Da dove cominciò
Ivan Scalfarotto racconta all'inizio del suo nuovo libro come iniziarono a cambiare le sue vite: a quarant'anni, a Londra
Nel 2005 Ivan Scalfarotto, a quasi quarant’anni, si fece convincere a candidarsi alle prime “primarie” della storia di un partito italiano, da completo outsider della politica: anzi, da dirigente di banca con un lavoro e una vita a Londra. Le perse, ma gli sviluppi successivi lo portarono alla vicepresidenza di un partito, alla partecipazione come sottosegretario a quattro governi, e a cambiamenti ed esperienze che ora ha raccontato in un libro intitolato La versione di Ivan (La nave di Teseo), che spiega con grande dettaglio e sincerità i passaggi di molta della politica italiana recente. Questo è l’inizio della storia.
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“A Londra il mio compagno è il mio civil partner e ha il medico della mutua.”
Era il 6 agosto del 2005 e, su “Repubblica”, Concita De Gregorio scriveva così quanto le avevo detto, tra le altre cose, nella mia prima intervista da uomo politico. Sono gay e i miei potenziali, futuri elettori lo seppero subito, dalla risposta alla seconda domanda che giornalista mi avesse mai rivolto. A occhio, direi a una quindicina di secondi dall’inizio della lettura del pezzo: un battito di ciglia dopo aver saputo chi diavolo fosse mai questo Scalfarotto.
Avrei compiuto quarant’anni pochi giorni dopo e, all’epoca, da tre anni vivevo a Londra. Ero lì perché Citi, la banca americana per la quale lavoravo dal 1998, dalla Direzione Risorse Umane che guidavo a Milano mi aveva mandato a dirigere lo stesso dipartimento per una delle divisioni della sede europea dell’azienda. Il trasferimento a Londra aveva comportato, tra mille altri, un grande cambiamento nella mia vita: dopo dieci anni di vita alla luce del sole con famiglia e amici, nell’occasione avevo finalmente fatto il mio coming out lavorativo.
Ci sono non uno, ma due coming out da fare – connessi ma indipendenti – nella vita di un giovane omosessuale: quello nella vita privata e, appunto, quello sul posto di lavoro. Dal primo dipendono la rete degli affetti e quella sociale, il proprio equilibrio mentale, la propria sicurezza in se stessi, la conferma dei punti di riferimento di una vita e molto altro. Può senz’altro succedere che al primo uscire allo scoperto segua immediatamente il secondo: sono gay, vivo liberamente la mia vita, trovo un lavoro e, senza soluzione di continuità, atterro dietro a una scrivania portandomi dietro la mia biografia tutta intera. Più spesso, almeno per la mia generazione, la vita “out” professionale e quella personale cominciavano invece a camminare su binari paralleli destinati a incontrarsi soltanto in un punto che tende all’infinito.
E così era andata per me. Avevo fatto coming out in famiglia e con gli amici piuttosto tardi e con grandissime (quanto infondate) ansietà poco dopo che – a 27 anni suonati – avevo trovato lavoro alla Banca Commerciale Italiana: il posto in banca che aveva l’aria di essere quello di tutta la vita e che mi aveva reso economicamente indipendente. Per di più ero andato a vivere a Milano, la città ideale per un coming out: accogliente, aperta, con una grande e organizzata comunità LGBT+. Mi ero trasferito a Milano il 6 luglio del 1992: solo dieci giorni dopo che il consigliere comunale Paolo Hutter aveva simbolicamente unito in matrimonio, nel cuore della città e proprio sotto le finestre del mio ufficio, dieci coppie gay e lesbiche.
Nonostante tutto questo, la rapida valutazione dell’ambiente lavorativo nel settore finanziario dell’epoca mi aveva caldamente messo sull’allarme quanto al grado di accettazione della diversità del mio prestigioso datore di lavoro. Entravo tutte le mattine in questo monumentale e severo palazzo di Piazza della Scala – quello che, grande e bello com’è, i turisti giapponesi pensano sicuramente debba essere il celeberrimo Teatro – e, quale giovane virgulto di belle speranze e di alto potenziale dell’azienda, per tutti gli anni di lavoro in Comit non ebbi saggiamente alcun tipo di vita privata da condividere con i miei colleghi.
Ci lamentiamo spesso dell’arretratezza culturale del nostro paese quanto a questi temi, ma in realtà le cose in questi tre decenni sono radicalmente cambiate. Oggi, fondamentalmente, l’omosessualità è stata sdoganata anche da noi. Vero è che in molti ambienti sono ancora assai pochi quelli che vivono la propria vita senza nascondersi: in parlamento per esempio ci contiamo sulle dita di una mano sola e questo certamente ci dice qualcosa sul livello di accettazione delle persone LGBT+ nel nostro paese, ma vero è anche che se qualcuno in più vivesse la propria vita alla luce del sole – e lo posso testimoniare direttamente – la gente se ne farebbe tranquillamente una ragione.
In ogni caso, dal 1991, quando Comit mi aveva assunto poco dopo la laurea, fino al 2002, quando Citi mi propose l’irrifiutabile posizione di direttore del personale per il business del mercato dei capitali per Europa, Medio Oriente e Africa, con destinazione Londra, sul lavoro ero rimasto rigorosamente nascosto. Non so quanto sia facile comprendere cosa questo significhi per chi non ha mai dovuto tenere separato e coperto un pezzo così grosso della propria esistenza sul lavoro, ma non condividere la propria vita privata con i propri colleghi richiede doti acrobatiche di primissimo ordine, degne di un discendente della celebre stirpe circense degli Orfei.
Bisogna dribblare con l’eleganza di uno slalomista le immancabili domande sul fine settimana e sulle vacanze appena trascorse; bisogna evitare che qualsiasi collega porti delle carte a casa tua e si accorga che sul citofono ci sono due cognomi anziché uno soltanto; bisogna sperare che nessuno ti ascolti mentre telefoni per dire: “Butta la pasta!” quando tutti sono certi di sapere – anche se non glielo hai mai detto direttamente – che vivi da solo; bisogna avere una scusa pronta se a casa chiama il tuo capoufficio e al telefono risponde un uomo che non sei tu (oggi con i cellulari è tutto più semplice, ognuno ha un telefono proprio: non se ne abbiano a male i più giovani se ricordo loro che a quel tempo, invece, squillava un solo telefono per tutta la famiglia); bisogna sottrarsi a quella solerte collega che a tutti costi vuole andare a prendere un aperitivo con te per presentarti finalmente quella sua amica; bisogna mollare a casa la propria metà per tutti gli eventi aziendali ai quali invece gli altri colleghi vengono accompagnati da mogli, mariti, compagne e compagni; bisogna contare sulla statistica e sperare che nessuna persona conosciuta socialmente – per caso, a cena da amici – sia cugina, vicina di casa o compagna di scuola di qualche collega di lavoro… e anche se all’epoca non c’erano i social media – la gestione dei quali immagino assolutamente incompatibile con le evoluzioni necessarie a nascondere che la tua metà si fa la barba come te – era comunque una fatica pazzesca. Recitare una vita che non è la tua costa tanta fatica quanto avere un secondo lavoro.
Una fatica che, mi ripetevo tutti i giorni, valeva comunque la pena di fare. Quando ero arrivato a Citi avevo 33 anni, ero diventato dirigente a un’età che nel mondo delle banche dell’epoca era assolutamente fanciullesca: all’epoca arrivava al più alto livello contrattuale più o meno l’1% del personale e l’agognata nomina, per i pochi che riuscivano a ottenerla, giungeva spesso appena in tempo per andare in pensione. Non avessi lavorato per una banca straniera, le cose per me non sarebbero andate certamente allo stesso modo. Il mondo delle banche nazionali negli anni ’90 era quanto di più conformista ed esclusivo (meglio, escludente) si possa pensare. Ero il capo del personale di Citibank ma ricordo nitidamente che alla prima riunione di Assicredito (l’associazione sindacale delle banche di allora), lo sguardo che i miei pari funzione mi rivolsero – nemmeno a dirlo tutti uomini e tutti più o meno dell’età di mio padre – era quello che di solito riservavano al ragazzo del bar che portava su i caffè.
La decisione di accettare il trasferimento a Londra fu dunque collegata non soltanto all’indubbia opportunità di crescita professionale che mi si presentava, ma anche a una considerazione obbligatoria per uno che di mestiere si occupava dei percorsi di carriera degli altri (e quindi, nel tempo libero, anche del proprio). Alla mia età e nella mia posizione di giovanissimo dirigente della filiale italiana di una multinazionale, avevo soltanto due possibilità per il mio futuro: o continuare la carriera nella mia banca, andandomene a Londra o a New York, oppure aspirare prima o poi a tornare nel circuito domestico e andare a lavorare per una grande istituzione finanziaria italiana.
Perché si verificasse questo secondo caso, ovviamente più pratico e semplice rispetto a spostare tutta la mia vita – presente e presumibilmente anche futura – in un altro paese, bisognava però escludere che si sapesse che ero gay. Poteva forse essere persino possibile che si sussurrasse che ero gay, ma bisognava dare tassativamente per scontato che un mercato del lavoro pettegolo e asfittico come quello della finanza milanese degli anni ’90, se avessi vissuto la mia vita apertamente e pubblicamente, mi avrebbe espulso dal percorso di carriera veloce e promettente che stavo percorrendo.
Da questo punto di vista, e da molti altri devo dire, Citi è uno straordinario datore di lavoro. Da responsabile del personale per l’Italia ebbi presto modo di occuparmi di una cosa che le aziende anglosassoni frequentano da anni e di cui, all’epoca, nel nostro paese nessuno aveva idea: il Diversity Management (o, più recentemente, “Diversity & Inclusion”). Si tratta di una strategia di gestione aziendale che impone di valorizzare il dato incontrovertibile dell’unicità (come direbbe Drusilla Foer) di ciascuno e ciascuna dei propri dipendenti. Non cullarsi nell’aspettativa, peraltro vana, che tutti siano omogenei, tutti uguali, tutti allineati, ma al contrario prendere atto che ciascuna delle persone che lavorano in azienda ha qualcosa di specifico (mi viene da dire anche di speciale) rispetto alle altre e utilizzare queste specificità per arricchire la quantità di idee, di informazioni e di dati a disposizione dell’impresa.
Un gruppo di lavoro fatto da persone che hanno caratteristiche diverse, prospettive diverse, capacità e mentalità diverse è sicuramente più complesso da gestire, ma offre innumerevoli vantaggi rispetto a un gruppo di persone che sono (o pretendono di essere) tutte assolutamente omogenee. Un gruppo di lavoro che attraversa strati diversi della società è più capace, per esempio, di interpretare i bisogni e i desideri di clienti che sono anch’essi ovviamente diversi e trasversali. È più capace di veder arrivare il cambiamento o l’imprevisto. È più creativo: un gruppo di lavoro rappresentativo di diverse culture è in migliori condizioni per pensare out of the box, come si dice.
L’ispirazione e la necessità di abbracciare la Diversity sono derivate originariamente dall’esigenza di ridurre al massimo i rischi legali derivanti dalle cause per discriminazione davanti ai tribunali del lavoro. In UK, la tutela dei lavoratori dal punto di vista collettivo è molto labile: di fatto non esiste nessuna stabilità del posto di lavoro, ma è invece fortissima la tutela antidiscriminatoria. In buona sostanza, il datore di lavoro ti può licenziare abbastanza liberamente, salvo che il lavoratore licenziato (o penalizzato in qualsiasi altro modo) non sia stato individuato sulla base di un fattore di potenziale discriminazione. In questo caso, non soltanto è molto forte un rischio legale che espone a risarcimenti sostanziali (soprattutto nel mondo della finanza, dove gli stipendi sono alti e sono funzione del risarcimento), ma si diventa anche vulnerabili al grosso e temutissimo rischio di pregiudicare la propria reputazione su un mercato, come quello finanziario, dove la reputazione è tutto. Quando sono arrivato a Londra, una causa vinta per discriminazione nel mondo dell’investment banking rischiava di produrre un risarcimento milionario e, direi soprattutto, di finire in prima pagina sui giornali con effetti rovinosi sul prestigio dell’azienda.
In ogni caso, come fanno le aziende di successo, quel mondo riuscì a trasformare il rischio in un’opportunità e le banche cominciarono a farsi anche concorrenza su un mercato del lavoro molto fluido – si parlava in quel periodo di war for talent, la guerra per il talento – promuovendo politiche di Diversity & Inclusion molto spinte, non solo nei confronti delle donne ma anche di tutti gli altri gruppi che potessero essere identificati come minoranze e dunque come potenziali soggetti di discriminazione da parte del datore di lavoro.
Mentre in Italia cambiare banca all’epoca non aveva molto senso – stipendi e benefit erano più o meno uguali per tutti, alla fine si applicavano pedissequamente i minimi delle tabelle dei contratti collettivi nazionali di lavoro –, a Londra l’assenza di una contrattazione collettiva valida per tutti a livello nazionale aveva di fatto creato una forma di competizione tra datori di lavoro per accaparrarsi (e per proteggere dalla concorrenza, trattenendo in azienda) le migliori risorse sul mercato.
Gli uffici del personale sviluppavano strategie focalizzate su ogni segmento della propria forza lavoro. E così, arrivato a Londra a luglio 2002, entrai in contatto con CitiPride, il network dei dipendenti LGBT+ da poco lanciato dalla banca, e ne diventai rapidamente prima HR Liaison Officer, cioè “l’Ufficiale di collegamento” con la direzione del personale e poi, per due anni, il presidente. Posso dire tranquillamente che in ufficio, nei miei anni di lavoro in UK, ero e mi sentivo molto più “diverso” in quanto italiano (su 200 colleghi, ero effettivamente l’unico) che in quanto gay (qui, ero in ottima compagnia).
Poter essere “out” sul lavoro è una liberazione. Il coming out è sempre un’esperienza di sollievo: tirarsi fuori da quell’angolo oscuro fatto di vulnerabilità e di ricattabilità dentro una vita fatta di verità molto parziali, se non di vere e proprie bugie, equivale a ritrovarsi d’improvviso in alta montagna. Come quando ti trovi tra le vette in pieno sole e ti fermi a fare un bel respiro, bello profondo, l’aria fredda che entra nei polmoni e ti fa sentire in perfetta armonia con il resto del mondo. Essere liberi di essere se stessi sul lavoro significa smettere di temere per la propria crescita professionale e, spesso, anche per la propria sussistenza.
Poter andare in ufficio senza aver paura e sapendo che si sarà valutati soltanto sulla base delle proprie capacità – non per quello che sei ma per quello che fai e per come lo fai – è una sensazione che ha dell’incredibile, e che credo mi abbia segnato profondamente. È stato da quel momento che ho deciso che non mi sarei nascosto mai più, in nessuna circostanza. Se il fatto che io fossi etero o gay era irrilevante per il mio datore di lavoro – un’azienda globale e una delle più grandi e titolate banche del pianeta – bene, da quel momento la mia omosessualità non sarebbe stata più un problema in nessuna circostanza. E se era un problema, non era mio.
Fu proprio per questo motivo che decisi di parlarne anche in quell’intervista per “Repubblica”, quella con la quale mi ero presentato alle prime primarie del 2005. Erano le primarie che incoronarono Prodi candidato premier per L’Unione, il caravanserraglio di 24 sigle politiche che si aspettava di vincere a mani basse le elezioni politiche dell’anno successivo e che aveva chiesto all’ex presidente del Consiglio e della Commissione europea di tornare, dopo la brutta esperienza di qualche anno prima, a guidare il governo italiano. Prodi, che ricordava ancora benissimo le modalità con le quali era stato disarcionato nel 1998, dopo soli due anni a Palazzo Chigi, pose come condizione quella di non essere indicato come presidente del Consiglio dalle infide dirigenze dei partiti, ma di ottenere un’investitura popolare che lo mettesse in qualche modo al riparo dai tranelli e dai fatali giochi di corridoio che gli erano stati tesi nella precedente esperienza. Anche questa volta non avrebbe avuto un suo proprio partito a proteggerlo in parlamento, ma sperava evidentemente che il mandato diretto degli elettori lo ponesse al di sopra delle dinamiche e dai rischi da cui – come sapeva per esperienza diretta – è costellata la vita parlamentare.
Ai partiti della coalizione naturalmente non parve vero di avere l’occasione di contarsi e di poter dunque sedersi al tavolo delle trattative per la formazione del futuro governo di sinistra, quello che secondo loro – e a dire la verità secondo tutti gli osservatori – sarebbe seguito alle elezioni di quell’anno, ben muniti di un’indicazione numerica che stabilisse la loro quota su tutte le nomine da fare in seguito. Prendendo il 10% alle primarie, pensarono, si sarebbe a buon diritto potuto rivendicare un decimo del bottino da dividersi.
Fu così che Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione Comunista, bruciando tutti sul tempo dichiarò: “Non si sono mai viste delle elezioni con un candidato solo” e, mettendola giù come se gli stesse facendo un favore, comunicò a Prodi che a quelle primarie avrebbe corso anche lui. Questione di un attimo e tutti i capi degli altri cespugli del centrosinistra (Mastella, Di Pietro e Pecoraro Scanio) comunicarono al mondo che anche loro si sarebbero candidati a capo della coalizione e quindi a sedersi a Palazzo Chigi per i cinque anni a venire.
Nel frattempo io ero a Londra, ignaro di tutto, che facevo felicemente il mio lavoro in uno dei grattacieli del distretto finanziario di Canary Wharf e nel tempo libero avevo fondato con alcuni amici il primo circolo estero di Libertà e Giustizia. L’associazione, presieduta da Sandra Bonsanti – il cui comitato dei garanti comprendeva nomi di personaggi importanti: Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Enzo Biagi, Umberto Eco, Alessandro Galante Garrone, Claudio Magris, Guido Rossi, Giovanni Sartori e Umberto Veronesi –, era il gruppo più strutturato e istituzionale scaturito dai “Girotondi”, il movimento della società civile nato all’epoca di “Mani pulite” la cui la prima manifestazione era stata una lunghissima catena di persone che, tenendosi per mano, aveva circondato come a difenderlo con il proprio corpo l’intero Palazzo di Giustizia di Milano.
Prima di partire per Londra mi ero iscritto all’associazione e, arrivato nella mia nuova sede di lavoro, avevo scritto loro una mail. Libertà e Giustizia, nata come associazione online, aveva cominciato ad aprire circoli territoriali in Italia e furono molto interessati dalla mia proposta di aprire la prima sede del gruppo all’estero. Mi fu dunque inviata da Milano la lista degli indirizzi email degli iscritti che vivevano a Londra e dintorni: li contattai uno a uno per organizzare le prime riunioni e intorno a quel primo nucleo si formò rapidamente un bel gruppo di espatriati italiani desiderosi di discutere e di occuparsi, sebbene da lontano, della politica del proprio paese.
Dopo una prima serie di riunioni a casa mia, cominciammo ad approfittare della disponibilità dell’Italian Bookshop, la libreria italiana vicina a Leicester Square, e dell’ospitalità della sua mitica direttrice Ornella Tarantola – una specie di leggenda nella comunità degli italiani a Londra: ha addirittura ispirato il personaggio della protagonista di un romanzo di Luca Bianchini – che ci aveva aperto le porte del negozio per le nostre riunioni serali. Riunioni carbonare, nelle quali discutevamo di politica finendo regolarmente i nostri dibattiti con un calice di vino italiano (di sera, a Londra, senza bere non si fa praticamente niente) e mangiando quantità industriali di certe terribili salsiccette britanniche da cocktail (che non vuoi assolutamente sapere cosa ci mettano dentro, ma quando cominci non riesci più a smettere).
All’inizio dell’estate del 2005, le discussioni alla libreria italiana giravano tutte intorno a un unico pensiero: per noi che vivevamo in una delle città più vibranti e innovative d’Europa e forse del mondo, non era veramente possibile accettare che nel 2006, a casa nostra, per guidare il paese si sarebbero ripresentati agli elettori gli stessi due candidati del 1996. Incantata come un disco rotto, l’Italia sarebbe stata di lì a poco chiamata a scegliere nuovamente tra Prodi di qua e Berlusconi di là.
Come se dieci anni non fossero passati, come se i due concorrenti non fossero nel frattempo di tanto invecchiati e non fossero quindi diventati più stanchi, più prevedibili e più lontani dai temi del nostro tempo e dai problemi della gente della nostra età. E il problema non erano solo loro: era l’intera classe politica che era vetusta e immobile. L’Italia era – molto più di oggi – un paese in cui eri giovane fino a sessant’anni, in cui una minoranza di anziani signori che non assomigliava per nulla al paese che voleva governare decideva per tutti. Intanto, mentre noi discutevamo, già da otto anni a Downing Street viveva e lavorava Tony Blair, un signore di 17 anni più giovane di Berlusconi e di 14 più giovane di Prodi. Vista da lì, l’Italia ci sembrava destinata inesorabilmente al declino: impaludata, rigida, vecchia, provinciale, chiusa in se stessa e priva di qualsiasi guizzo di creatività.
Uno dei più giovani e brillanti partecipanti a quelle riunioni era Marco Simoni, all’epoca studente PhD alla London School of Economics. Anni dopo divenne capo segreteria di Carlo Calenda quando era viceministro al MISE e consigliere per le relazioni economiche internazionali di Renzi e Gentiloni a Palazzo Chigi. Marco è poi stato nominato presidente di Human Technopole a Milano e di EUR SpA a Roma ed è stato una delle menti dell’elezione di Roberto Gualtieri a sindaco della Capitale. Che avesse stoffa, molta, lo si vedeva a occhio nudo già da allora.
Fu nel mese di luglio che Marco arrivò a una riunione con un’aria decisamente sospetta, da agente segreto, quella di uno che è coinvolto fino al collo in un intrigo internazionale, e comunicò a tutto il gruppo che in Italia era stato pubblicato il regolamento delle primarie de L’Unione.
“E allora?”
“E allora, per candidarsi a fare il primo ministro bastano 10.000 firme ed essere cittadini italiani.”
“…”
“Ma non capite? È un’occasione incredibile! Uno di noi si deve candidare!”
“Marco, non per dire, e dove diavolo troveremmo 10.000 firme per candidare un perfetto sconosciuto, che peraltro vive pure all’estero, a queste primarie?”
“Guardate che questi qua non si sono resi conto di quello che facevano, si sono sbagliati: hanno fatto il regolamento senza pensarci! Hanno lasciato una porta aperta! Pensateci: 10.000 firme significa soltanto avere 1000 italiani che trovano dieci firme. È difficile, ma è una cosa alla portata di tutti! Hanno fatto il regolamento e hanno messo l’asticella molto più in basso di quanto non pensassero… La nostra politica vecchia e ammuffita ha involontariamente lasciato aperto uno spazio per un cavallo di Troia! Sono così presi da se stessi che nemmeno si immaginano che qualcuno da fuori si candiderà!”
Marco sembrava aver trovato la pietra filosofale. A noi, invece, le cose che diceva sembravano assurde.
“Beh, se è così facile, allora fallo tu!”
“Ragazzi, io non posso, sono troppo giovane, nessuno mi prenderebbe mai sul serio… ci vorrebbe uno come Ivan!”
“Ehhhhh!? Io?! Marco, tu sei completamente pazzo. Io ho un lavoro, ho cose serie da fare, questa roba mica è uno scherzo: mica uno si lancia in una cosa così senza conseguenze… Uno si brucia, si espone… E poi io devo lavorare, ho uno stipendio, come faccio a mettermi a fare una cosa del genere? E la banca, come la prenderebbe? Guarda, lasciamo stare.”
“Ivan, tu non hai ancora quarant’anni e sei già dirigente in una multinazionale: hai delle grosse responsabilità, nessuno potrà dire che sei un matto. Sei bravo, hai successo nel tuo lavoro, hai l’età giusta. Se sei cresciuto in un’azienda americana è soltanto perché sei capace: lo sanno tutti che nelle grandi corporation anglosassoni non vai avanti certo per la raccomandazione di un vescovo o di un parlamentare. Saresti una rivoluzione per il nostro paese.”
“Guarda Ivan che io sono giovane, ma non stupido. So quello che dico.”
“Marco, no. Fine. Stop. Basta. Sei fuori di testa. Se ti pare una buona idea, candidati tu.”
Alla fine, per quanto fantasiosa e pazzesca, l’idea però era effettivamente piuttosto intrigante. Marco mi convinse a parlarne con un po’ di gente di cui mi fidavo (“Se non ti fidi di me, ci sarà pure qualcuno di cui ti fidi…”) e tutti quelli con cui parlavo di quella che a me sembrava comunque una follia, trovavano la cosa fuori da tutti gli schemi, ma – forse anche per questo – pure molto seria. Il sasso nella piccionaia di una politica effettivamente stanca, ripetitiva, sempre uguale a se stessa.
Ne parlai con Nando Dalla Chiesa, che andai a trovare a casa sua a Milano. Lo avevo conosciuto tramite la sua indimenticabile compagna e moglie, Emilia Cestelli, che avevo incontrato proprio durante i giorni dei girotondi milanesi e con la quale avevo legato tantissimo. Nando sorrideva sornione mentre Emilia mi diceva – verrebbe quasi da dire mi pregava – assolutamente di non farlo, che la politica era una cosa terribile, di lasciar stare e restare concentrato sul mio lavoro, che non era il caso di rischiare una cosa importante per un mondo che non mi meritava. Chi ha conosciuto Emilia sa che i suoi occhi parlavano per lei. Poi parlò Nando e mi disse, con il suo vocione e il sorriso sornione, che l’idea non era per niente male e che, se davvero me la sentivo, dovevo farlo.
Ma alla fine, se sono partito per il viaggio che mi ha portato sin qui, lo devo soprattutto proprio a Concita De Gregorio. L’avevamo conosciuta a Londra il 25 aprile precedente: eravamo riusciti a invitarla per parlare al nostro circolo di Libertà e Giustizia e lei era venuta a trovarci a Londra. Il gancio era stato Gianluca Zucchelli, un giornalista del “Tirreno” che da poco si era trasferito in città lasciando tutto per seguire sua moglie, Nicoletta Fossati, che da medico anestesista aveva ricevuto un’importante offerta da uno dei principali ospedali londinesi. Sandra Bonsanti era la presidente nazionale di “Libertà e Giustizia” ed era stata anche direttrice del giornale livornese, e quindi capo di Gianluca, e Concita è a sua volta livornese ed ex collega di Bonsanti a “Repubblica”. Il cerchio era chiuso, l’invito era fatto.
De Gregorio ci aveva visti all’opera nella nostra Londra e forse l’avevamo incuriosita. Fu dunque a lei che chiedemmo consiglio in una rocambolesca telefonata a tre, sempre con Marco Simoni, in cui la linea cadde strategicamente proprio dopo che le avevamo posto il fatidico interrogativo, lasciandomi nel dubbio che De Gregorio potesse aver deliberatamente interrotto, indignata, quella surreale conversazione. Ammetto che prima di quella telefonata ero nervoso, molto nervoso. Avevo parlato della cosa anche in famiglia e mio padre aveva reagito come paralizzato dalle spinte contrapposte dell’ira e della disperazione: davanti ai suoi occhi una brillante e prestigiosa carriera internazionale stava per andare in fumo per una completa mattana di un figlio che fino a quel giorno era sempre sembrato compos sui. Concita, invece, ripresa la linea, reagì in modo estremamente positivo e – nel giro di ventiquattro ore, dopo averne parlato in redazione – mi assicurò un’intervista nelle pagine nazionali del giornale per il mio debutto in politica e il lancio in anteprima della candidatura.
Fu così che l’Italia seppe da “Repubblica” che un completo sconosciuto sfidava Prodi, Bertinotti e il resto del gotha del centrosinistra proponendosi nientemeno che come prossimo presidente del Consiglio dei ministri:
C’è qualcuno di nuovo, a sinistra. Non è un politico, non ha ancora quarant’anni, fa il dirigente di una delle maggiori istituzioni finanziarie del mondo. È per metà napoletano e per l’altra veneziano. Nato a Pescara, cresciuto a Foggia, laureato a Napoli. Emigrato al Nord per il primo lavoro, dirigente a trent’anni. Dal 2002 vive a Londra, capo del personale per Citigroup in Europa: 2200 persone in 54 paesi. Gli hanno appena offerto un incarico ancora più impegnativo, ma ha rifiutato. Ivan Scalfarotto si candida alle primarie per il centrosinistra. Almeno: prova a farlo. “Vedo bene i rischi, però sento che è il momento: c’è un’intera generazione estranea alla politica perché tenuta fuori, non rappresentata. Bisogna dargli una casa politica.”
Ed ero pure gay.
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