Il reato per cui vengono condannati a morte i manifestanti iraniani
È il moharebeh, che significa «fare la guerra a Dio» ma non è davvero un reato religioso
Negli ultimi giorni in Iran sono state eseguite le condanne a morte contro due manifestanti che erano stati arrestati per avere protestato contro il regime iraniano. I due, Mohsen Shekari e Majid Reza Rahnavard, avevano 23 anni e sono stati uccisi per impiccagione perché accusati del reato di moharebeh, che in farsi (la lingua iraniana) significa più o meno «fare la guerra a Dio», o «inimicizia contro Dio». Il moharebeh è uno dei reati che da decenni il regime iraniano usa per mantenere il controllo autoritario sulla popolazione, e per infliggere pene spropositate contro infrazioni pericolose per la stabilità politica.
Secondo il gruppo per i diritti umani Iran Human Rights, il regime iraniano dall’inizio dell’anno ha eseguito oltre 500 condanne a morte, moltissime delle quali per il reato di moharebeh.
Sia Mohsen Shekari sia Majid Reza Rahnavard erano stati accusati di aver ferito e ucciso alcuni poliziotti, anche se il processo a cui sono sottoposti è stato considerato farsesco, e sembra che le confessioni dei due imputati siano state estorte con la violenza. Ma il reato di moharebeh si applica anche in circostanze eccezionalmente meno gravi, come per atti di vandalismo, contro chi partecipa a manifestazioni di protesta, o contro chi pubblica articoli critici nei confronti del regime.
Il moharebeh è previsto dalla sharia, cioè nella legge religiosa islamica: moharebeh è una parola in farsi, il cui corrispettivo in arabo è hirabah. Dalla rivoluzione islamica del 1979, l’Iran è un regime giudiziario misto, nel senso che non adotta completamente la sharia ma mantiene alcuni aspetti del sistema legale e dei tribunali occidentali, in cui però la sharia è pesantemente applicata e le garanzie nei confronti degli imputati sono spesso più che altro formali, specie nei casi di reati politici.
Sul moharebeh/hirabah la discussione dottrinale nel mondo islamico è ampissima e secolare, ma il punto centrale del moharebeh per come è inteso nella giustizia iraniana è che, benché sia tradotto come «fare la guerra a Dio», non è un delitto religioso, o un reato di blasfemia, ma è un delitto contro l’ordine costituito, che il regime iraniano usa ampiamente contro qualunque tipo di disobbedienza.
Il moharebeh è previsto nell’articolo 279 del Codice penale islamico (il Codice penale iraniano) ed è definito come: «Usare un’arma contro la vita, la proprietà o la castità delle persone o provocare terrore che crei un’atmosfera di insicurezza». Già secondo questa definizione, il moharebeh è un reato eccezionalmente ampio e vago. La giurisprudenza iraniana, poi, ne ha ampliato ulteriormente il significato perché «fare la guerra a Dio» viene spesso interpretato come “opporsi all’ordine delle cose voluto da Dio”, che ovviamente agli occhi del regime iraniano è lo stato stesso.
In questo senso, moharebeh è un delitto non contro la persona (non si applica per esempio negli omicidi comuni) ma contro Dio e contro l’ordine costituito. Per questo è applicato in Iran contro i delitti che possono colpire la stabilità del regime stesso: non soltanto i manifestanti di questi mesi, ma anche attivisti politici, minoranze etniche, musulmani sunniti (il regime iraniano è dominato dal clero sciita e il paese è a maggioranza sciita).
Grazie a questa enorme vaghezza, da decenni il moharebeh è un potente strumento di controllo. Potenzialmente, è possibile sostenere che venga creata «un’atmosfera di insicurezza» anche bloccando una strada durante una manifestazione: ed è effettivamente una delle accuse contro Mohsen Shekari, uno dei due manifestanti impiccati negli ultimi giorni.
Secondo il Codice penale islamico, le pene per il moharebeh possono essere «la morte, la crocifissione, l’amputazione della mano destra e della gamba sinistra e l’esilio». Spesso però i tribunali infliggono un’ampia varietà di pene, a seconda dell’interpretazione del giudice, che ha una notevole discrezionalità.