Il Parlamento Europeo ha un problema con le lobby?
Se ne riparla per via dello scandalo sul Qatar, che forse spingerà a cambiare alcune regole interne
Al Parlamento Europeo di Bruxelles e Strasburgo i lobbisti sono ovunque: grazie a un pass speciale di colore marrone possono frequentare i bar, le sale conferenze e gli uffici dei parlamentari. Della loro presenza ubiqua, assolutamente parte del panorama per chi frequenta il Parlamento, si sta riparlando in questi giorni dopo lo scandalo della presunta corruzione di alcuni parlamentari europei da parte del Qatar, oggetto di una inchiesta della procura federale belga.
Nelle istituzioni europee il lobbismo è un’attività legittima e regolamentata, portata avanti da gruppi di interesse di natura più varia che vogliono contribuire al processo democratico. Da tempo però gli esperti di trasparenza e le ong che si occupano di lobbismo temono che il Parlamento Europeo sia eccessivamente vulnerabile alle influenze esterne. Per esempio da parte di paesi non democratici o ostili al progetto di integrazione europea, che intendono condizionarne le decisioni a proprio vantaggio, come secondo la procura belga avrebbe fatto il Qatar negli ultimi mesi.
Le campagne di influenza da parte dei paesi stranieri, in particolare, sono fra le attività di lobbismo meno regolate all’interno dell’Unione Europea, e quindi più problematiche.
Da una decina d’anni le organizzazioni esterne che vogliono influenzare il processo legislativo dell’Unione Europea sono tenute a iscriversi al Registro per la trasparenza, una banca dati che permette all’Unione di monitorare la loro attività e sapere per esempio in quale ambito lavorano, quanto spendono ogni anno e quanti dipendenti hanno. Ad oggi il Registro contiene 12.450 organizzazioni, fra cui 3.493 ong, 2.632 associazioni di categoria, 972 sindacati o associazioni professionali, e così via. Funziona più o meno allo stesso modo anche al Congresso statunitense, mentre alcuni parlamenti, come quelli italiano, non consentono alle lobby di lavorare dentro ai palazzi dove hanno sede le istituzioni (col risultato, secondo alcuni, di una maggiore opacità).
Il lobbismo comporta sempre cercare di avanzare interessi di parte in un dibattito pubblico: ma in generale viene considerato illegittimo e pericoloso quando un gruppo di interesse usa il proprio capitale – economico o politico – per avvantaggiare sé stesso, a discapito dell’interesse generale. E si trasforma in un’operazione di corruzione quando funzionari o parlamentari di una istituzione prendono una decisione in cambio di un vantaggio molto concreto: soldi, favori, vantaggi per sé o per i propri parenti o colleghi.
Nelle istituzioni europee il lavoro delle lobby è regolamentato da un codice di condotta, che impone per esempio di «evitare di ottenere né cercare di ottenere informazioni o decisioni in maniera disonesta», di «arrecare pregiudizio alle istituzioni dell’Unione», ma anche di non «indurre i deputati al Parlamento Europeo, i membri della Commissione o i funzionari delle istituzioni dell’Unione a contravvenire alle disposizioni e alle norme di comportamento ad essi applicabili».
Sono norme piuttosto generiche, e infatti ogni istituzione europea nel tempo si è dotata di un proprio codice etico e di un organismo che si occupi di trasparenza.
Il Parlamento Europeo però è l’istituzione che storicamente ha le regole «decisamente più ridotte», spiega Alberto Alemanno, esperto di trasparenza e fondatore dell’organizzazione The Good Lobby. «I parlamentari non hanno l’obbligo di dare conto di chi incontrano, né esiste un divieto di avere lavori paralleli: circa un quarto dei parlamentari europei mantiene incarichi da libero professionista, e questo crea un conflitto di interessi permanente». Mentre creare barriere per i funzionari e i dipendenti delle istituzioni è piuttosto semplice, i parlamentari godono tradizionalmente di norme più lasche per evitare compressioni alla loro attività politica, che prevede per sua natura incontri con elettori e portatori di interessi.
Non tutte le lobby approfittano di questa area grigia che viene garantita ai parlamentari, naturalmente: le lobby sono così integrate nel processo legislativo europeo che spesso i parlamentari fanno affidamento su di loro, in buona fede, per capire quali sono le richieste di gruppi di persone su cui ricadranno le norme in discussione.
Il lavoro di un lobbista ha come obiettivo costruire relazioni con persone che lavorano all’interno delle istituzioni, che siano parlamentari o altre figure, per portare avanti gli interessi del proprio datore di lavoro. Ognuno ha i suoi metodi: lunghi corteggiamenti tramite lusinghe, invio di documenti o incontri concordati, oppure appostamenti fuori dall’ufficio o dall’aula per tampinare la persona che si vuole influenzare.
I parlamentari europei adottano approcci diversi per gestire queste pressioni, che in certi casi possono diventare piuttosto pesanti, o gettare dubbi sull’integrità di un parlamentare. Un ex parlamentare europeo racconta per esempio che all’inizio della legislatura si diede questa regola: non incontrare lobbisti se non in ufficio con almeno un testimone o durante un evento pubblico. «Questo atteggiamento però non era così diffuso», racconta. Non è così raro che un parlamentare europeo si veda a cena con dei lobbisti, quindi in un contesto privato, o che riceva regali di cui non accerta il prezzo (c’è un tetto massimo, stabilito dal Parlamento, di 100 euro per singolo oggetto).
In teoria i parlamentari europei possono registrare i propri incontri con i lobbisti in un portale apposito, i cui dati sono accessibili: in realtà l’uso del portale è obbligatorio solo per i parlamentari con incarichi rilevanti, come i presidenti di commissione o i relatori di un certo provvedimento, mentre per tutti gli altri è volontario. A inizio dicembre la ong Transparency International ha pubblicato un rapporto in cui segnalava che negli ultimi tre anni il portale era stato utilizzato soltanto da un parlamentare europeo greco su dieci, e da tre su cinque parlamentari europei italiani. In generale c’è un notevole squilibrio fra gli incontri registrati dai Verdi, dai Liberali e dai Socialisti – moltissimi – e quelli registrati dai gruppi parlamentari di destra o centrodestra, molti molti meno.
Le lobby si fanno sentire soprattutto in occasione di importanti passaggi legislativi, come per esempio l’approvazione della pluriennale Politica agricola europea (PAC), che muove diversi miliardi dal bilancio dell’Unione, o di certe direttive particolarmente delicate per un settore o una categoria.
Qualche anno fa in occasione della controversa direttiva europea sul diritto d’autore le principali aziende di tecnologia investirono svariati milioni di euro per cercare di smussare alcuni punti della direttiva. Ultimamente hanno portato avanti una aggressiva campagna di lobbying su due importanti direttive che riguardano le regole di internet, il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA), secondo alcuni con metodi discutibili e scorretti, per esempio nascondendosi dietro aziende più piccole che portano avanti le stesse campagne. Il presidente della commissione Ambiente del Parlamento, Pascal Canfin, ha detto che di recente ha assistito a «uno tsunami di lobbismo» sul Fit for 55, l’ambizioso piano europeo contro il cambiamento climatico, molto osteggiato dalle aziende automobilistiche e dalle loro lobby.
Le attività di lobby portate avanti da aziende, associazioni di categoria, ong e sindacati esistono comunque da anni, e in diversi casi sono benvolute e ricercate dagli stessi parlamentari: un parlamentare che si occupa di immigrazione, per esempio, cercherà naturalmente di coltivare buoni rapporti con ong come Amnesty International o Human Rights Watch. Gli esperti di trasparenza sanno bene quali contromisure si potrebbero adottare per gestirne gli eccessi, e i parlamentari europei più sensibili sul tema possono adottare autonomamente approcci più prudenti, se vogliono.
Un settore meno regolamentato e su cui c’è ancora meno consapevolezza riguarda invece le operazioni di lobbismo portate avanti da paesi stranieri.
Euronews ha notato che fra le circa 12mila organizzazioni del Registro per la trasparenza soltanto cinque sostengono di rappresentare paesi stranieri. Questo perché molto spesso i paesi che vogliono influenzare il processo legislativo europeo si servono di società di consulenza presenti nel Registro, le quali però non sono tenute a diffondere i nomi dei propri clienti. «Il diritto internazionale prevede che i paesi possano influenzare i rispettivi processi decisionali», spiega Alemanno, «ma a livello europeo manca un regime che renda trasparente questa attività».
Nelle società di consulenza che offrono questo tipo di servizi lavorano spesso ex parlamentari europei, che per via del proprio passato, delle conoscenze e delle reti accumulate in carriera hanno generalmente maggiore accesso ai parlamentari in carica rispetto ai lobbisti “semplici”: proprio come l’italiano Antonio Panzeri, una delle quattro persone arrestate nell’inchiesta sul Qatar. In generale gli ex parlamentari europei sono molto ricercati come lobbisti, anche perché per via del loro ruolo precedente possono entrare in Parlamento quando vogliono, senza bisogno di registrarsi come lobbisti: nel 2017 Politico calcolò che 51 parlamentari europei che avevano concluso il proprio mandato nel 2014 erano dipendenti di organizzazioni presenti nel Registro per la trasparenza.
Un problema ancora più delicato sulle influenze straniere riguarda gli uffici di rappresentanza, le cosiddette “ambasciate”, che i paesi extracomunitari hanno a Bruxelles: nominalmente per mantenere i rapporti diplomatici con le istituzioni europee, ma di fatto spesso per fare attività di lobbismo, anche sui parlamentari europei. «Il vero buco nero riguarda per esempio istituzioni come la “missione” del Qatar all’Unione Europea: sono esenti da controlli perché a loro dire godono di uno status diplomatico», dice Alemanno.
Il confine fra diplomazia e influenza è sottile, e a volte non così chiaro da tracciare: due anni fa la ong Corporate Europe pubblicò un lungo rapporto sugli sforzi di lobby nelle istituzioni europee degli Emirati Arabi Uniti, un altro paese non democratico ma molto ricco, dal profilo simile a quello del Qatar. Non lo avrebbe portato avanti attraverso la sua ambasciata ma attraverso alcuni think tank creati appositamente e tramite un gruppo informale di “amici degli Emirati Arabi Uniti” fra i parlamentari europei. Sono tentativi di mantenere rapporti con le istituzioni e i suoi rappresentanti o modi per condizionare le loro decisioni?
Alemanno ritiene che una parte dei problemi di trasparenza al Parlamento Europeo possa essere risolta creando un comitato etico indipendente «a cui fondamentalmente verrebbero attribuite competenze di monitoraggio sui comportamenti dei funzionari e degli eletti, poteri investigativi e sanzionatori. I membri di questo comitato sarebbero persone super partes, senza appartenenza politica». Alemanno stesso due anni fa ha elaborato una proposta su cui stanno lavorando ancora oggi sia la Commissione sia il Parlamento Europeo.
Fino a pochi giorni fa la proposta sembrava ancora in alto mare, e la Commissione stessa aveva annunciato che sarebbe stata piuttosto debole: dopo lo scandalo che ha riguardato il Qatar diversi gruppi politici ora sostengono la creazione di un nuovo comitato etico che si occupi del Parlamento Europeo. Anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, è sembrata riferirsi a questo quando lunedì durante una conferenza stampa ha detto: «Per noi è importante non solo avere delle regole nette ma che le stesse regole coprano tutte le istituzioni europee, e che non esistano eccezioni».