La storia della distruzione della moschea di Ayodhya
Il 6 dicembre del 1992 fu smantellata in poche ore da 150 mila fedeli induisti, e fu uno dei casi più eccezionali della secolare disputa tra musulmani e induisti
Il 6 dicembre del 2022 in India ricorre il trentesimo anniversario di uno degli episodi più notevoli della storica contesa tra induisti e musulmani nel paese: la distruzione della moschea di Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, nel nord del paese. Ayodhya è una città dove la disputa tra musulmani e induisti ha radici antichissime, e ancora oggi è al centro di scontri molto duri, alimentati dall’intransigenza del primo ministro indiano Narendra Modi, che sostiene attivamente la causa del nazionalismo indù.
La moschea della città di Ayodhya, nota come moschea di Babri o Babri Masjid (Masjid è sinonimo di “moschea”), risaliva al Sedicesimo secolo. Fu distrutta il 6 dicembre del 1992 da 150.000 volontari induisti, radunatisi lì per una manifestazione che avrebbe dovuto essere simbolica e pacifica. Era una domenica: nel giro di poche ore la moschea costruita nel 1528 non c’era più, distrutta a mani nude o con attrezzi trovati sul posto.
Oggi ad Ayodhya al posto della moschea è in costruzione un tempio induista, dopo una lunga battaglia legale che ha portato a due sentenze della Corte Suprema indiana, non poco influenzate dal clima politico attuale di forte nazionalismo indù. La distruzione di Babri Masjid, a lungo considerata un grave episodio della storia del paese, ormai è sempre più spesso rivendicata e difesa dalla maggioranza indù, in un clima crescente di contrapposizione con la minoranza musulmana nel paese.
Molte delle violenze ricorrenti fra fedeli delle due religioni in India hanno usato come pretesto la questione di Ayodhya, tanto che anche la ricorrenza di oggi è considerata pericolosa.
La disputa di Ayodhya ha origini antiche, con i primi scontri fra musulmani e induisti testimoniati nel 1855, ma prende forza dalla metà del secolo scorso, quando si fanno sempre più insistenti le richieste degli indù di poter erigere un tempio là dove si trovava la moschea del 16° secolo.
Alla base delle rivendicazioni c’era il fatto che in quel luogo sarebbe avvenuta la nascita del principe Rama, una delle manifestazioni di Vishnu. Secondo la versione induista la moschea sarebbe stata costruita proprio dove prima esisteva un tempio induista, in seguito alla vittoria dell’imperatore musulmano Babur sul sovrano induista del tempo. I musulmani negano questa ricostruzione, sostenendo che nessun tempio fosse presente: studi dei documenti e di archeologi indipendenti non hanno mai trovato testimonianze sicure che supportassero le tesi induiste.
A partire dagli anni Ottanta, soprattutto sulla spinta del Bharatiya Janata Party, che oggi è maggioritario ed esprime il primo ministro Narendra Modi, le proteste induiste si intensificarono e la localizzazione della nascita di Rama nel luogo esatto dove sorge la moschea Babri divenne una tesi sempre più diffusa e consolidata. Il movimento per la creazione di un tempio per Rama si intensificò fino alla manifestazione del 6 dicembre 1992, quando fu autorizzata dal governo locale la deposizione di una simbolica prima pietra di un tempio induista.
I maggiori esponenti del BJP rassicurarono la Corte Suprema indiana che la moschea non sarebbe stata coinvolta, ma poi si resero protagonisti di discorsi molto animati e battaglieri. I primi “volontari induisti” (kar sevak) tentarono di rompere il cordone della polizia a protezione dell’edificio intorno a mezzogiorno: le forze dell’ordine furono presto sopraffatte e bersagliate da lanci di pietre. Nelle prime ore del pomeriggio la folla salì sulle cupole e sulle strutture della moschea, procedendo in poche ore alla sua completa demolizione con strumenti di fortuna.
L’ondata di violenza non si limitò alla moschea: si stima che circa 2.000 persone furono uccise negli scontri che seguirono fra indù e musulmani. Nel giorno della distruzione della moschea molti quartieri musulmani furono attaccati nelle città di Mumbai (allora Bombay), Bhopal, Nuova Delhi e Hyderabad, oltre che in centri minori. Nei giorni successivi in Pakistan e Bangladesh la popolazione indù fu attaccata dai musulmani, e alcuni templi vennero rasi al suolo o danneggiati. Nel marzo del 1993 una serie di bombe esplose a Mumbai, causando 257 vittime: fu un attacco terroristico per vendicare la distruzione di Babri Masjid. Un mese dopo l’intera area del sito fu acquistata dal governo locale dell’Uttar Pradesh.
Nel corso dei decenni seguenti Ayodhya è stata al centro di lotte politiche, discussioni archeologiche, saltuari attentati e ricorrenti violenze. La battaglia legale ha portato a due diverse sentenze della Corte Suprema indiana: una prima del 2010 definiva una spartizione dell’area (un terzo per il culto musulmano, due terzi per quello induista), la più recente del 2019 ha invece stabilito che sui terreni contestati dovesse sorgere un tempio induista, la cui costruzione con la posa della prima pietra da parte del premier Modi è iniziata nel 2020.
La Corte, pur definendo «atto illegale» la distruzione della moschea, ha anche stabilito che ci fossero elementi sufficienti per ritenere che Rama fosse effettivamente nato proprio dove sorgeva la moschea. La Corte ha motivato la sua decisione, presa all’unanimità dai cinque giudici che ne fanno parte, citando un rapporto di un importante ente indiano di archeologia secondo il quale sotto la moschea costruita nel 16° secolo sono stati trovati i resti di un tempio indù (le conclusioni sono però contestate da altri studi).
La Corte individuò anche un’area di ventimila metri quadrati di terreno su cui sarebbe potuta sorgere una nuova moschea di Ayodhya: è in fase di costruzione con un progetto molto ampio, che comprende anche un ospedale. La sentenza ha chiuso forse definitivamente la questione a livello legale, che resta però un motivo di tensioni e di rivendicazioni in tutto il subcontinente indiano, dove la convivenza pacifica fra indù e musulmani è sempre più complessa, anche per una radicalizzazione dello scontro politico.
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