’articolo 51 del codice penale, che prevede la non punibilità per chi adempie al dovere di dar seguito a una richiesta legittima, come quella del malato di rifiutare le terapie, prevista dall’articolo 32 della Costituzione.

Ci sono state per decenni iniziative legali, campagne e appelli inascoltati per chiedere la legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito, compresa una proposta di legge di iniziativa popolare del 2013, ma il parlamento ha iniziato a discutere di una legge sul tema solo nel 2016. Anche a fronte di tutto questo, nel 2015 Cappato, Mina Welby, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni, e Gustavo Fraticelli, attivista dell’associazione, fondarono l’associazione Soccorso civile per organizzare l’aiuto al suicidio assistito, anche a costo della disobbedienza civile.

Inizialmente l’associazione si limitò a fornire informazioni su come accedere al suicidio assistito in Svizzera, e poi, protestando contro l’inerzia del parlamento, passò ad azioni più concrete. Come il pagamento del viaggio verso la Svizzera per chi voleva ricorrere al suicidio assistito – fu il caso di Dominique Velati, donna affetta da un tumore in stato terminale e iscritta all’associazione Luca Coscioni – e poi, con ulteriore coinvolgimento e disobbedienza civile, nel 2017, l’accompagnamento fisico delle persone che lo chiedevano.

È successo con Davide Trentini, un uomo di 53 anni malato di sclerosi multipla che Cappato e Welby aiutarono a raggiungere la Svizzera (Welby accompagnandolo, Cappato raccogliendo con l’associazione Soccorso civile i fondi necessari per pagare la clinica).

Soprattutto, è stato il caso di dj Fabo: l’atto di disobbedienza civile finora più decisivo, l’unico che ha portato effettivamente, dopo anni di tentativi, al parziale riconoscimento del diritto al suicidio assistito in Italia. Cappato aveva accompagnato fisicamente in Svizzera dj Fabo, che dopo un incidente in auto era diventato cieco e quasi completamente paralizzato e voleva ricorrere al suicidio assistito.

Dopo la morte di dj Fabo, Cappato si era autodenunciato, ed era iniziato il processo che ha poi portato, oltre che alla sua assoluzione, alla storica sentenza della Corte Costituzionale. È anche rifacendosi a questa sentenza che i giudici hanno deciso, due anni fa, l’assoluzione di Cappato e Welby per il caso Trentini, come si può leggere nelle motivazioni delle due sentenze (la seconda confermando la validità della prima, dopo il ricorso della procura di Massa).

C’è un passaggio fondamentale per capire come mai non solo la disobbedienza civile di Cappato è continuata, ma perché a un certo punto abbia iniziato ad allargarsi: col caso di dj Fabo la Corte Costituzionale chiese esplicitamente al parlamento italiano di approvare una legge. Lo fece nel 2018, dando al parlamento un anno di tempo, ma il parlamento non si mosse. Lo fece nuovamente nel 2019, con la sentenza che legalizzò parzialmente il suicidio assistito, in cui la Corte ribadì «con vigore» la necessità di fare una legge.

Cappato ha spiegato che dopo quella sentenza la disobbedienza civile si fermò, nell’attesa che il parlamento finalmente approvasse una legge, cosa ancora non avvenuta. «È molto importante capire la gradualità del nostro percorso: non è che ci siamo svegliati una mattina e abbiamo deciso di violare la legge», ha detto Cappato, che ha aggiunto: «la nostra disobbedienza civile è ripartita a fronte dell’inerzia totale del parlamento: abbiamo provato tutte le strade, e alla fine abbiamo deciso di tornare nell’unica sede che aveva recepito quanto proposto con la disobbedienza civile, cioè le aule di tribunale».

La disobbedienza civile con l’accompagnamento fisico delle persone in Svizzera è ricominciata lo scorso agosto, quando Cappato, da solo, vi ha accompagnato prima Elena e poi Romano. In entrambi i casi, come per Massimiliano, la disobbedienza riguarda il quarto requisito elencato dalla Corte Costituzionale come necessario per poter accedere al suicidio assistito in Italia, cioè il fatto che la persona debba essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale: gli altri tre sono l’essere «affetto da una patologia irreversibile», che sia «fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili» e l’essere «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Secondo Cappato, Lalli, Maltese, l’associazione Luca Coscioni e chi sostiene le loro campagne il quarto requisito crea una discriminazione tra malati «crudele e insensata», come ha detto Lalli, che ha aggiunto: «significa dire a chi è malato in modo irreversibile che non è “ancora” abbastanza malato per poter scegliere come e quando porre termine alle proprie sofferenze». Anche il Comitato nazionale di bioetica ha definito questo requisito una «discriminazione irragionevole e incostituzionale». E ha aggiunto tra l’altro che potrebbe spingere persone non soggette a trattamenti di sostegno vitale a sottoporsi a trattamenti del genere, anche senza averne bisogno, per poter accedere al suicidio assistito.

Sono ovviamente di quest’idea anche le persone che negli ultimi mesi hanno deciso di rivolgersi all’associazione Luca Coscioni per farsi portare in Svizzera. Queste persone hanno scelto di rendere pubblica la propria decisione di morire nel modo in cui avevano scelto, così come il loro ricorso a una pratica di disobbedienza civile.

Nel caso di Massimiliano, Cappato ha detto di aver esplicitamente invitato chi fosse disponibile a unirsi alla sua disobbedienza civile, mettendo l’accento sull’importanza collettiva e non più solo individuale: «l’ulteriore gravità della disobbedienza non è più compatibile con un’azione solo mia personale», ha detto, ricordando che comunque, anche prima di adesso, non era mai stato solo in questo tipo di pratica.

Come Welby, Fraticelli e Riccio, anche Lalli e Maltese sono coinvolte da tempo nelle attività dell’associazione Luca Coscioni sul fine vita. Come studiosa, saggista e giornalista, Lalli si occupa da anni di molti dei temi al centro dell’attività dell’associazione, tra cui la procreazione assistita e il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Maltese, che ha 71 anni ed è socia dell’associazione, fa attivismo per i diritti civili da decenni: «ho iniziato con le campagne dei Radicali ai tempi della legalizzazione di aborto e divorzio [negli anni Settanta, ndr] e poi mi sono unita all’associazione Luca Coscioni».

Maltese, tra l’altro, aveva già contribuito a uno dei due casi per cui Cappato si era autodenunciato nei mesi scorsi (e l’unico, attualmente, per cui è indagato): quello di Romano, l’uomo 82enne malato di Parkinson che ha accompagnato in Svizzera, su sua richiesta. Maltese aveva ritirato e guidato da Reggio Emilia a Milano il veicolo speciale usato da Cappato per accompagnare Romano in Svizzera.

– Leggi anche: Riparleremo di obiezione di coscienza

Cappato, Maltese e Lalli si augurano che l’allargamento della disobbedienza civile sul suicidio assistito porti quantomeno a una maggiore consapevolezza sul tema. «Il passaggio a un’azione più collettiva rispecchia il desiderio crescente di molte migliaia di persone, riportato da dati di diversi paesi, di poter decidere sul proprio fine vita, oggi che lo sviluppo spettacolare della medicina e delle tecnologie mediche lo rendono molto più lontano di quanto fosse in passato», dice Cappato.

Secondo Maltese, l’allargamento della disobbedienza civile dovrebbe portare anche a rendersi conto con ancora più urgenza dell’insensatezza dei divieti in vigore: «possono anche arrestarci tutti, arriverà qualcuno dopo di noi: a un certo punto si dovrà cedere».

Ora Cappato, Lalli e Maltese potranno essere rinviati a giudizio oppure la loro autodenuncia potrà venire archiviata: lo si vedrà nelle prossime settimane, e i tempi potrebbero essere lunghi. Nel frattempo l’unica proposta di legge sul fine vita in discussione al parlamento, ritenuta comunque molto inadeguata e poco rispettosa del diritto all’autodeterminazione, è ancora ferma in Senato, in esame in commissione dopo la prima lettura della Camera.