Le esecuzioni pubbliche non stanno fermando le proteste in Iran
Le impiccagioni di due manifestanti non stanno producendo gli effetti voluti dal regime
In Iran, dove sono in corso da tre mesi estese, eccezionali e trasversali proteste contro il regime, le autorità hanno iniziato ad eseguire in pubblico, con impiccagioni, le condanne a morte di manifestanti arrestati e sottoposti a processi sommari, durati meno di un mese. L’obiettivo è bloccare le proteste convincendo i manifestanti a fermarsi, ma per ora questa strategia non sta funzionando.
Le proteste in Iran sono le più estese dalla Rivoluzione del 1979, quella che trasformò l’Iran in una Repubblica Islamica. Erano iniziate tre mesi fa dopo la morte in carcere di Mahsa Amini, una giovane donna arrestata a Teheran perché non indossava in maniera corretta il velo: nel giro di poco tempo si sono trasformate in una più generale rivolta contro il regime, allargandosi ad altre città. Nel corso degli ultimi tre mesi il regime ha arrestato migliaia di persone (circa 14mila secondo le Nazioni Unite) e ne ha uccise diverse centinaia (si stima almeno 450).
Per ora sono state eseguite condanne a morte su due persone: Mohsen Shekari e Majid Reza Rahnavard, due manifestanti di 23 anni. Shekari era stato impiccato giovedì scorso in una prigione vicino a Teheran, la capitale iraniana. Rahnavard è stato impiccato lunedì, pubblicamente, appeso a una gru su una strada di Mashhad, città nel nord est, con un sacco che gli copriva la testa.
In entrambi i casi i due manifestanti erano stati accusati di aver ferito e ucciso alcuni poliziotti, e per questo incriminati del reato di moharebeh, che in farsi (la lingua iraniana) significa più o meno «fare la guerra a Dio». Il processo a entrambi era stato svolto a porte chiuse con avvocati assegnati dallo stesso regime, durato poche settimane e sembra si sia basato anche su confessioni estorte mentre gli uomini erano detenuti.
Oltre che da attivisti e organizzazioni per i diritti umani le condanne hanno provocato qualche perplessità perfino tra alcuni membri del clero iraniano, i quali hanno dubitato della legittimità delle condanne anche da un punto di vista religioso. Un noto gruppo di studiosi religiosi iraniani di Qom, città di grande importanza religiosa in Iran, ha pubblicato per esempio un comunicato in cui ha criticato duramente le condanne dei due uomini e il processo sommario a cui sono stati sottoposti, esortando anche la magistratura iraniana a non procedere con altre esecuzioni.
Il regime aveva anche dato segnali di voler ammorbidire alcune delle sue norme, per esempio quelle sul velo religioso (da cui tutto era partito). Ad un certo punto un suo esponente aveva sostenuto che sarebbe stata abolita la polizia religiosa, il corpo che si occupa di far valere le rigide regole di morale e decoro religioso in vigore in Iran e che è al centro delle proteste degli ultimi mesi, dato che proprio dalla polizia religiosa era stata arrestata Amini. In realtà in entrambi i casi non è stata presa nessuna decisione in merito e un’ipotesi è che i segnali servissero prima di tutto a sondare le reazioni dei manifestanti e, di nuovo, a cercare di placarli.
La prima condanna a morte era stata annunciata a metà novembre, anche in quel caso contro una persona accusata di «fare la guerra a Dio» per aver «dato fuoco a un edificio governativo, per disturbo dell’ordine pubblico, complotto finalizzato a commettere un crimine contro la sicurezza nazionale», diceva Mizan, il sito di notizie della magistratura iraniana. Nei giorni successivi erano state condannate a morte altre persone, con accuse simili (12 secondo Amnesty International), e da pochi giorni sono iniziate le esecuzioni.
Entrambe le esecuzioni realizzate finora hanno avuto l’effetto di provocare immediate e ampie proteste nelle città d’origine dei due uomini: marciando per le strade, i manifestanti hanno cantato slogan come «per ogni persona uccisa se ne alzeranno altri mille».