Nelle serre in provincia di Ragusa i diritti non esistono
Nella cosiddetta Fascia trasformata migliaia di braccianti irregolari lavorano in condizioni terribili nell'indifferenza delle istituzioni
di Isaia Invernizzi
Mohamed trascorre le sue giornate tra le serre dove lavora e la baracca dove vive. Ogni giorno per almeno otto ore raccoglie verdura a Marina di Acate, in provincia di Ragusa, nella parte più a sud della Sicilia. Inizia alle 7 del mattino e finisce alle 16, se tutto va bene. Guadagna pochissimo: 35 euro al giorno. È un lavoro duro e alla lunga logorante. Si sta per ore chinati, accovacciati, si sollevano e si trasportano casse di legno pesanti, colme di verdura, e d’estate fa caldissimo.
Mohamed raccoglie soprattutto pomodori, a volte zucchine e melanzane. “L’oro verde”, veniva chiamato fino a pochi anni fa. Ha una maglietta rossa lisa, la faccia e le mani sporche di terra. È tunisino, ha 28 anni. È arrivato in Italia dal Mediterraneo, sette anni fa. È sbarcato a Pozzallo insieme a un centinaio di persone e non ha i documenti. «Vai via. Se ti vede il padrone si incazza», dice in modo sbrigativo, ma con un mezzo sorriso.
La sua non è una storia unica o particolarmente sfortunata: nelle serre del Ragusano ci sono migliaia di persone come lui. Lavorano in condizioni proibitive, senza contratti, senza documenti, senza tutele e sicurezza, facili prede di caporali che le ricattano e le sfruttano come se fossero loro proprietà. Qui le leggi e i diritti non esistono.
Molte persone probabilmente non hanno mai sentito parlare della Fascia trasformata, ma quasi certamente hanno assaggiato qualcosa che proviene da questa zona. È una fascia coltivata lunga 80 chilometri tra le province di Siracusa, Ragusa e Caltanissetta, lungo la costa sud occidentale della Sicilia, dove negli ultimi 70 anni le serre hanno coperto oltre 10mila ettari di terreno. Oggi nella sola provincia di Ragusa viene coltivato il 25 per cento della produzione italiana di pomodoro in serra.
Dall’alto la trasformazione che dà il nome a questo territorio è evidente: la campagna nei comuni di Gela, Acate, Vittoria e Santa Croce Camerina è quasi completamente nascosta dalle serre, “plastificata” fino al mare. È facile perdere l’orientamento perché le serre sono tutte uguali, una accanto all’altra. La presenza di estranei non passa inosservata. Le strade tra i campi sono lunghe, tortuose, e per lo più inaccessibili: cancelli e recinzioni servono a proteggere un sistema economico che si regge sull’irregolarità e sull’abusivismo.
Fino alla fine degli anni Quaranta questa zona veniva coltivata con metodi tradizionali. Negli anni Cinquanta, grazie all’intraprendenza di alcuni contadini di Vittoria e all’intuizione di tecnici agronomi, vennero costruite le prime serre che consentivano di sfruttare terreni sabbiosi vicino al mare. I risultati furono sorprendenti: in una stagione si riusciva a ottenere una resa fino a sette volte superiore rispetto al passato. La superficie coperta dalla serre passò dai 34 ettari del 1960 ai 2.000 del 1970, cioè 20 chilometri quadrati.
L’opportunità di lavoro attirò moltissimi braccianti da molte città siciliane e anche dall’estero. Allo sviluppo del settore, tuttavia, non seguì un analogo progresso sociale: nei paesi vennero costruiti interi quartieri abusivi, senza servizi essenziali come acqua, fogne e strade. Macconi, come viene chiamato un insieme di case sparse nei campi di Marina di Acate, è tra questi.
Alla fine degli anni Settanta la produzione, fino ad allora riservata ai mesi invernali per la coltivazione delle cosiddette primizie, venne estesa a tutto l’anno. La scelta garantì nuovi guadagni, ma allo stesso tempo un peggioramento delle condizioni lavorative e ambientali. Si scavarono centinaia di pozzi per soddisfare l’ingente richiesta di acqua, e vennero introdotti prodotti chimici, fitofarmaci e diserbanti. D’estate, nelle serre, il caldo torrido causava moltissimi malori: morirono decine di lavoratori e lavoratrici.
Negli anni Settanta nelle serre iniziarono a lavorare persone emigrate dal Marocco e dalla Tunisia. I prezzi dei terreni, delle strutture e del trasporto della merce aumentarono grazie a un’espansione capitalistica incontrollata, senza regole. L’arrivo continuo di nuova manodopera consentì agli agricoltori, nel frattempo diventati imprenditori, di sfruttare i lavoratori imponendo salari sempre più bassi, l’equivalente di 15 euro al giorno.
La crescita economica della Fascia trasformata attirò l’attenzione della criminalità organizzata. La Stidda, “stella” in siciliano, nacque all’inizio degli anni Ottanta: è nota come la quinta mafia o la mafia dei ribelli, perché si sviluppò in contrasto a Cosa Nostra.
All’inizio degli anni Novanta il collaboratore di giustizia Leonardo Messina rivelò che la Stidda era nata in provincia di Caltanissetta su iniziativa di alcuni mafiosi che erano stati messi “fuori confidenza”, cioè erano stati espulsi da Cosa Nostra, con cui iniziò una guerra che causò un centinaio di omicidi tra il 1987 e il 1990. Uno degli elementi caratteristici della Stidda è proprio il ricorso alla violenza, decisivo nello sviluppo rapido delle carriere criminali e nell’affermazione di giovani mafiosi emergenti.
Il controllo dell’economia da parte della criminalità organizzata limitò ulteriormente i diritti. L’ingresso in Sicilia di lavoratori provenienti dalla Romania, negli anni Novanta, alimentò una sorta di concorrenza al ribasso con stipendi ancora più miseri. Lo stesso fenomeno è stato osservato negli ultimi anni con uno sfruttamento illegale e sempre maggiore di migliaia di persone arrivate dal Mediterraneo e ospitate nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria.
Secondo gli ultimi dati disponibili, nelle 5.200 aziende agricole della Fascia trasformata lavorano 28mila persone, prevalentemente stranieri. Sono numeri poco indicativi, parziali, che non tengono conto delle migliaia di lavoratori e lavoratrici irregolari. La Caritas stima che solo ad Acate siano cinquemila, la metà dei residenti ufficiali.
Molti sono assunti in nero perché senza documenti. Altri, in condizioni leggermente migliori, rientrano nel cosiddetto lavoro grigio: vengono assunti regolarmente al massimo per 102 giornate lavorative e in questo modo possono chiedere la disoccupazione agricola, ma in realtà lavorano almeno il doppio, a volte tutto l’anno senza riposo.
Moltissime famiglie vivono dentro le aziende in casolari accanto ai campi, in garage o baracche, senz’acqua e servizi. Le case, se così si possono chiamare, si riconoscono per via dei vestiti stesi fuori ad asciugare.
L’isolamento vissuto da queste famiglie è per certi versi totalizzante. Non si spostano mai, non incontrano nessuno se non i proprietari delle aziende. Lavorano e basta: è un modo piuttosto efficace per impedirne l’emancipazione. Negli ultimi anni lo sfruttamento e la mancanza di condizioni dignitose di vita e di lavoro sono state denunciate da inchieste giornalistiche e della magistratura.
Gli interventi delle istituzioni sono stati trascurabili, in parte volutamente non decisivi per non compromettere la precaria stabilità di questo sistema economico da cui dipendono i guadagni di migliaia di persone. Da anni non cambia nulla, anzi con la pandemia le cose sono peggiorate.
Jilani Gasmi ha iniziato a lavorare dopo essere sbarcato a Lampedusa. È in Italia da 13 anni e da allora sta aspettando i documenti, senza i quali non può tornare in Tunisia per rivedere la mamma, la sorella e la nipote. Il padre è morto di coronavirus. Gasmi, senza documenti, non è potuto tornare a casa per il funerale. «Lavoro tutto l’anno, ma l’estate è il periodo più duro», dice. Ha accompagnato un amico alla clinica mobile di Emergency, l’unico vero presidio sanitario della zona che dal giugno del 2019 offre gratuitamente servizi di medicina di base, educazione sanitaria e ascolto psicologico. Il camper rosso si muove nei paesi della Fascia trasformata: il lunedì e il giovedì è a Marina di Acate, il mercoledì a Santa Croce Camerina, il martedì e il venerdì a Vittoria, dove c’è anche un ambulatorio.
Ogni giorno, dalle 16:30 – l’ora in cui le persone finiscono il turno di lavoro nelle serre – medici, infermieri, psicologi e mediatori culturali assistono i lavoratori che hanno subìto infortuni o hanno problemi di salute. Maria Perri, medica, è arrivata nella Fascia trasformata lo scorso gennaio dopo alcune esperienze all’estero, sempre con Emergency. Dice che tra i principali motivi di accesso ci sono problemi muscoloscheletrici dovuti ai carichi elevati e agli orari di lavoro eccessivi. La maggior parte riguarda uomini tra i 20 e i 60 anni.
Prima del 2019 queste persone erano abbandonate a loro stesse. In caso di infortunio, infatti, non vengono allertati i soccorsi per evitare denunce. I lavoratori, inoltre, non riescono a raggiungere farmacie e ospedali a causa dell’isolamento e dell’assenza di mezzi di trasporto pubblici.
I cosiddetti caporali dei servizi, cioè taglieggiatori che sfruttano le condizioni disumane in cui vengono tenuti i braccianti e le loro famiglie, chiedono decine o addirittura centinaia di euro per passaggi in auto verso le strutture sanitarie. «Andare in pronto soccorso può costare anche 100 euro», spiega Perri, che ogni giorno assiste e ascolta decine di lavoratori. «Sembra di essere in una zona staccata da tutto il resto del mondo, in cui domina lo sfruttamento: di fatto siamo in un ghetto molto esteso».
Due settimane fa alla clinica mobile si è presentata una famiglia con sei figli. Nessuno di loro era mai stato visitato da un pediatra. Senza cure di base, è difficile individuare e curare persone con malattie croniche: diabetici e ipertesi non vengono sottoposti a esami e terapie. Lo stesso vale per chi ha malattie più gravi che imporrebbero un’assistenza continua. Prevale la paura di perdere il lavoro, di essere sostituiti da altri stranieri sfruttati, e per questo anche problemi in teoria banali come le punture degli insetti, se trascurati, possono portare a conseguenze serie.
Prima dell’alba, sulle poche strade che portano da Vittoria a Marina di Acate, si vedono molti braccianti in bicicletta. È un viaggio pericoloso: le carreggiate sono strette, l’asfalto pieno di buche, non c’è illuminazione. Qualcuno indossa un gilet catarifrangente, probabilmente uno dei tanti donati dai sindacati di base dopo la morte di Fodie Dianka, conosciuto come Fodè, un lavoratore originario del Mali. All’inizio di febbraio del 2021 Dianka fu investito mentre stava andando al lavoro in bici, da un’auto che non si era fermata. L’uomo rimase per ore al lato della strada, prima di morire.
Ogni giorno centinaia di braccianti percorrono in bicicletta quello stesso tratto di strada. Chi non abita nelle baracche vicino alle serre non ha alternative, se non pagare un caporale per un passaggio in auto. Costa molto, come racconta Youssef, 29 anni, che ogni settimana è costretto a pagare 25 euro per essere accompagnato al lavoro. È un prezzo esoso, ingiustificato. «Siamo come animali», dice sconsolato Youssef, tornato in Sicilia dopo aver tentato di migliorare le sue condizioni in altre zone d’Italia. È stato a Salerno e al Nord, ma non è andata come avrebbe voluto e ha deciso di tornare da dove era partito.
Giovanni Di Natale, sindaco di Acate, assicura che il comune sta cercando in qualche modo di rimediare alla carenza di mezzi pubblici. Gli sforzi, al momento, sono insufficienti: è stata istituita soltanto una navetta che una volta al giorno collega Marina di Acate ad Acate. «Facciamo il possibile», dice il sindaco allargando le braccia. Le tante sollecitazioni fatte negli ultimi anni non sono servite: nessun’altra istituzione è intervenuta e questa zona è diventata un ghetto diffuso.
Un’altra grave mancanza imputabile alla scarsa attenzione istituzionale riguarda la raccolta dei rifiuti prodotti dalle aziende agricole. In sostanza, è inesistente. Quando fa buio, l’orizzonte si riempie di colonne di fumo. Sono le cosiddette fumarole, prodotte dall’incenerimento dei rifiuti delle attività agricole. Vengono bruciati contenitori di plastica, tiranti, tubazioni per l’irrigazione, reti antigrandine, contenitori in polistirolo, teli di copertura, fascette e corde di nylon, cassette di legno. È molto semplice: si scava una buca, si buttano dentro i rifiuti e si dà fuoco. È ovviamente illegale e pericoloso per la salute.
L’aria, la sera, diventa spesso irrespirabile. Nemmeno la brezza del mare riesce a portare via la puzza.
Negli anni la plastica è stata buttata ovunque, perfino sulla spiaggia di Marina di Acate dove si notano quelle che all’apparenza sembrano dune: in realtà un sottile strato di sabbia nasconde tonnellate di rifiuti abbandonati. «Le mafie e le ecomafie hanno capito che si possono fare molti soldi anche con i rifiuti», dice Riccardo Zingaro, ambientalista, ex carabiniere, da tempo impegnato nel denunciare i danni ambientali nella Fascia trasformata. «A Marina di Acate si consuma un’enorme quantità di fitofarmaci anche grazie all’importazione illegale di prodotti dall’estero, non controllati. Siamo in una terra di nessuno».
Nel novembre 2019 a Riccardo Zingaro è arrivato un messaggio piuttosto chiaro: gli è stata bruciata l’auto parcheggiata sotto casa.
L’assenza di servizi basilari non condiziona soltanto il lavoro dei braccianti, ma anche la vita dei loro familiari. I bambini che abitano nelle campagne, in baracche o magazzini lontani chilometri dalla prima strada asfaltata, difficilmente riescono ad andare a scuola. È considerata un’incombenza, un fastidio, invece che un’opportunità di riscatto.
Il primo problema che queste famiglie devono affrontare è economico. Il costo dello scuolabus, per esempio, non è indifferente: fino allo scorso anno il trasporto scolastico costava 2 euro e 80 centesimi al giorno, ora è stato portato a 2 euro. Sempre troppo per chi guadagna poche decine di euro al giorno.
Tra il 2016 e il 2017 la Chiesa Valdese ha finanziato un pulmino per consentire a 15 bambini di origine rumena di raggiungere l’istituto comprensivo Giovanni XXIII di Vittoria. Molti di loro, tra cui alcuni già adolescenti, non erano mai andati a scuola: non erano in grado di leggere, né di scrivere, nemmeno il proprio nome e cognome. Erano ignari della loro età e non sapevano il giorno del loro compleanno. «Bambini invisibili, dimenticati dalle istituzioni, fantasmi», sono stati definiti dalla dirigente scolastica Vittoria Lombardo. «Si è cercato di rendere la loro vita migliore, di dare loro una chance, un’opportunità».
I pochi progressi fatti tra il 2015 e il 2020 sono stati spazzati via dalla pandemia. Vincenzo La Monica è il responsabile del Progetto Presidio della Caritas, nato nel 2014 con l’obiettivo di assistere i lavoratori e in questo modo cercare di opporsi al loro sfruttamento. Dice che la pandemia è stato «un acceleratore di difficoltà».
La didattica a distanza (DAD) ha ampliato il già preoccupante divario scolastico. «Di fatto la DAD si è tradotta in una non-scuola», spiega La Monica. «Molti genitori hanno colto l’occasione per imporre ai figli di aiutarli nelle serre. I pochi studenti che si collegavano alla lezione tenevano la telecamera spenta per non far vedere ai compagni che vivevano in un’unica stanza insieme agli altri familiari, con i materassi per terra come letti».
Dall’ottobre del 2020 la Caritas ha avviato un doposcuola che ha consentito a molti bambini di recuperare i mesi persi. Sono stati coinvolti due educatori, una mediatrice culturale di lingua araba, un insegnante volontario. Sempre volontarie sono state le iniziative di insegnanti e dirigenti scolastici che durante la pandemia hanno cercato di raggiungere le case degli studenti, in campagna, per portare loro dei tablet. Dal gennaio del 2022 diverse associazioni tra cui Caritas hanno avviato anche un progetto di inclusione sociale chiamato “Trasformare la Fascia trasformata”, finanziato dalla fondazione Con il Sud.
Qui la marginalità e il disagio accompagnano le persone fin dai primi anni di vita. Ma compromettono presto anche chi arriva in Italia dall’Africa, in fuga dai conflitti e dalle scarse opportunità. All’inizio i pochi guadagni garantiti dal lavoro nella Fascia trasformata vengono accolti come una sorta di speranza. Tuttavia, con il passare del tempo, le serre diventano un limbo da cui è complicato uscire.
In queste condizioni di incertezza strutturale emergono significative conseguenze psicologiche condivise da molti braccianti. Alla clinica mobile di Emergency si presentano persone con patologie post traumatiche da stress oppure di tipo ansioso-depressivo.
Alessandro Di Benedetto, psicologo e psicoterapeuta del progetto di Emergency, dice che la maggior parte dei lavoratori che si rivolgono alla clinica mobile vive situazioni depressive: sono persone che si sentono perennemente sospese, non riconosciute. «Molti dicono che ogni giorno è come se fosse il primo in cui sono arrivati in Italia», spiega Di Benedetto. «Vivono nella paura costante di perdere il lavoro e per questo non si curano. L’assunzione di alcol, droghe o psicofarmaci diventa una forma di autocura. Per un ragazzo o una ragazza di 20 o 30 anni vivere in una situazione abitativa e igienico sanitaria precaria ha un impatto sul benessere psicofisico».
Durante la pandemia le associazioni che operano nella Fascia trasformata hanno segnalato un peggioramento delle condizioni lavorative, un aumento degli orari di lavoro, un calo della retribuzione. In altre parole, l’emergenza coronavirus ha reso i braccianti ancora più sfruttati, deboli e ricattabili.
Le donne sono più a rischio. Già nel 2017 un’inchiesta giornalistica del Guardian e prima ancora un analogo lavoro dell’Espresso denunciarono le violenze sessuali a cui erano sottoposte le donne, soprattutto rumene. All’epoca, secondo la cooperativa sociale Proxima, il 20 per cento degli aborti segnalati in provincia di Ragusa veniva chiesto da donne rumene, che rappresentavano il 4 per cento della popolazione femminile.
Michele Mililli dell’USB, un sindacato di base, il più vicino ai lavoratori della Fascia trasformata, sostiene che queste condizioni di sfruttamento e illegalità siano tollerate, nascoste anche se conosciute da tutti, in un certo senso sopportate come un male minore.
L’indifferenza, dice, è totale, come se quest’area fosse un pezzo di Italia dove non esistono le istituzioni, non c’è una classe politica o partiti, non sono ancora nati i sindacati, non esistono strade illuminate, servizi sanitari e strutture che consentano di fare di un semplice paese un paese civile. Fare sindacato qui significa diffondere la consapevolezza che certe condizioni di lavoro e di vita sono intollerabili, come fecero le Camere del lavoro alla fine dell’Ottocento.
Negli ultimi anni i sindacati confederali hanno perso la capacità di coinvolgere i braccianti nelle rivendicazioni e nelle lotte. Quello spazio, lasciato per lo più vuoto, è stato occupato dai sindacati di base e in particolare dall’USB. Ne sono un esempio le partecipate manifestazioni organizzate per chiedere la verità sul caso di Daouda Diane, un mediatore culturale scomparso in un cementificio di Acate lo scorso 2 luglio.
«Non c’è nessun partito politico che abbia messo nella propria agenda la questione bracciantile, nessun sindaco che alza la voce per chiedere aiuto alle istituzioni, nessun sindacato che decida di attivare una vertenza generale su questi temi», dice Mililli. «L’unica iniziativa che possa dare realmente risposte concrete a questi lavoratori è un forte movimento sindacale che coinvolga direttamente i lavoratori stessi, organizzati attorno a un sindacato che sia il loro sindacato, che difenda i loro interessi e che possa connettere le loro lotte con quelle di tutti i lavoratori sfruttati».
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Non è un obiettivo semplice, perché spesso tra i braccianti manca questo senso di urgenza. Molti in passato hanno vissuto in contesti talmente pericolosi da non percepire lo sfruttamento. Vincenzo La Monica di Caritas la definisce una «catena al ribasso della coscienza dei diritti». Paradossalmente l’emancipazione comporta anche dei rischi. «Ora le cose sono un po’ migliorate, ma in passato chi denunciava non era tutelato», spiega La Monica. Molti dei braccianti irregolari che hanno provato a ribellarsi sono scomparsi nel nulla, come è successo a Daouda Diane.
Finora nessuno è riuscito a ribaltare o quanto meno migliorare questo sistema economico che si regge sullo sfruttamento. Oltre al disinteresse più o meno voluto delle istituzioni locali o regionali, uno dei grossi limiti è rappresentato dall’indifferenza dei consumatori, quasi sempre ignari del processo iniquo che ha portato quei prodotti sulle loro tavole.
La verdura che viene coltivata nella Fascia trasformata viene comprata a prezzi irrisori imposti dalla cosiddetta GDO, la grande distribuzione organizzata, prima di finire tra i banchi dei supermercati, prevalentemente nelle regioni del Nord. In questa filiera così opaca il prezzo all’origine viene decuplicato senza controlli e tutele, senza la garanzia di un giusto compenso per gli agricoltori e soprattutto senza alcun rispetto per i diritti delle persone che quella verdura l’hanno coltivata e raccolta.