Cosa c’è intorno al “caso Soumahoro”
I malfunzionamenti e la cattiva gestione delle cooperative che si occupano di accoglienza hanno ragioni che arrivano da lontano
di Angelo Mastrandrea
Lungo la via Appia, in località Casal delle Palme a una decina di chilometri da Latina, c’è un casale di campagna costruito negli anni Venti del Novecento, all’epoca delle bonifiche fasciste. Sulla facciata, un cartello ricorda che è stato un hotel con bar e ristorante. Ora è chiuso e abbandonato, ma fino alla fine del 2017 aveva ospitato al pianterreno un centro di accoglienza straordinaria (Cas) per richiedenti asilo e rifugiati gestito dalla cooperativa Karibu, fondata da Marie Thérèse Mukamitsindo, suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, e ora sotto inchiesta della procura della Repubblica di Latina dopo le denunce di mancati pagamenti degli stipendi ai dipendenti e delle cattive condizioni in cui avrebbe ospitato alcuni richiedenti asilo nelle sue strutture.
Il 18 novembre del 2017, 140 giovani africani dell’hotel sulla via Appia si ribellarono al sovraffollamento, alle precarie condizioni igieniche in cui vivevano e al cibo scadente che gli veniva servito. «Si era sparsa la notizia falsa che veniva servito riso alla plastica, al fine di ucciderli tutti», ricorda Carlo Miccio, che ha diretto il Cas da giugno a ottobre del 2016 e ha lavorato per la cooperativa Karibu fino all’autunno del 2017. «La verità è che i migranti vivevano in condizioni pessime, i bagni erano ancora quelli dei tempi di Mussolini e, mentre al piano terra i nostri psicologi incontravano donne vittime di tratta, al piano superiore dell’albergo le stanze erano affittate a ore per la prostituzione».
Miccio è laureato in antropologia con una tesi sul campo profughi di Latina, che ospitava le persone in fuga dai paesi dell’est durante la Guerra fredda e fu chiuso nel 1991, dopo il crollo del muro di Berlino. Ha diretto il centro di Casal delle Palme per quattro mesi e ha raccontato quello che accadeva all’interno in un romanzo appena pubblicato che si intitola Copula mundi (Alpha & Beta). «Ritardi in ogni scadenza – dall’erogazione del pocket money [una diaria di due euro al giorno per ogni migrante, presa dai 35 euro che lo stato pagava ogni giorno per l’accoglienza, nda] alla concessione dei documenti di base – e condizioni abitative indecenti, con stanze adatte a ospitare due o tre persone riempite di letti a castello e adibite a camerate da otto, con un solo bagno in comune e la muffa che sbriciolava l’intonaco del soffitto», scriveva a proposito delle condizioni di vita nel centro.
Quando arrivò, gli ospiti erano una quarantina, ma «nel giro di un mese e mezzo arrivarono a un centinaio». Era il 2016, l’anno in cui secondo il ministero dell’Interno si registrò il numero più alto di persone arrivate via mare in Italia dal Nord Africa: 181.436. Appena sbarcati, i migranti venivano portati nei cosiddetti hotspot, dei centri per la prima assistenza creati dal governo nei luoghi di arrivo, dove venivano identificati e ricevevano le prime cure. Poi venivano inviati al Sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo (Sprar), una rete di strutture pubbliche finanziata al 95 per cento dal ministero dell’Interno e affidata agli enti locali, che a loro volta assegnavano la gestione ad associazioni o cooperative attraverso dei bandi.
I richiedenti asilo in attesa di un posto in uno Sprar venivano ospitati nei centri di accoglienza straordinaria (Cas), edifici privati o alberghi utilizzati per sopperire alla mancanza di posti nelle strutture pubbliche. La gestione era affidata alle prefetture, che cercavano le strutture private e si servivano delle associazioni o delle cooperative per l’assistenza. Durante la fase più acuta dell’emergenza migranti, tra il 2016 e il 2018, i Cas erano diventati la forma principale di accoglienza, per la difficoltà di trovare nuove strutture per gli Sprar e per i tempi lunghi nella redazione dei bandi e nell’assegnazione della gestione. Quelli che dovevano essere alloggi temporanei, per molti migranti sono così diventati una sistemazione definitiva. Lo stato di regola si limitava a pagare il vitto e l’alloggio, senza alcun riferimento alla formazione o all’inserimento sociale, con il risultato che questi centri diventavano di fatto dei parcheggi per i migranti.
Spesso si trovavano in aperta campagna, come quello di Casal delle Palme. Qui, i bus del ministero dell’Interno arrivavano di notte. Lasciavano scendere i richiedenti asilo assegnati dalla prefettura e andavano via. I nuovi arrivati spesso finivano a lavorare nei terreni circostanti, soprattutto a raccogliere pomodori o zucchine. «Gli agricoltori della zona venivano qui a cercarli», ricorda Miccio. Per ogni lavoratore che reclutavano, avrebbero dovuto verificare da quanto tempo era in Italia, perché la legge prevede che i richiedenti asilo non possano lavorare nei primi due mesi dall’arrivo. Questo però non accadeva mai, anche nei casi migliori, quando i migranti erano assunti con un contratto a ore e non in nero.
«Accade in molti Cas, dove i caporali sono spesso conniventi con i gestori», spiega il sociologo Marco Omizzolo, che allo sfruttamento dei migranti nell’Agro Pontino ha dedicato diversi libri. A sostegno della sua tesi, cita un’inchiesta della procura di Latina che nel 2019 portò all’arresto di sei persone con l’accusa di caporalato. Tra questi c’era pure il segretario provinciale di Latina della Fai-Cisl. Le indagini, dice Omizzolo, «hanno consentito di liberare dalla schiavitù 500 richiedenti asilo» impiegati in alcune cooperative agricole della zona. Il 23 marzo 2021 il Giudice dell’udienza preliminare (Gup) di Latina Giuseppe Molfese ha condannato con rito abbreviato a due anni e mezzo di reclusione e 100 mila euro di multa Luca Di Pietro, presidente della cooperativa Agriamici, mentre Nicola Spognardi, un ispettore del lavoro, ha patteggiato un anno e quattro mesi per aver coperto la cooperativa, fornendo informazioni e consigli in cambio di “utilità economiche”.
Mukamitsindo, fondatrice della cooperativa Karibu, arrivò in Italia nel 1994, in fuga dalla guerra nel Ruanda. Nel 2001 vinse un primo bando per la gestione di uno Sprar a Sezze, il comune in provincia di Latina in cui viveva. Nel 2015 cominciò a gestire anche i Cas, che erano diventati il sistema ordinario di accoglienza poiché gli Sprar erano ormai saturi e non riuscivano più a ospitare i nuovi arrivati. «La prefettura chiamava associazioni e cooperative comunicando il numero di persone assegnate dal ministero. I tempi erano stretti, per cui si cercavano hotel o case dove poterli mettere e l’emergenza scavalcava qualsiasi controllo», spiega Miccio.
Ci guadagnavano in tanti, dai piccoli proprietari di abitazioni ai gestori degli alberghi, e si moltiplicarono le organizzazioni che si proponevano per gestire l’accoglienza. Nel 2017 se ne contavano più di duemila in tutta Italia, con 36mila operatori impiegati. A Latina e provincia la cooperativa Karibu arrivò a controllare 51 centri su 129, ospitando fino a 2.600 migranti in contemporanea. Spesso la loro gestione veniva prorogata senza gara d’appalto. Siccome si era ingrandita, mise in piedi un consorzio di cooperative, l’Agenzia per l’inclusione e i diritti (Aid), di cui era la principale. Tra il 2017 e il 2019, dal solo comune di Roccagorga, un paesino di 4mila abitanti della provincia di Latina, la Karibu ottenne 535mila euro all’anno per la gestione dei richiedenti asilo. Dopo la “protesta del riso”, come fu definita dai giornali, per la cooperativa però cominciarono i problemi.
«Durante un tavolo in prefettura chiesi delle verifiche sulla cooperativa, ma nessuno le ha poi fatte», ricorda Dario D’Arcangelis, all’epoca segretario della Cgil di Latina. La deputata del Movimento 5 Stelle Elena Fattori cominciò a ricevere segnalazioni sulle «condizioni non decenti» nelle quali erano tenuti i richiedenti asilo, così a marzo 2019 decise di fare un’ispezione nei Cas gestiti dalla cooperativa Karibu. «C’era muffa sui muri, i pavimenti erano sconnessi, sembrava che ci fossero più ospiti del previsto», scrisse in una relazione consegnata al sottosegretario all’Interno Luigi Gaetti, che faceva parte del suo stesso partito. Dopo 18 anni, alla cooperativa fu tolta la gestione dello Sprar di Sezze, quello da cui era partita.
Per Miccio, che ci ha lavorato per un anno e mezzo fino a quando «non mi hanno rinnovato il contratto senza neppure avvisarmi», già all’epoca gli stipendi venivano pagati con un ritardo di due o tre mesi. Nella sua esperienza, la cooperativa Karibu però non è stata un’eccezione. Anzi, «è l’unica cooperativa nella quale ho lavorato da cui sono riuscito a recuperare il trattamento di fine rapporto». Nelle altre due in cui è stato impiegato, spiega, gli stipendi non arrivavano puntuali e i migranti erano ospitati «in condizioni secondo me non dignitose». A permettere queste gestioni opache, a suo parere, sono i «parametri per l’accoglienza stabiliti dal ministero». Quando i rifugiati erano in arrivo e non si sapeva dove metterli, le cooperative come la Karibu erano in grado di risolvere il problema nel giro di poche ore e «la prefettura per questo chiudeva un occhio» sulle cose che non andavano.
Già l’inchiesta “Mondo di mezzo” della procura di Roma, nel 2014, aveva messo in luce un efficiente sistema di spartizione dei finanziamenti per i richiedenti asilo a Roma e nel Lazio. Il meccanismo si fondava su appalti ottenuti al massimo ribasso e confermati con continue proroghe. La gran parte dell’accoglienza, secondo gli inquirenti, era controllata dal consorzio Eriches 29, ma l’inchiesta coinvolse gran parte delle cooperative che gestivano i centri per migranti.
In un’intercettazione telefonica, l’amministratore della Eriches 29 Salvatore Buzzi, che gestiva un Cas a Borgo Sabotino, a pochi chilometri da Latina, diceva: «Quest’anno abbiamo chiuso con 40 milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili, li abbiamo fatti sugli zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». E ancora: «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno». Alla fine di giugno del 2019, il ministero dello Sviluppo economico decise la liquidazione coatta amministrativa per il consorzio Eriches 29, mentre il suo presidente Salvatore Buzzi fu condannato in via definitiva, il 30 settembre 2022, a 12 anni e 10 mesi di carcere per associazione per delinquere, corruzione, turbata libertà degli incanti e trasferimento fraudolento di valori.
L’associazione Lunaria ha analizzato il meccanismo di quella che definisce “malaccoglienza” nel Lazio. Uno dei problemi principali, si legge in un rapporto intitolato “Il mondo di dentro”, è l’aumento a dismisura dei Cas, che fanno capo alle prefetture e ospitano il 77 per cento dei richiedenti asilo. Il rapporto sottolinea come la gestione sia affidata sempre più ai grandi consorzi e i prefetti per risolvere il problema finiscano per ricorrere sempre più ad affidamenti diretti, senza un bando che verifichi la qualità dei servizi resi. «La straordinarietà richiede procedure di emergenza, queste a loro volta favoriscono l’ingresso nella rete degli enti gestori di attori privi di esperienza, interessati più ai profitti che possono derivare dalla gestione dei servizi che alla loro qualità e ai diritti delle persone cui sono destinati» dice il rapporto.
– Leggi anche: Cosa sono i “movimenti secondari” dei richiedenti asilo
Il cosiddetto decreto Salvini, nel 2018, peggiorò le cose. Il sistema dello Sprar fu cancellato e sostituito dal Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (Siproimi), a cui poteva accedere solo chi aveva ottenuto l’asilo politico. I richiedenti asilo e i titolari di protezione speciale – che ha sostituito i permessi per motivi umanitari – potevano invece essere accolti solo nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas). La spesa media stanziata dallo stato per l’accoglienza nei Cas è però passata dai 35 euro al giorno a persona a una media di 21 euro e le cooperative, in particolare quelle più piccole, sono andate in difficoltà.
Secondo l’associazione ActionAid e la fondazione Openpolis, che hanno analizzato gli effetti delle misure volute da Salvini, il provvedimento «ha comportato problemi sul piano gestionale», perché i tagli «hanno incentivato le strutture di grandi dimensioni, paralizzando l’accoglienza diffusa sul territorio». In più, i fondi dello stato e degli enti locali spesso arrivavano in ritardo, come ha detto pure Mukamitsindo per giustificare i ritardi nel pagamento degli stipendi. «Sono stati tagliati gli psicologi e i corsi di italiano, le cose che servivano di più ai migranti», dice Miccio. Sono stati ridotti pure i servizi di mediazione culturale e l’assistenza legale. «Pur di continuare a lucrare, molte realtà hanno tagliato i costi, peggiorando i servizi», spiega Omizzolo. Le cooperative più piccole invece si sono ritirate, perché con rimborsi così bassi non sono in grado di mantenere la qualità dei servizi forniti.
Il risultato è che ai bandi per l’assegnazione dei Cas non si presenta più nessuno. Secondo Action Aid e Openpolis, «molti gestori hanno deciso di non rispondere perché per molte realtà del privato sociale limitarsi a fornire servizi di vitto e alloggio non giustifica la partecipazione». Sono invece «cresciuti soggetti disposti a gestire strutture ridotte a dormitori, enti con dichiarato scopo di lucro o privi di competenze ed esperienze».
Il 16 novembre 2022, in un’informativa urgente al Senato sulla gestione dei flussi migratori, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, un ex prefetto a Bologna e Roma che nel 2018, da capo di gabinetto del Viminale, scrisse con Salvini i cosiddetti decreti sicurezza, ha detto che nel 2022 sono andate deserte 76 gare di appalto e solo metà dei 66 mila posti previsti per l’accoglienza in tutta Italia sono realmente disponibili. Oggi i Cas sono circa 5 mila in tutta Italia. A fine settembre 2022 ospitavano 60mila migranti, su una capacità di 82 mila posti. Nel 2020, un decreto della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese aveva cancellato il divieto per i richiedenti asilo, che ora possono accedere al nuovo Sistema di accoglienza e integrazione (Sai). Con le nuove regole, i richiedenti asilo ricevono assistenza materiale, legale, sanitaria e linguistica, mentre i titolari di protezione anche servizi rivolti all’integrazione e all’orientamento lavorativo.
La cooperativa Karibu non si tirò indietro, ma cominciò ad accumulare debiti. Al 31 dicembre 2021 aveva un passivo di due milioni e mezzo di euro. Tra questi, si contavano 400 mila euro di stipendi non pagati ai dipendenti e un milione e mezzo di contributi e tasse non versati. Agli inizi di giugno 2022, alcuni lavoratori si sono presentati negli uffici della Uiltucs di Latina, il sindacato di categoria della Uil che rappresenta i lavoratori del terziario, turismo, commercio e servizi. Volevano dimettersi perché non percepivano lo stipendio da diversi mesi, ben più dei consueti ritardi a cui erano abituati. Alcuni non erano pagati da più di un anno e uno di loro ha detto che gli era stato chiesto di produrre fatture false per essere pagato. Il sindacato li ha convinti a non licenziarsi e ha denunciato il caso all’Ispettorato del lavoro, che a sua volta è intervenuto negoziando con la cooperativa «un piano individuale di rientro per ogni lavoratore», 26 in totale, due dei quali pagati in nero.
La vicenda è diventata un caso politico perché Mukamitsindo è la suocera del deputato dell’Alleanza Verdi e Sinistra Aboubakar Soumahoro, ex sindacalista dell’Unione sindacale di base (Usb) e fondatore della Lega dei braccianti, un movimento di lavoratori immigrati delle campagne ispirato alle leghe bracciantili di fine Ottocento e che vorrebbe seguire «le orme delle nobili lotte portate avanti da Giuseppe Di Vittorio», il fondatore della Cgil, come si legge sul suo sito web. La Lega dei braccianti ha la sede negli stessi uffici della cooperativa Karibu, in un locale al pianterreno del centro direzionale di Latina. Soumahoro ha negato qualsiasi coinvolgimento nell’inchiesta, ma le sue spiegazioni non hanno convinto il suo partito, che l’ha spinto ad autosospendersi. «Mi pare evidente che si sia prodotto un cortocircuito tra il suo ruolo e il ritrovarsi dentro una relazione stretta familiare», ha detto il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni.
Mukamitsindo è indagata per truffa e false fatturazioni. I magistrati le hanno sequestrato 639 mila euro. Sua figlia Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, è indagata insieme al fratellastro Michel Rukundo: l’ipotesi dell’accusa è che, come consiglieri di amministrazione dal 2018, «al fine di evadere l’imposta sui redditi e sul valore aggiunto indicavano (o omettevano di vigilare affinché altri e in particolare la Mukamitsindo indicassero) elementi passivi» nella dichiarazione dei redditi del 2019, «utilizzando fatture relative a operazioni inesistenti emesse dall’associazione di promozione sociale Jambo Africa».
Il 28 novembre nella sede della Karibu sono arrivati gli ispettori del ministero del Lavoro. Due giorni dopo il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, di Fratelli d’Italia, rispondendo a un question time alla Camera ha detto che «la prefettura di Latina, negli anni dal 2017 al 2019, a seguito di 22 ispezioni, ha applicato circa 491 mila euro di sanzioni alla cooperativa Karibu e che, negli anni 2018-2022, a seguito di 32 ispezioni, sono state comminate sanzioni nei confronti di Aid per un ammontare complessivo di circa 38 mila euro». Il ministero ha proposto la liquidazione della Karibu e lo scioglimento del consorzio Aid, perché gli ispettori «hanno riscontrato irregolarità non sanabili nel merito dei seguenti aspetti: assenza di un reale e autentico scambio mutualistico; assenza di partecipazione dei soci alla vita democratica e alle decisioni dell’ente. Inoltre è stata accertata la natura di cooperativa e non di consorzio in quanto l’Aid di Latina non risulta espletare attività di coordinamento di cooperative collegate».
La prefettura di Latina ha rescisso i contratti con la cooperativa Karibu e con il Consorzio Aid per la gestione di tredici Cas, affidandoli a tre cooperative che già hanno in appalto altre strutture nella zona. Nei giorni seguenti i lavoratori che hanno sollevato il caso si sono rivolti di nuovo alla Uiltucs. «Ci hanno chiamato dicendo che i nuovi affidatari non vogliono assumerli», dice il segretario di Latina Gianfranco Cartisano. I 40 dipendenti della cooperativa Karibu e del consorzio Aid devono ricevere, secondo i calcoli del sindacato, ancora 480 mila euro. Per aver denunciato ora rischiano di perdere il posto di lavoro.
– Leggi anche: Nelle serre in provincia di Ragusa i diritti non esistono