L’alternativa tra riuso e riciclo, spiegata
Dipende dal contesto e dai materiali: tendenzialmente riutilizzare ha minore impatto sull’ambiente, ma ci possono essere costi e limiti
di Simone Fant
Sempre più persone, per semplice curiosità o sensibilità ambientale, si chiedono quale sia la soluzione più sostenibile: riuso oppure riciclo? Non solo nelle pratiche quotidiane, ma anche rispetto al dibattito che coinvolge scelte più estese e decisive di istituzioni e nazioni. È una domanda importante anche perché, oltre a far confusione tra i due concetti, siamo spesso spiazzati dalle campagne di comunicazione che promuovono l’uno o l’altro approccio.
Quando si parla di riuso si intende la possibilità di riutilizzare i prodotti che non sono ancora diventati scarti o rifiuti. Per evitare che finiscano in discarica, o per non alimentare le ricadute ambientali delle procedure di riciclo, gli oggetti possono essere riparati o ricondizionati. Riciclo, invece, significa la trasformazione dei materiali di scarto dei prodotti eliminati in cosiddette “materie prime seconde”, utili per la produzione di nuovi oggetti. I processi di riciclo variano a seconda del materiale.
Riuso e riciclo sono principi fondamentali dell’economia circolare, ovvero un modello economico pensato per potersi rigenerare da solo mantenendo il flusso dei materiali in circolo il più a lungo possibile. Secondo questo approccio i prodotti che smettiamo di utilizzare non sono più un semplice rifiuto da smaltire (con tutte le complicazioni, i danni ambientali e gli sprechi del caso), bensì materia che, se rigenerata, assume un valore economico e ambientale. Gli obiettivi sono quelli di estrarre sempre meno risorse naturali per produrre i materiali, di limitare l’inquinamento, di ridurre le emissioni di anidride carbonica e di contrastare il cambiamento climatico.
Indicata come uno degli strumenti per raggiungere i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, l’economia circolare si basa su quattro approcci (chiamate anche le 4R): riduzione, riuso, riciclo e recupero. Il concetto di riduzione, riferito in particolare a chi produce imballaggi e confezioni (packaging in inglese), incentiva l’introduzione di prodotti più snelli che risparmino materia non necessaria. Il recupero, invece, fa riferimento a impianti (termovalorizzatori) che bruciano i rifiuti – o che ne sfruttano la decomposizione – per produrre energia. È considerata come la soluzione meno sostenibile, ma sempre più proficua della discarica.
Teoricamente ogni prodotto, a seconda anche dei materiali di cui è composto, dovrebbe essere progettato per essere riutilizzato: poi, se questo non accade, inviato a un processo di riciclo. Questo però non è sempre facile, soprattutto per i prodotti usa e getta (monouso) che negli ultimi anni hanno rappresentato tra il 30 e il 40 per cento dei rifiuti solidi raccolti dai comuni europei.
Il dibattito europeo sull’usa e getta
Il dibattito che si è sviluppato riguardo al riuso e al riciclo è molto vivace, specialmente sul tema degli imballaggi e dei contenitori usa e getta. Ma qui contestualizzare è fondamentale. In Europa i rifiuti da imballaggio sono aumentati di più del 20 per cento negli ultimi 10 anni. Per diminuire la produzione di rifiuti la Commissione europea ha proposto un nuovo regolamento per incentivare opzioni e sistemi di riutilizzo.
Parte dell’industria (specialmente italiana) che produce imballaggi monouso (usa e getta) è critica sulle scelte a favore del riuso che penalizzerebbero il riciclo. Per esempio, secondo il regolamento, dal primo gennaio 2030 il 20 per cento degli imballaggi di bevande fredde e calde per l’asporto dovranno essere resi disponibili in contenitori riutilizzabili che ne consentano la ricarica. Un obiettivo che è stato rivisto (doveva essere il 30 per cento) rispetto alla prima bozza di regolamento trapelata a ottobre proprio per via del malcontento dei riciclatori e produttori di imballaggi monouso. Lo scenario dell’asporto o della consegna a domicilio è il più intricato: i consumatori oggi sono quasi obbligati a utilizzare imballaggi usa e getta, dal momento che è ancora raro trovare ristoranti o bar che offrano sistemi di riutilizzo (uso, restituzione e lavaggio) dei contenitori.
Che siano fatti in plastica, carta o vetro, cosa sia più sostenibile tra riuso e riciclo non dipende solo dal materiale ma anche da molti altri fattori. Da una parte le organizzazioni ambientaliste promuovono l’utilizzo di contenitori riutilizzabili come le borracce, dall’altra i produttori e riciclatori di imballaggi sostengono che la raccolta e il riciclo dei materiali dei contenitori monouso (bottigliette in plastica), siano soluzioni già efficienti.
Il materiale che crea più frizioni è sicuramente la plastica. Per limitarne la dispersione nell’ambiente la Commissione europea, attraverso la direttiva SUP (single-use-plastic in inglese), ha vietato la vendita sul mercato europeo di oggetti in plastica monouso non compostabile come posate, cannucce, aste per palloncini e altri prodotti in plastica. Tuttavia ci sono ancora 11 paesi che non hanno recepito la norma e contro cui l’organo esecutivo europeo ha avviato una procedura di infrazione. In Italia la direttiva SUP è entrata in vigore il 14 gennaio 2022.
Per capire meglio quale sia la soluzione più sostenibile di solito si fa riferimento al metodo di valutazione LCA (life cycle assessment), un’analisi standardizzata a livello internazionale che permette di quantificare i potenziali impatti sull’ambiente e sulla salute umana. Prendendo come esempio la carta, la EPPA, l’associazione dei produttori europei di imballaggi in carta e cellulosa, ha commissionato uno studio che mostra come gli imballaggi riciclabili a base di carta, utilizzati nel settore della ristorazione a domicilio e da asporto, siano più sostenibili in 12 categorie di impatto ambientale rispetto a pratiche di riutilizzo.
Tra le pratiche di riutilizzo si parla molto del sistema di deposito cauzionale (una sorta di vuoto a rendere), attraverso cui si incoraggia il consumatore a riportare la bottiglia o il contenitore vuoti chiedendogli una piccola somma di denaro, che verrà restituita alla riconsegna dell’imballaggio. Il sistema di deposito cauzionale sarà obbligatorio entro il 2029 per quei paesi (tra cui probabilmente l’Italia) che non raggiungeranno un tasso di raccolta del 90 per cento per bottiglie di plastica e lattine.
Le categorie d’impatto ambientale (emissioni di anidride carbonica, uso dell’acqua e dell’energia) sono diverse e il loro valore cambia a seconda del mezzo di trasporto usato, il tipo di materiale e tanto altro. Per Zero Waste Europe, un’organizzazione europea che lavora per prevenire la produzione di rifiuti, in genere gli studi LCA non considerano gli impatti della dispersione nell’ambiente della plastica che non viene raccolta e sono spesso incompleti. Sul tema l’associazione ha analizzato i risultati di 32 analisi LCA che hanno messo a confronto riciclo e riuso: il 72 per cento dei 32 studi premia i contenitori riutilizzabili. Il trasporto, la produzione, la durabilità del prodotto e la gestione finale dell’imballaggio sono stati i 4 elementi che hanno influenzato di più il risultato.
Lo scontro tra l’industria italiana e la Commissione europea
Nel 2021 l’Italia ha riciclato il 73 per cento degli imballaggi raccolti superando l’obiettivo europeo del 65 per cento entro il 2025. Per questo il vice presidente della Commissione europea Frans Timmermans durante la conferenza di presentazione del tanto discusso regolamento ha elogiato il sistema italiano (il migliore in Europa), per i risultati ottenuti, ma ha insistito che riuso e riciclo non sono due approcci in competizione. Confindustria ha definito il regolamento inaccettabile e dettato da un approccio ideologico, soprattutto in termini di costi e posti di lavoro. In termini di investimenti stanziati l’Italia ha sempre puntato molto sul riciclo. Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) prevede infatti circa 2,1 miliardi di euro per la costruzione di impianti di riciclo e raccolta differenziata.
Secondo un report della società di consulenza PwC commissionato dall’UNESDA, associazione che promuove l’interesse dei produttori di bevande analcoliche in Europa, si stima che il passaggio a una quota di mercato del 20 per cento di bottiglie in plastica riutilizzabili entro il 2030 costerebbe ai produttori di bibite europei circa 19 miliardi di euro.
Dall’altra parte la Commissione europea riconosce che le industrie di imballaggi monouso dovranno investire in questa transizione, ma l’impatto complessivo sull’economia e sulla creazione di posti di lavoro è considerato positivo.
Riuso dei prodotti durevoli
Secondo i dettami dell’economia circolare, tutto ciò che è complicato riciclare sarebbe da riutilizzare. E sono tanti i prodotti che, una volta arrivati a fine vita, non sono adatti al riciclo e quindi sono destinati al termovalorizzatore, o peggio alla discarica. La criticità maggiore sta nel fatto che alcuni prodotti sono composti da materiali diversi (poliaccoppiati) che in prospettiva di riciclo non possono essere separati.
Un esempio lo si trova nella moda, un’industria dal significativo impatto ambientale. Tanti vestiti sono costituiti da un mix di fibre sintetiche (poliestere) e fibre naturali come il cotone. Queste miscele oggi non sono riciclabili poiché le due componenti non possono essere separate a livello industriale. Nell’industria tessile l’abbigliamento di seconda mano muove un mercato da miliardi di dollari, ma il riutilizzo è possibile solo se le fibre di cui sono fatti i vestiti possiedono una certa durabilità: fattore essenziale di qualunque prospettiva di riuso è infatti il sufficiente mantenimento della qualità originaria del prodotto. Caratteristica che non si trova nel modello di business della fast fashion. Magliette e jeans da pochi euro non possono garantire peraltro standard ambientali affidabili e il rispetto dei diritti dei lavoratori nella loro produzione. Per contrastare questi rischi la strategia europea sul tessile promuove vestiti più durevoli e di qualità.
Il riuso ha però anche altre declinazioni. Il ricondizionamento o la riparazione degli smartphone e altri apparecchi elettronici è una pratica che sta riscuotendo particolare successo, soprattutto tra i giovani. Non ha molto senso, né economico, né ambientale, riciclare i materiali di un telefono se si può riutilizzare o riparare. Secondo un report dell’organizzazione Green Alliance, centro studi con base a Londra che dal 1979 propone politiche ambientali, mantenere gli smartphone in uso per un anno aggiuntivo rispetto alle medie attuali farebbe risparmiare il 31 per cento delle emissioni di anidride carbonica relative.
Quella del ricondizionamento è una logica che si rivolge alle persone che desiderano conservare il proprio prodotto rotto o inutilizzabile, oppure sono disposte a pagare un prezzo scontato per articoli non nuovi ma perfettamente funzionanti, protetti da una garanzia. Per i prodotti durevoli come smartphone, lavatrici e articoli per abbigliamento di maggiore qualità, il riuso è considerato l’approccio più sostenibile.
Riciclare quello che non si può riutilizzare
Non tutto ovviamente si può riutilizzare. La maggior parte dei prodotti che usiamo diventa scarto, quindi rifiuto. Tutti gli imballaggi di carta, vetro, alluminio e plastica che sono stati a contatto con gli alimenti, dopo essere stati differenziati, devono seguire processi di decontaminazione e riciclo. Questo comporta consumi energetici alti, ma l’impatto in termini di emissioni è invece generalmente basso per tutti i tipi di materiali. In Italia i rifiuti urbani di carta e vetro hanno ottime probabilità di rientrare nel mercato come materie riciclate. Per quanto riguarda la plastica invece ci sono più difficoltà. Secondo l’ultimo rapporto di Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), che dà supporto tecnico scientifico al ministero dell’Ambiente, nel 2020 delle 3,7 milioni di tonnellate di rifiuti plastici prodotti in Italia, solo 620mila tonnellate sono state avviate al riciclo.
Anche gli scarti alimentari (umido) possono essere riciclati attraverso processi da cui si può ricavare compost, un ammendante (sostanza che migliora la struttura del suolo e apporta sostanza organica nel terreno) utilizzato in agricoltura, oppure biogas per la produzione di energia elettrica o termica. Un altro scarto alimentare che può essere recuperato è l’olio avanzato dalla frittura o dai barattoli delle conserve. Gli oli esausti si possono riciclare per produrre biocarburanti (combustibile ottenuto da grano, mais, ecc.), cosmetici e saponi, ma fino ad ora in Italia se ne raccoglie solo il 5 per cento.
La scelta tra riuso e riciclo riguarda anche altre pratiche, più direttamente legate alla riduzione delle emissioni: per mitigare il riscaldamento globale, il processo di transizione verso fonti di energia rinnovabile come solare ed eolico comporta l’estrazione di tutta una serie di metalli che, vista la domanda crescente e le risorse limitate del pianeta, sono state ribattezzate come materie prime critiche. Litio, cobalto e manganese sono alcuni dei componenti che costituiscono pannelli fotovoltaici, batterie per le auto elettriche e apparecchi elettronici. Una volta che questi prodotti finiscono il loro ciclo di vita, non essendo possibile riutilizzarli, il riciclo rimane l’unica opzione per recuperare i loro elementi più preziosi. Tuttavia i processi di riciclo sono operazioni tutt’altro che semplici. Per esempio separare tutti gli elementi (nichel, litio e manganese sono solo alcuni) che compongono una batteria per auto elettriche comporta una serie di procedure tecnologicamente innovative su cui gli istituti di ricerca, anche italiani, stanno lavorando molto: sono soluzioni virtuose che possono ridurre la dipendenza europea da altri paesi ricchi di materie prime critiche e terre rare.