Come funziona la repressione in Cina
Quella che ha soffocato le proteste degli scorsi giorni, ma anche quella che da oltre due anni si occupa di mettere in pratica la strategia “zero Covid”
di Guido Alberto Casanova
Negli scorsi giorni le autorità cinesi hanno rapidamente represso le proteste che avevano coinvolto decine di città del paese a fine novembre, dove si erano verificate molte dimostrazioni spontanee contro la strategia “zero Covid”. La polizia ha pattugliato le strade con moltissimi agenti e mezzi, rendendo di fatto impossibile riunirsi per coloro che avessero voluto scendere in strada a protestare.
Mentre a Shanghai la polizia si è presentata in massa nelle zone della protesta, erigendo barriere per ostruire l’assembramento di persone, gli agenti hanno telefonato alle persone che nei giorni precedenti avevano partecipato alle dimostrazioni ordinando loro di non prendervi più parte. Secondo alcuni video emersi in questi giorni la polizia sta usando tecnologie di riconoscimento facciale per individuare chi ha partecipato alle proteste e sta anche fermando i passanti per strada: chiede loro di mostrare gli smartphone e li obbliga a cancellare il materiale video-fotografico relativo alle proteste e disinstallare app come Telegram o Twitter.
Contestualmente, le autorità hanno anche allentato parte delle restrizioni imposte negli ultimi due anni per il coronavirus, usando una doppia strategia di repressione e parziale accomodamento: di fatto, ormai da alcuni giorni la Cina si sta progressivamente allontanando dalla strategia zero Covid.
L’apparato di coercizione cinese è tra i più sviluppati e complessi al mondo. Le autorità hanno a disposizione un armamentario variegato per adempiere alle proprie funzioni di vigilanza e repressione, sia nel mondo fisico che online. Dalle commissioni decisionali di Pechino, attraverso gli organi di polizia, fino ai comitati locali di partito e alla vastissima rete di videocamere di sorveglianza, il mantenimento della stabilità sociale e della sicurezza politica è una delle massime priorità per il Partito comunista cinese (PCC).
Il modello Xi
Nell’ultimo decennio l’apparato coercitivo cinese ha subìto profonde trasformazioni parallelamente all’accentramento del potere operato dal presidente Xi Jinping, che della ridefinizione della “sicurezza” ha fatto il tratto distintivo del proprio governo. In questi anni è stata pubblicata una lunga serie di riforme relative al mantenimento della stabilità interna: tra le principali vanno indicate la legge sulla sicurezza nazionale (2015), quella sulla cyber-sicurezza (2016), sulle ONG straniere (2016), e la legge sulla sicurezza dei dati (2021). Nel 2020, dopo le imponenti proteste di piazza a Hong Kong, il governo cinese ha imposto anche una legge sulla sicurezza nazionale che di fatto ha eliminato buona parte dell’autonomia di cui godeva la città.
Allo stesso tempo, anche l’organizzazione dell’apparato coercitivo cinese è cambiata. Tra i molti organismi che lo compongono «rimangono comunque i vertici e soprattutto gli organi del PCC a detenere il potere decisionale in ambito di sicurezza», dice Giulia Sciorati, ricercatrice dell’Università di Trento e del centro studi ISPI. «Non a caso, il presidente Xi Jinping rimane la figura politica attraverso cui la risposta a tutte le questioni di sicurezza è concordata».
Questa centralizzazione ha permesso a Xi Jinping di mettere in atto una repressione trasversale nella società cinese. Dai giornalisti agli attivisti, dagli avvocati alle organizzazioni di cittadini, negli ultimi 10 anni il Partito comunista ha tentato di rendere inoffensivi quei nuclei sociali che individualmente o collettivamente possedevano una capacità autonoma di contestare l’azione di governo (se non addirittura l’autorità stessa).
Uno stato di polizia
Per sostenere questo meccanismo di deterrenza socio-politica e di repressione della dissidenza, enorme e in continua espansione, è stato creato un sistema di vigilanza e coercizione molto elaborato. Le autorità deputate a vigilare sulla sicurezza si avvalgono di numerosi mezzi. Dal punto di vista legale, l’ordinamento cinese prevede alcuni strumenti particolarmente vaghi che i tribunali cinesi possono usare a propria discrezione. Uno di questi è il reato di “fomentare dispute e provocare problemi”, un istituto legale ambiguo e interpretabile abbastanza da permetterne l’applicazione anche contro chi esprima disappunto verso politiche o funzionari di partito. Di fatto, questo articolo del Codice penale pone seri limiti alla libertà di parola e di associazione enunciata dalla costituzione cinese.
Soprattutto, la struttura istituzionale della Cina è imperniata sull’indiscutibile primato del partito. Il PCC possiede un indivisibile potere d’indirizzo tanto sul ramo esecutivo del governo quanto su quello giudiziario, senza che un organo esterno possa controllare l’esercizio di questo potere. Ciò significa che le autorità hanno un accesso praticamente illimitato a qualsiasi informazione sia valutata necessaria per il mantenimento della stabilità. Anche gli enti privati come le imprese, nel caso di esplicita richiesta da parte delle autorità competenti, sono obbligate a collaborare sui casi giudicati d’interesse per la sicurezza nazionale.
Questo sistema ha oltretutto a propria disposizione un esteso apparato di sorveglianza video e digitale che è tra gli strumenti più potenti in mano al governo di Pechino. Lo sviluppo tecnologico ha aumentato notevolmente le capacità di controllo del governo sulla popolazione. Il caso più estremo è quello dello Xinjiang, dove centinaia di migliaia di cittadini di etnia uigura sono stati internati in campi di prigionia anche grazie alle tecnologie di riconoscimento facciale e alla sorveglianza online.
L’autoritarismo sanitario
Con il Covid il controllo autoritario cinese è diventato ancora più stretto. «La strategia “zero Covid” è emersa nel contesto di altre politiche di sicurezza che sono state adottate in Cina sotto la presidenza di Xi», dice Sciorati. «Si tratta di approcci diversi dai precedenti poiché entra sempre di più nella sfera della vita delle persone».
La Cina è stato il primo paese a subire la diffusione del nuovo virus a inizio 2020, a cui ha risposto mettendo a punto un sistema molto rigido di controllo necessario per azzerare le infezioni quando ancora mancavano i mezzi per contrastare efficacemente la pandemia. Intenso tracciamento digitale, quarantene centralizzate e lockdown massicci sono stati i mezzi con cui Pechino ha tentato di eradicare il virus, con un buon successo fino alla comparsa della più contagiosa variante omicron.
Eppure, nonostante la mutazione del virus e la disponibilità di vaccini, la Cina ha mantenuto quasi intatta la propria politica epidemiologica, e soltanto dopo le proteste ha cominciato a rivedere il suo approccio alla pandemia.
– Leggi anche: La Cina sta abbandonando la strategia “zero COVID”
Ciascun cittadino cinese è ancora dotato di un codice sanitario che riporta – secondo criteri spesso difficili da discernere – il rischio di contagio con i colori del semaforo: verde, giallo e rosso. È ancora necessario disporre di un codice verde per accedere a scuole, ospedali e case di cura (anche se alcune restrizioni nell’ultima settimana sono state allentate). Questo codice inoltre è stato usato per ragioni che non riguardavano la prevenzione sanitaria: a Zhengzhou lo scorso luglio, mentre si stava svolgendo una manifestazione di risparmiatori contro il congelamento dei propri conti da parte di alcune banche locali, i codici sanitari di molti tra questi sono immediatamente diventati rossi.
Resta problematica, oltre che molto controversa, l’autorità di cui sono stati investiti i comitati di quartiere del Partito comunista, cioè strutture di volontari che in tempi normali si dedicherebbero a tenere ordine nella propria area di residenza, in accordo con le strutture del Partito. Gran parte del lavoro di attuazione della strategia “zero Covid” nelle città cinesi ricade proprio sulle spalle di questi volontari di partito presenti sul territorio.
Secondo quanto affermato da esperti legali, però, ciò avviene al di fuori di quanto stabilito dalla legge, che non concederebbe a questi comitati locali l’autorizzazione a chiudere in casa i residenti del proprio quartiere e gestire i lockdown. Non a caso, questi volontari (anche noti come dàbái, cioè “grandi bianchi” per via del colore delle tute) sono spesso oggetto dello sfogo di rabbia e frustrazione da parte della cittadinanza.
Il ruolo della censura
L’aspetto però più noto della repressione cinese è senza dubbio la censura. Il Partito comunista è riuscito a mettere quasi completamente sotto controllo internet, stabilendo limiti e divieti precisi a ciò che può circolare online. Questo sistema si basa su una combinazione di algoritmi e personale specializzato, il cui obiettivo ultimo non è tanto di impedire o prevenire la pubblicazione online di qualsiasi contenuto ritenuto una critica verso il partito: ciò che più importa per la censura è evitare la diffusione di certe informazioni. È un obiettivo realizzato non solo eliminando determinate pubblicazioni online, ma anche rendendo certi contenuti visibili solo agli autori o non rintracciabili tramite i motori di ricerca.
I software di intelligenza artificiale utilizzati con questo scopo possono essere molto efficienti nel riconoscere e segnalare alcuni oggetti ben determinati (come ad esempio immagini di candele o di carri armati, in ricordo della strage di piazza Tiananmen), ma in generale le capacità di riconoscimento sono ancora limitate. Oltretutto gli utenti cinesi hanno sviluppato una particolare sensibilità nell’ingannare e aggirare i meccanismi della censura.
Per questo motivo l’impiego di personale apposito è ancora necessario per il controllo dei contenuti online, una funzione che è in gran parte svolta dalle unità di moderazione dei contenuti delle piattaforme digitali cinesi. Gran parte degli interventi non sono compiuti da funzionari statali ma dalle società private che gestiscono i social media cinesi, che operano pur sempre sotto l’autorità dell’agenzia cinese per l’amministrazione dello spazio digitale.
Eppure la quantità di video e foto provenienti dalle manifestazioni in Cina degli ultimi giorni dimostrano che anche il complesso sistema di censura può essere aggirato. La quantità di utenti che hanno condiviso online le immagini della protesta è stata sufficiente a mettere in crisi la censura.