Il problema col Nobel per la Pace
«C’è una nuova macchia sul libro d’onore del premio. Si chiama Mirab Abaya: è il nome di una località dell’Etiopia vicino a cui sorge un campo di prigionia per soldati tigrini. Secondo un’inchiesta del Washington Post, i militari etiopi nel novembre 2021 hanno massacrato a freddo almeno 83 ex commilitoni che avevano come unica colpa la provenienza dalla regione del Tigray»
C’è una nuova macchia sul libro d’onore del premio Nobel per la Pace. Si chiama Mirab Abaya: è il nome di una località dell’Etiopia vicino a cui sorge un campo di prigionia per soldati tigrini. Qui, secondo un’inchiesta del Washington Post, i militari etiopi nel novembre 2021 hanno massacrato a freddo almeno 83 ex commilitoni che avevano come unica colpa la provenienza dalla regione del Tigray. In altre parole, i soldati di Abiy Ahmed Ali, premiato con il Nobel nel 2019, si sono lasciati andare ad atrocità contro gli ex compagni d’arme – a fianco dei quali avevano portato il Casco blu nelle missioni di peacekeeping dell’ONU o la divisa dell’Unione africana – solo perché provenivano dalla regione ribelle. Per rappresaglia etnica o per paura dunque, e tutto questo nonostante i prigionieri non avessero mai rivolto le armi contro le truppe governative.
“Non ci sono prove”, scrive il Washington Post, che le uccisioni fossero parte di una manovra coordinata, ma ci sono evidenze di impunità diffusa. Si parla di truppe regolari, inquadrate nell’esercito di Abiy Ahmed, non di miliziani incontrollabili che abbiano agito sotto l’effetto di droga. Non solo: l’episodio sarebbe solo uno dei tanti le cui denunce cominciano a emergere ora. Insomma, la catena della gerarchia porta sempre al vertice, quello stesso che sulla guerra civile ha imposto una pesante censura, impedendo l’accesso alla stampa internazionale.
Gli abusi sono un peso sulle spalle del premier etiopico, ma allo stesso tempo devono essere un pensiero inquietante per la commissione norvegese che ha scritto il nome di Abiy a fianco di quelli di grandi della Storia come Albert Schweitzer, Martin Luther King, Willy Brandt, madre Teresa di Calcutta. Ritorna inevitabile la riflessione su quella che qualcuno ha chiamato “la maledizione del Nobel”, cioè l’idea, imbarazzante, che chi viene premiato “troppo presto” spesso non riesca a tener fede alle promesse implicite del proprio ruolo.
È successo ad Aung San Suu Kyi, nel 1990 vincitrice delle elezioni in Myanmar – l’ex Birmania – poi deposta da un golpe militare e premiata con il Nobel mentre era agli arresti domiciliari. Tornata al potere con la carica di Consigliere di Stato (l’equivalente del Primo ministro), non spese una parola per fermare il genocidio della minoranza musulmana dei Rohingya, difendendo fino all’ultimo le forze armate birmane, anche di fronte al Tribunale penale internazionale.
È successo a Barack Obama, insediatosi come presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 2009 e premiato appena otto mesi più tardi, quasi “sulla fiducia”, per gli sforzi fatti nella direzione del disarmo nucleare con la Russia. Il feroce commentatore Christopher Hitchens sottolineò che era “come dare un Oscar a qualcuno, nella speranza che fosse di stimolo a fare un film decente”. Persino il direttore dell’istituto norvegese del Nobel ammise che l’intenzione di “dare una mano” al presidente non aveva avuto gli effetti sperati. Altre voci critiche si levarono per l’utilizzo diffuso dei droni armati in operazioni di omicidi mirati durante l’amministrazione Obama.
Ma la storia dei premi è piena di polemiche, dal riconoscimento a Kissinger a quello dato ad Arafat. Nei fatti i riconoscimenti assegnati prematuramente, più ancora che la fretta del Comitato, riflettono i limiti del meccanismo a scadenza annuale. Com’è ovvio, non ci sono certezze che ogni anno sia possibile individuare figure di peso e statura adeguati. Il Comitato, per così dire, “si accontenta”. E i suoi tempi sono diversi dal tempo della Storia, che permette verifiche impossibili ai giurati di Oslo.
Per questo, più ancora che criticare scelte almeno in parte avventate, si potrebbe ragionare sugli errori della percezione globale: alla fine il Nobel è il riconoscimento di un’istituzione privata, frutto di scelte sicuramente opinabili e che sarebbe sbagliato considerare universali.
È vero: negli anni il Nobel ha acquisito un valore simbolico immenso, e quello per la Pace più degli altri. Dopo tutto, i riconoscimenti “scientifici” sembrano comprensibili più agli specialisti che al grande pubblico, mentre il Nobel per la Letteratura spesso finisce criticato per le dinamiche non del tutto lineari che lo governano, dalle logiche di “turnazione geografica” al gusto anticonformista di individuare di tanto in tanto autori semisconosciuti se non persino oscuri per gran parte della popolazione mondiale. Il premio per la Pace, invece, ha caratteristiche uniche: deve essere trasparente, di immediata comprensione per chiunque segua almeno un poco i fatti del mondo.
Non si può rimproverare ai giurati l’incapacità di prevedere che cosa faranno i loro premiati di lì a poco. Forse proprio per questo negli anni passati sono state frequenti le scelte più “giudiziose”, quelle di soggetti collettivi sulla cui condotta non c’erano dubbi, dalla Croce Rossa al World Food Programme, dall’Alto commissariato ONU per i rifugiati alla Campagna contro le mine antipersona, o quelle di personaggi “minori”, protagonisti di opere meritorie ma non dotati di potere statuale e quindi difficilmente oggetto di tentazioni maligne.
Se invece nel palcoscenico della grande politica internazionale compare qualche personaggio mosso – almeno in apparenza – da volontà di pace, è comprensibile che a Oslo si sviluppi la voglia di incoraggiarlo. Quando poi le aspettative non sono soddisfatte, quando cioè alla fine i cosiddetti “Grandi della Terra” deludono le speranze di chi aspetta la pace o richiede il rispetto dei diritti umani, forse non è tutta colpa del Comitato. Un filo di responsabilità ce l’ha chi, come noi tutti, si è fatto tentare dalle illusioni sulla natura umana. Se ci facciamo abbagliare dallo splendore di figure “larger than life”, rischiamo di dimenticarci che i sogni diventano realtà solo per chi si rimbocca le maniche, spesso lontano dai premi.