Perché c’è meno nebbia di una volta nella Pianura Padana
Forse c'entra l'aumento delle temperature, ma soprattutto la diminuzione di alcune sostanze inquinanti nell'aria
Nella Pianura Padana, sia nelle città come Milano che nelle campagne, c’è meno nebbia di una volta. Diversi studi realizzati negli anni Duemila hanno confermato che in Europa in generale, e nel Nord Italia in particolare, sono diminuiti i giorni di nebbia annuali rispetto agli anni Ottanta e ai decenni precedenti. È una buona notizia, visto che la diminuzione della nebbia è dovuta anche a un miglioramento della qualità dell’aria, a una sua maggiore salubrità.
Uno studio pubblicato nel 2009 sull’autorevole rivista Nature Geoscience ha stimato che la frequenza di condizioni di bassa visibilità dovute a nebbia e foschia si è dimezzata in trent’anni, tra l’inizio degli anni Ottanta e gli anni Duemila.
Un altro studio, realizzato dall’Istituto di scienza dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (ISAC-CNR) di Bologna e pubblicato nel 2014, aveva raccolto alcune serie di dati che mostravano la diminuzione della nebbia nella Pianura Padana. Diceva che nel periodo tra il 1991 e il 2000 a Milano, in città, i giorni di nebbia in cui non si vedevano oggetti distanti più di un chilometro erano diminuiti del 73 per cento rispetto al periodo 1960-1969. Nella zona dell’aeroporto di Bologna tra il 2004 e il 2013 le ore di nebbia invernali erano diminuite del 47 per cento rispetto al periodo 1984-1994. Un calo analogo era stato registrato tra la fine degli anni Ottanta e Novanta anche a San Pietro Capofiume, una località di campagna bolognese, vicina al fiume Reno, dove ha sede il centro operativo del Servizio Idrometeorologico dell’ARPA Emilia-Romagna.
Negli anni sono state registrate riduzioni maggiori nelle città rispetto alle campagne, per via dei meccanismi che portano alla formazione della nebbia.
«La nebbia è a tutti gli effetti una nuvola, una nuvola a contatto con il suolo», spiega il ricercatore dell’ISAC Sandro Fuzzi, tra gli autori dello studio del 2014 e uno degli scienziati che hanno lavorato agli ultimi tre rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) delle Nazioni Unite. La nebbia è quindi costituita da particelle di acqua liquida sospese nell’atmosfera, prodotte dalla condensazione di parte del vapore acqueo presente nell’aria. Perché ci sia, quindi, ci deve essere prima di tutto un certo grado di umidità, ma anche altre condizioni.
Una riguarda la temperatura, o meglio la differenza di temperatura tra il suolo e l’aria dell’atmosfera: la condensazione dell’acqua avviene quando il vapore acqueo viene raffreddato. La nebbia di San Francisco, ad esempio, si forma quando l’aria marina si diffonde sulla terraferma, che è più fredda della superficie dell’oceano. La nebbia della Pianura Padana invece si forma d’inverno, quando c’è alta pressione e quindi bel tempo: «Il suolo si raffredda molto più velocemente dell’atmosfera, e così nell’aria, che è umida, si raggiunge il punto di rugiada e si formano le goccioline della nebbia».
Nelle città di oggi c’è meno nebbia rispetto alle campagne e ci sono stati cali maggiori dei giorni di scarsa visibilità rispetto al passato. Il motivo dipende dalla presenza dell’asfalto, che trattiene di più il calore del suolo, e dalle varie fonti di calore presenti in città come gli impianti di riscaldamento: questi due elementi hanno fatto sì che la differenza di temperatura tra aria e suolo sia meno pronunciata, così come il tasso di umidità. Dati sulla nebbia a Milano sono stati raccolti anche nella zona dell’aeroporto di Linate, a 7 chilometri dal centro, dunque in una zona meno cementificata: lì la diminuzione dei giorni di nebbia con visibilità inferiore al chilometro nel periodo 1991-2000 rispetto al periodo 1960-1969 è stata “solo” del 52 per cento, contro il 73 per cento delle zone più urbanizzate.
Perché si formi la nebbia comunque deve verificarsi una seconda condizione, che vale anche per le nuvole in cielo: la presenza di particelle solide attorno alle quali il vapore acqueo può condensare. Queste particelle possono avere origini naturali, come nel caso di pollini e polvere, ma anche umane: le industrie, i trasporti alimentati con i combustibili fossili e gli impianti di riscaldamento a gas generano, oltre all’anidride carbonica, anche le cosiddette “polveri sottili”, che sono peraltro una delle forme di inquinamento dell’aria che possono avere ripercussioni sulla salute umana.
«La Pianura Padana ha un’orografia molto particolare», continua Fuzzi, «è circondata da tre parti da monti, le Alpi e gli Appennini, con il mare Adriatico come unico punto d’apertura. Quindi si crea una stagnazione dell’aria che d’inverno, nelle condizioni di bel tempo, favorisce la formazione della nebbia durante la notte o anche durante il giorno». È peraltro la regione d’Italia in cui sono presenti alcune delle città più grandi del paese ed è densamente industrializzata: per questo vengono emesse grandi quantità di sostanze inquinanti che a causa della mancanza di vento ristagnano sulla pianura.
La diminuzione della nebbia rispetto ai decenni passati è un fenomeno ancora in corso di studio, anche all’ISAC, ma c’entra probabilmente il cambiamento climatico e sicuramente la diminuzione dell’inquinamento dell’aria, almeno per quanto riguarda certe sostanze.
L’aumento delle temperature medie può avere avuto un ruolo perché «riduce l’umidità relativa nell’atmosfera, uno dei parametri necessari alla formazione della nebbia». Ma i dati che abbiamo a disposizione dicono che negli ultimi vent’anni la frequenza dei giorni di nebbia ha smesso di diminuire, a fronte di un riscaldamento sempre più evidente, quindi c’è almeno un altro fattore da considerare.
«La quantità di inquinamento dell’aria in Europa, e nella Pianura Padana in particolare, è calato in modo sostanziale dagli anni Sessanta e Settanta. Ancora oggi c’è inquinamento ma dal 1990 a 2010 l’anidride solforosa [o diossido di zolfo] nell’aria è diminuita del 90 per cento. Nello stesso periodo gli ossidi di azoto sono calati meno, ma comunque in modo significativo, del 44 per cento, grazie all’introduzione delle marmitte catalitiche. E così si è ridotto anche il particolato emesso nell’atmosfera, dato che si forma principalmente a causa di reazioni chimiche tra gli inquinanti». E meno particolato significa anche meno nebbia.
Bisogna quindi immaginare che prima della rivoluzione industriale i giorni di nebbia nella Pianura Padana fossero meno frequenti rispetto ai decenni compresi tra il Dopoguerra e gli anni Ottanta? Le ore di nebbia si misurano valutando la visibilità, cosa che un tempo si faceva usando dei paletti a distanze regolari e osservando quali fossero visibili da una data posizione e che oggi si fa con strumenti a laser chiamati trasmissometri, e andando indietro nel tempo non si hanno dati del genere. Le uniche informazioni sulla nebbia nell’Ottocento e nei secoli precedenti sono contenute all’interno di cronache e altri documenti che non furono scritti seguendo criteri scientifici. «Ma l’idea che nel tempo antico l’aria fosse più pulita è una concezione errata», ci tiene a dire Fuzzi, «perché per riscaldarsi e per produrre energia nell’Ottocento si usavano il carbone e la legna, che producono molto inquinamento».
All’epoca probabilmente le goccioline d’acqua che compongono la nebbia si creavano attorno a maggiori quantità di sostanze inquinanti, dannose per la salute. Per questo quando si parla della diminuzione recente della nebbia bisogna tenere conto della correlazione positiva con il miglioramento della qualità dell’aria. Un altro grosso vantaggio, ricorda Fuzzi, è il contributo alla diminuzione degli incidenti stradali, perché sono diminuite le occasioni in cui la visibilità sulle strade è scarsa.
C’è però anche un lato negativo legato alla diminuzione della nebbia: «La presenza di nebbia evita che si formi il ghiaccio, quindi le gelate. Per l’agricoltura è molto importante, per questo nel caso della Pianura Padana si possono valutare vantaggi e svantaggi della riduzione della nebbia».
– Leggi anche: I danni da gelate sono peraltro legati al cambiamento climatico