L’inflazione sta infine scendendo?
Iniziano a esserci alcuni segnali incoraggianti, ma è ancora presto per essere ottimisti
di Mariasole Lisciandro
Dopo circa un anno e mezzo che gran parte dell’Occidente è tornata a fare i conti con aumenti dei prezzi che non si vedevano dagli anni Settanta, inizia a esserci qualche segnale di ottimismo. A novembre l’inflazione, ossia l’aumento generale dei prezzi, è risultata in rallentamento rispetto ai mesi scorsi sia negli Stati Uniti che nel complesso dei paesi che adottano l’euro, la cosiddetta “Eurozona”.
È probabile che questo rallentamento sia il risultato delle politiche piuttosto aggressive di aumento dei tassi condotte negli scorsi mesi dalla Federal Reserve, la banca centrale americana, e dalla Banca Centrale Europea. È tuttavia ancora presto per capire se effettivamente ci sia davvero una tendenza in discesa, anzi: le banche centrali continueranno ad aumentare i tassi col fine di rallentare l’economia, con lo scopo di “raffreddare” l’aumento dei prezzi.
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Il rallentamento dell’inflazione non significa però che i prezzi si stiano riducendo: significa solo che l’aumento annuale è meno intenso rispetto ai mesi precedenti. A novembre negli Stati Uniti l’inflazione è stata pari al 7,1 per cento rispetto a un anno fa, in calo dal 7,7 di ottobre. Nei paesi dell’euro invece è stata pari al 10 per cento, in calo rispetto al 10,6 del mese prima (anche se in Italia è rimasta uguale a ottobre). Significa che se un bene a novembre 2021 costava cento, oggi costa comunque di più: negli Stati Uniti costa 107,1 e nell’Eurozona 110. In più il paragone viene fatto in termini mobili: novembre 2022 su novembre 2021, ottobre 2022 su ottobre 2021, quindi con una base di partenza sempre diversa e via via con mesi in cui i prezzi stavano già iniziando a salire.
Sono aumenti che restano ancora notevoli ma sembra che ci sia l’accenno di una tendenza al ribasso, che negli Stati Uniti c’è da qualche mese mentre nell’Eurozona si è appena manifestato.
I prezzi stavano aumentando già prima dell’inizio della guerra in Ucraina, a causa di tutte le distorsioni che ha creato la pandemia, come la mancanza di molti materiali e la strozzatura nelle catene di produzione. Per esempio, la pandemia aveva già reso più caro per le aziende reperire le materie prime necessarie alla produzione (si pensi al caso dei microchip e della carta).
La guerra in Ucraina ha poi peggiorato la situazione, soprattutto facendo aumentare enormemente il costo dell’energia e del gas. La Russia, che è il secondo produttore di gas naturale al mondo, ha ridotto sempre di più le sue esportazioni di gas in risposta alle sanzioni inflitte dall’Occidente. La riduzione ha colpito soprattutto l’Europa, che importava il 40 per cento del suo gas dalla Russia; al contrario, gli Stati Uniti sono più indipendenti a livello energetico e non ne hanno risentito troppo.
Su livelli accettabili, l’inflazione è una componente sana dell’economia, perché è l’indicatore di una domanda sostenuta di beni e servizi. Le aziende producono, impiegano lavoratori, e le persone spendono. In questo caso si tratta di inflazione da domanda e varie banche centrali sostengono che il livello ideale sia attorno al 2 per cento.
Ma le cifre ben più alte di questi mesi creano parecchie distorsioni e asimmetrie: le imprese sono disorientate nelle proprie scelte di rifornimento dei magazzini (comprare adesso con prezzi alti o aspettare che si riducano? E se, invece di calare, aumentano ancora?), mentre le famiglie stanno perdendo potere d’acquisto perché continuano a percepire gli stessi redditi a fronte di un aumento dei prezzi.
In più, parte di questi aumenti deriva dal costo dell’energia, quindi da una componente esterna. Le bollette sono parecchio aumentate e le aziende spesso riversano questo aumento dei costi di produzione nel prezzo finale. È una dinamica tutt’altro che sana, al contrario di quanto avviene in caso di un’accettabile inflazione da domanda.
L’inflazione che osserviamo in questi mesi è un misto: c’è sicuramente una componente legata a un’economia che corre, dopo l’enorme rallentamento imposto dalle restrizioni dovute alla pandemia da coronavirus, ma c’è anche un’inflazione dal lato dell’offerta, dovuta soprattutto all’aumento dei prezzi dell’energia.
Per capire quanto pesano le due cause, e soprattutto per capire quanto sia diventato ormai strutturale l’aumento dei prezzi, si monitora la cosiddetta “inflazione di fondo”: si ottiene togliendo dall’inflazione complessiva la componente più volatile (cioè variabile) dei prezzi, ossia quella legata all’energia e ai beni alimentari, due mercati molto suscettibili a movimenti improvvisi.
L’inflazione di fondo nell’area dell’euro è pari al 6,6 per cento, contro un dato complessivo del 10; negli Stati Uniti l’inflazione di fondo è pari al 6 per cento, a fronte di un dato complessivo del 7,1.
Significa che l’aumento del costo dell’energia e dei beni alimentari spiega un terzo dell’inflazione europea, mentre solo il 15 per cento di quella statunitense. Se ne deduce che nell’area dell’euro ci troviamo di fronte a un’inflazione ancora causata in buona parte dall’aumento del costo dell’energia, mentre negli Stati Uniti si tratta ormai di una classica inflazione da domanda ben radicata nell’economia.
È questa la componente più importante da osservare: si può notare che negli Stati Uniti l’inflazione di fondo sta rallentando già da qualche mese, mentre nell’Eurozona continua a essere sempre più vigorosa. Sembra quasi che gli Stati Uniti siano avanti in questo processo: già dallo scorso anno l’inflazione americana è diventata strutturale e ora sta scendendo, mentre quella europea lo è diventata più tardi e sta ancora aumentando.
Già nei mesi scorsi era evidente come l’inflazione degli Stati Uniti fosse molto diversa da quella dell’Eurozona e altrettanto diversa è stata la risposta di policy da parte delle banche centrali.
La Federal Reserve americana già dall’inizio dell’anno sta aumentando i tassi di interesse, ossia sta mettendo in atto la classica risposta di politica monetaria di fronte a un’inflazione così alta. E lo ha fatto anche in maniera piuttosto aggressiva e repentina. Invece, la BCE ha per un po’ tergiversato e ha annunciato solo a fine luglio il primo rialzo, dopo che nel frattempo aveva riassorbito la politica di acquisti massicci di titoli di stato avviata durante la pandemia. La BCE scommetteva sul fatto che l’inflazione europea, proprio perché maggiormente guidata dai prezzi dell’energia, fosse meno strutturale di quella americana. Ma poi si è adeguata al ritmo americano e a settembre ha annunciato il più grande aumento dei tassi della sua storia.
Anche se ci sono timidi segnali di rallentamento dell’inflazione, è probabile che le banche centrali continueranno ad aumentare i tassi di interesse: forse la Federal Reserve potrebbe rallentare il passo, decidendo rialzi meno sostanziosi visto che anche l’inflazione di fondo sta scendendo, mentre è improbabile che la BCE deciderà di attenuare gli aumenti, proprio perché l’inflazione di fondo nell’Eurozona sta ancora salendo.
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