Due punti di vista diversi sul consenso in un’indagine per stupro a Milano
Quello della procura e quello del gip, che non sono d'accordo su come interpretare il mancato dissenso esplicito della vittima
In una vicenda giudiziaria in corso a Milano si stanno contrapponendo due diversi punti di vista sull’interpretazione giuridica di consenso nei casi di violenza sessuale.
La procura aveva chiesto l’archiviazione di un’indagine per violenza sessuale perché nel caso in questione la vittima dichiarata non aveva espresso un dissenso esplicito: «l’indagato potrebbe avere “frainteso” il silenzio della ragazza», dicono le motivazioni riportate dall’Ansa. Il 21 novembre però il giudice per le indagini preliminari (gip) aveva respinto la richiesta e ordinato al pubblico ministero (pm) di formulare lo stesso l’imputazione perché secondo diverse sentenze della Corte di Cassazione si può parlare di violenza sessuale se manca un consenso inequivocabile, che sia «espresso o tacito». E in questo caso, secondo l’indagine, la vittima «non ha mai espresso il consenso al compimento degli atti sessuali». Il gip, dunque, ha di fatto accolto un principio già introdotto dai codici penali di diversi altri paesi europei e non solo: ciò che va messo al centro non è la dimostrazione del dissenso, ma la dimostrazione di consenso.
I fatti oggetto dell’indagine di Milano risalgono al maggio del 2019 e riguardano un uomo che allora aveva 32 anni, l’indagato, e la donna che lo aveva denunciato un mese dopo, 27enne all’epoca. Quest’ultima si è suicidata lo scorso marzo; i suoi genitori si erano opposti all’archiviazione.
Secondo il racconto della donna fatto durante un incidente probatorio (il procedimento con cui si anticipa e si acquisisce la formazione di una prova emersa durante le indagini prima del processo vero e proprio), la violenza è avvenuta nella notte tra il 12 e il 13 maggio 2019. La vittima dichiarata aveva passato la serata con un’altra donna, con cui aveva una relazione sentimentale, nella zona dei Navigli. Dopo un litigio era rimasta sola e non era riuscita a trovare un mezzo per rientrare a casa. Poco dopo le 3, mentre era seduta su un marciapiede in piazza Abbiategrasso, era stata avvicinata da un uomo sconosciuto che le aveva proposto di portarla a casa con il suo furgoncino. «Sembrava una brava persona», dice la testimonianza resa in occasione della denuncia citata dalla Stampa: «Solamente quando scese per prendere sigarette e birra mi accorsi che non stava andando dalla parte giusta. Mi immobilizzai e non riuscii a parlare né a muovermi».
L’uomo, secondo il racconto di lei, l’ha poi portata nel suo appartamento, tirandola per un braccio, e lì l’ha stuprata. Durante l’incidente probatorio la donna ha motivato il suo silenzio dicendo che era «in stato di choc» e che aveva «paura».
Nel diritto penale che riguarda i reati sessuali esistono tre diversi orientamenti per tenere conto del consenso: il modello consensuale puro, quello consensuale limitato e quello consensuale vincolato. Il primo dà rilevanza massima al consenso e prevede che sia stato commesso un reato quando in qualsiasi tipo di relazione sessuale manca il consenso esplicito della persona offesa (è su questo modello che si basa l’ultima legge approvata in Spagna sullo stupro, considerata molto avanzata nonostante ora stia dando problemi di altro tipo).
Nel secondo modello viene data importanza al dissenso piuttosto che al consenso: perché si possa parlare di violenza deve essere stata manifestata una chiara volontà contraria.
Infine nel modello consensuale vincolato non si attribuisce al consenso un ruolo centrale, ma si parte dal presupposto che le aggressioni sessuali, per essere perseguite e punite, debbano avere certe caratteristiche: violenza, minaccia, costrizione.
Il problema principale del terzo modello è che alcune aggressioni sessuali non siano ritenute tali dato che non si sono verificate con modalità violente o minacciose e che non venga di conseguenza offerta una protezione adeguata a quelle donne che non sono in grado di esprimere chiaramente la loro mancanza di consenso (molte donne stuprate hanno infatti testimoniato di aver scelto di non reagire alla violenza per paura e per paura che la loro resistenza potesse peggiorare la situazione).
In Italia si segue quest’ultimo modello: la condotta tipica di violenza sessuale si verifica, secondo quanto scritto all’articolo 609 bis del codice penale, quando un soggetto «con violenza o minaccia o mediante l’abuso di autorità» ne costringa un altro «a compiere o a subire atti sessuali». Il presupposto della sussistenza dei reati sessuali è dunque la costrizione, cioè il contrasto tra la volontà di chi commette il reato e di chi lo subisce.
Nel tempo la giurisprudenza, cioè le valutazioni dei giudici tra cui diverse sentenze della Corte di Cassazione, si è però avvicinata al modello consensualistico che tende a tenere conto della condotta positiva e non negativa.
Secondo la procura di Milano il caso del 2019 andava archiviato perché la vittima non aveva espresso un dissenso esplicito e l’indagato poteva aver “frainteso” il suo silenzio, anche a causa, come da lui dichiarato, dell’assunzione di alcol e della stanchezza. Secondo il gip, tuttavia, parlare della possibilità di fraintendimento significa «sostenere la necessità della manifestazione del dissenso che, come ribadito dalla Cassazione, non è affatto richiesto dalla fattispecie» di reato. In altre parole, non si può ritenere che il silenzio sia una manifestazione di consenso inequivocabile. Sempre per il gip, sulla base dell’indagine, l’indagato «aveva piena consapevolezza che un consenso non era stato affatto manifestato».
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Dove chiedere aiuto
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