Il grosso problema delle cause per diffamazione contro i giornalisti
È facile presentarle ma è molto difficile e costoso difendersi: molti ritengono che abbiano come obiettivo principale l'intimidazione
di Riccardo Congiu
Nelle ultime settimane in Italia e su diversi media internazionali si è parlato molto di un processo da poco iniziato contro lo scrittore Roberto Saviano, accusato di diffamazione in seguito a una querela presentata nel 2020 da Giorgia Meloni, attuale presidente del Consiglio. Saviano aveva definito «bastardi» Meloni e il leader della Lega Matteo Salvini durante la trasmissione televisiva di La7 Piazzapulita, per il modo in cui avevano condotto campagne contro le ong che soccorrono le persone migranti in mare.
Negli ultimi giorni ci sono state molte prese di posizione in difesa di Saviano sui giornali e da parte di associazioni per la libertà di stampa e di espressione. Sono state tutte molto critiche nei confronti di Meloni (e di Salvini, che nel processo si è costituito parte civile) e sostanzialmente sostengono che la presidente del Consiglio abbia fatto un uso intimidatorio dello strumento legale della querela, per disincentivare le critiche di Saviano e di altri nei suoi confronti. Il Guardian ha parlato di «oltraggiosa prepotenza» nei confronti di Saviano e di come le leggi italiane sulla diffamazione vengano usate «per intimidire e mettere a tacere le voci scomode».
Il tipo di azione legale di cui parla il Guardian non è considerato un problema solo in Italia ed è chiamato internazionalmente con un nome specifico: “Slapp”, acronimo di Strategic lawsuit against public participation, cioè “causa strategica contro la partecipazione pubblica”.
Le Slapp sono cause legali in cui è palese una grossa sproporzione di potere tra la persona o organizzazione che fa causa e chi viene accusato: il loro obiettivo non è necessariamente vincere il processo, ma comunque intimidire – anche soltanto attraverso i molti oneri ed effetti dello svolgimento di un processo – la persona accusata e scoraggiarne il lavoro, togliendole tempo, soldi e iniziativa. Approfittando anche dello scarso senso comune della presunzione di innocenza, che fa sì che chiunque si trovi sotto accusa venga messo in una posizione di debolezza e rischio.
La maggior parte delle volte l’accusa è di diffamazione, ed è rivolta quasi sempre a giornalisti, blogger o attivisti che abbiano scritto o detto in pubblico qualcosa che qualcuno sostiene essere diffamante nei suoi confronti. Le conseguenze possono essere sia penali – quando le Slapp vengono presentate in forma di querele – sia civili, quando viene chiesto un risarcimento per danni.
Sia la querela che la causa civile sono piuttosto semplici da presentare: per la prima non ci sono costi iniziali e, volendo, non è nemmeno necessario un avvocato. Quando si parla di Slapp però ci si riferisce quasi sempre a cause intentate da persone o organizzazioni che hanno disponibilità economiche in grado di sostenere agevolmente lunghi processi: è invece assai più dispendioso – in termini di tempo, soldi ed energie mentali – difendersi per un giornalista, blogger o attivista, che in molti casi deve provvedere da solo a pagare un avvocato. Chi presenta le Slapp è generalmente consapevole di questa sproporzione e la sfrutta a suo favore.
In Italia vengono spesso chiamate indistintamente “querele temerarie”, con qualche confusione, sia le cause civili che quelle penali: la “querela” però nel linguaggio giuridico si riferisce solo a cause penali. Vengono definite “temerarie” perché sono affrontate malgrado l’incertezza del risultato finale, ma appunto a scopo di risposta o minaccia nei confronti dell’accusato.
Gli effetti delle Slapp e della loro frequenza sono infatti molto concreti: può capitare che per paura di affrontare processi molto dispendiosi un giornalista eviti di trattare un certo argomento o di parlare di una certa persona. Inoltre non è raro che alcune testate – soprattutto quelle più piccole o appartenenti a cooperative indipendenti – decidano di non occuparsi di alcuni temi per evitare problemi. Questo però influenza molto la qualità del lavoro giornalistico: sia nella libertà dei giornalisti di scegliere gli argomenti di cui occuparsi, sia nel modo in cui ne scrivono.
In teoria si potrebbe sostenere che chi faccia con accuratezza il proprio mestiere non debba correre rischi, ma nella pratica la cospicua quota di imprevedibilità dei giudizi processuali non può rassicurare nessuno che sia querelato per diffamazione.
La giornalista Alice Oliveri dice che lavorando come freelance su temi di cultura e costume le è capitato di proporre articoli ad alcune testate e di aver ricevuto rifiuti con la motivazione esplicita del timore di ricevere querele: non perché i temi trattati fossero ritenuti inadeguati o particolarmente azzardati, ma perché avrebbero riguardato persone comunemente note per aver presentato di frequente querele dopo essere comparse in un articolo.
I giornalisti che lavorano come liberi professionisti, i freelance, sono peraltro quelli più esposti ai rischi di questo genere di azioni legali: non hanno infatti il vincolo di un contratto di lavoro dipendente, e non è consuetudine per le testate sostenerli con un avvocato o nelle spese legali. Alcune lo fanno lo stesso, seguendo una sorta di accordo non scritto ma di buon senso, in base al quale si accetta a priori una corresponsabilità sui contenuti tra chi commissiona un articolo e chi lo redige; altre se ne disinteressano per risparmiare tempo e soldi (anche se l’eventuale responsabilità penale coinvolge sempre anche il direttore della testata su cui l’articolo è stato pubblicato).
In generale i freelance sono anche la categoria di giornalisti pagata peggio e meno tutelata: in Italia guadagnano in media poco più di 15mila euro lordi all’anno, e un singolo articolo può essere pagato anche poche decine di euro. È quindi assai comprensibile che un freelance non voglia rischiare di dover affrontare cause da centinaia o migliaia di euro, magari per un articolo che gli verrebbe pagato 40 euro lordi.
Il giornalista freelance Maurizio Bongioanni, che ha collaborato con diverse importanti testate nazionali, racconta di aver avuto due esperienze opposte all’inizio della sua carriera, una decina di anni fa, quando aveva più o meno 27 anni.
In un caso una testata nazionale con cui collaborava abitualmente gli fece sapere che era stata presentata una querela per un suo articolo sull’identificazione ed espulsione di persone immigrate: l’articolo si limitava a mettere insieme informazioni già uscite altrove, «non avevo fatto alcuna inchiesta particolarmente audace», racconta, ma venne comunque querelato da un ente citato nell’articolo. La testata lo avvisò e gli disse che si sarebbe dovuto trovare un avvocato, facendogli di fatto capire che se la sarebbe dovuta cavare da solo.
Un’altra volta, poco tempo dopo, ricevette una querela per un articolo uscito sull’Espresso, che invece mise subito a disposizione il proprio studio legale. Naturalmente visse le due querele con livelli di preoccupazione molto diversi, anche se alla fine furono entrambe archiviate.
Succede nella maggior parte dei casi, in realtà: un dossier del 2016 curato dall’associazione “Ossigeno per l’informazione”, basato su dati forniti dal ministero della Giustizia, stimò che circa il 70 per cento delle querele per diffamazione viene archiviato su proposta del pubblico ministero, e quindi non arriva nemmeno a processo. Non esistono dati più recenti, ma l’avvocato Andrea Di Pietro che si occupa da molti anni del tema dice che nel 2019 il ministero confermò all’associazione che quella percentuale era ancora valida. Secondo lui e diversi altri esperti del settore con ogni probabilità lo è ancora oggi.
Significa in sostanza che i pubblici ministeri riconoscono l’impianto spesso pretestuoso di queste querele e decidono nella maggior parte dei casi che non ci sia fondamento sufficiente per andare a processo: in molti casi i giornalisti non vengono neanche a sapere di avere querele a loro carico. Tra quelle che procedono, poi, il 92 per cento (sempre secondo i dati del 2016) non arriva a condanna. Il problema è che nel frattempo il giornalista è stato costretto a pagare, nel migliore dei casi, alcune migliaia di euro per nominare un avvocato e farsi difendere nel processo.
E anche quando vince, è rarissimo che gli vengano rimborsate le spese processuali: solitamente infatti il giornalista viene dichiarato non punibile perché gli viene riconosciuto il diritto di cronaca e di critica garantito dalla Costituzione, quindi perché quello che ha scritto “non costituisce reato”. Per il rimborso delle spese però bisognerebbe dimostrare che “il fatto non sussiste”, secondo il linguaggio giuridico, cioè che non sia avvenuta alcuna diffamazione: quest’ultima è però un concetto molto soggettivo, e per un giudice è difficile stabilire che una persona non si sia sentita realmente diffamata, quando ha presentato la querela.
Il più delle volte, quindi, il giornalista viene assolto ma non ha diritto a rimborsi: «Ho fatto circa 250 processi per diffamazione», dice Di Pietro, «e sarà successo due o tre volte» che fosse stabilito un rimborso.
Nei casi in cui la querela viene archiviata invece può succedere che chi l’ha presentata faccia appello contro l’archiviazione, imponendo che si tenga almeno un’udienza per stabilire se quell’appello sarà accolto o meno: è successo a Luigi Mastrodonato, giornalista freelance con una certa esperienza, che lavora da anni con alcune delle più importanti riviste italiane. Mastrodonato aveva scritto un articolo su episodi di sessismo nello sport, tra i quali ne citava uno già ampiamente raccontato su tutti i giornali nazionali, senza aggiungere nuovi dettagli: ricevette comunque una querela, che fu inizialmente archiviata, prima che il querelante facesse appello contro l’archiviazione costringendolo a un’udienza.
Mastrodonato racconta che, solo per trasmettere gli atti necessari all’udienza e scrivere una memoria difensiva, un avvocato d’ufficio gli chiese tra i 500 e i 600 euro: più di 10 volte rispetto alla paga che aveva ricevuto per l’articolo. Visse per settimane con forti ansie, prima di scoprire che la testata per cui aveva scritto l’articolo lo avrebbe sostenuto nel processo. «Il problema in questi casi è che la persona che mi aveva querelato aveva un avvocato rinomato e molto in gamba», racconta Mastrodonato, «per quanto tu possa pensare di aver fatto bene il tuo lavoro, avrai sempre il dubbio che qualcosa possa andare storto, e ti verrà voglia di pagare un avvocato all’altezza per non perdere la causa».
Il caso alla fine venne archiviato, ma secondo Mastrodonato la querela ottenne quello che voleva: «Cerco di non farmi influenzare nel mio lavoro, ma quando scrivo ho sempre paura che possa risuccedere», spiega. «La persona che mi aveva accusato e il suo avvocato non si presentarono nemmeno all’udienza, perché tutti sanno che in casi come questo non si va quasi mai a processo: il loro scopo è solo mandare un messaggio intimidatorio», dice.
Molto diversi sono invece i casi in cui al posto di una querela viene presentata in sede civile una richiesta di risarcimento danni, la maggior parte delle volte attribuiti a una presunta diffamazione. Le cause civili sono considerate molto più pericolose delle querele, per diverse ragioni che riguardano soprattutto i procedimenti civile e penale che ne derivano.
Il reato di diffamazione in Italia è previsto dall’articolo 595 del codice penale e riguarda chiunque «comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione». È punito con la reclusione fino a due anni o una multa fino a 2.065 euro (ma entrambe possono essere aumentate se l’offesa è contro «un corpo politico, amministrativo o giudiziario»). Perché si parli di diffamazione è sufficiente che la dichiarazione “diffamante” sia comunicata in presenza di almeno due persone, e non è necessario che sia falsa: si può diffamare anche dicendo una cosa vera.
Quando c’è di mezzo il giornalismo, o comunque altri tipi di pubblicazioni o discorsi di interesse pubblico, il giudice deve quindi stabilire se valga di più la tutela della reputazione e dell’onore di una persona, o il diritto di critica e di cronaca di un’altra: questi due diritti a loro volta presuppongono che ci debba essere un interesse pubblico dell’informazione divulgata e che questa sia esposta con correttezza e pertinenza. Sono tutti concetti molto interpretabili e difficilmente definibili in assoluto.
Scrivere su un giornale che un politico o una politica ha una relazione fuori dal proprio matrimonio probabilmente non è di interesse pubblico, per esempio, ma potrebbe diventarlo se quel politico o politica usasse soldi pubblici per portare a cena la persona con cui ha una relazione; oppure se avesse costruito la sua carriera politica sul principio di sacralità del matrimonio.
Nel caso in cui si tratti di diffamazione “a mezzo stampa” – una definizione che oggi comprende sia i giornali che altri mezzi di comunicazione, per esempio i social network, e che quindi riguarda potenzialmente quasi tutti – la pena può arrivare a tre anni e la multa è di almeno 516 euro.
Fino a poco tempo fa per la diffamazione a mezzo stampa si teneva in considerazione anche l’articolo 13 della legge 47 del 1948 sulla stampa, che determinava obbligatoriamente «la reclusione da uno a sei anni in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato». Questo articolo a giugno dell’anno scorso è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, che ha invece ritenuto compatibile con la Costituzione l’articolo 595 del codice penale (quello descritto sopra), visto che consente al giudice di usare la pena detentiva solo in casi di eccezionale gravità (e in tutti gli altri di limitarsi a una multa).
Per tutte queste ragioni oggi le conseguenze penali che possono derivare da una querela sono tutto sommato limitate: il carcere è ormai quasi del tutto escluso, e la maggior parte dei problemi riguarda le spese legali da affrontare.
In una causa civile invece, con cui il carcere e altre conseguenze penali non hanno niente a che fare, l’eventuale condanna al risarcimento economico dei danni può essere molto elevata, perché dipende dalla richiesta di chi presenta la causa: per questo si sente spesso parlare di richieste di risarcimento per centinaia di migliaia di euro. Anche in questo caso la questione è spesso soggettiva: se si chiede un risarcimento perché si ritiene che un articolo abbia danneggiato la propria reputazione, la richiesta dipenderà dal valore che si dà alla propria reputazione.
Poi possono esserci elementi più o meno oggettivi: si può per esempio sostenere di aver perso il lavoro, per quel danno alla reputazione, e in quel caso si potrà fare una stima un po’ meno soggettiva. Il risultato è però che in molti casi le richieste di risarcimento sono assai arbitrarie, e assai elevate. «Gli avvocati guadagnano di più difendendo nel civile che nel penale», spiega Andrea Di Pietro: «È una questione di tariffario, se c’è una richiesta di risarcimento per 500mila euro, la difesa sarà quasi sempre intorno ai 20mila».
Nel processo civile non c’è la possibilità che la causa venga archiviata subito, come avviene invece per le querele, e quindi si va per forza a processo: la differenza è che se si vince si ha diritto al rimborso delle spese legali. I processi però possono durare anni, e nel frattempo il giornalista in causa eviterà con tutta probabilità di scrivere articoli sulla persona o sull’organizzazione che lo ha accusato. In questo modo le Slapp ottengono ciò che si erano prefissate: intimidire il giornalista, limitarne il lavoro ed evitare possibili critiche.
Un altro punto problematico della questione è che una causa civile si può presentare anche 5 anni dopo l’avvenimento a cui fa riferimento, mentre per la querela il limite è di 90 giorni. Di Pietro racconta di aver visto spesso casi in cui l’intimidazione ai giornalisti si limita a mail che minacciano cause civili, senza poi davvero arrivarci, ma che funzionano come una sorta di ricatto: “ho 5 anni per fare causa in qualsiasi momento, se non smetti di scrivere di quell’argomento”.
«L’autocensura funziona in negativo», commenta Di Pietro, «nessuno sa quante inchieste non vengono fatte per questi motivi». Vale anche per i giornali, che quando hanno processi pendenti devono dichiararlo al revisore dei conti dell’azienda, che li costringe a mettere da parte i fondi eventualmente necessari a risarcire i danni. In condizioni di ristrettezze economiche, alcuni decidono che nel frattempo è meglio evitare altre cause, limitando il proprio lavoro.
In ogni caso presentare una causa civile o penale non è una scelta esclusiva: non sono rari i casi in cui avvengono entrambe le cose contemporaneamente.
Il problema esiste anche in altri paesi, con gradi diversi a seconda delle leggi vigenti, e dopo anni di richieste di intervento lo scorso aprile la Commissione europea ha presentato due misure che sono ancora in attesa di approvazione.
La prima è una proposta legislativa per una direttiva che intervenga proprio sui problemi delle cause civili che esistono anche in Italia: la misura più importante è infatti l’introduzione di un meccanismo che permetta di archiviare rapidamente le cause civili che sono manifestamente infondate, un po’ come avviene in Italia con le querele per diffamazione.
Questo meccanismo, se dovesse essere approvata la direttiva, sarà valido però solo per i casi di rilevanza europea: quindi cause ricevute per articoli o discorsi pubblici che per esempio coinvolgano più di un paese membro dell’Unione. La direttiva prevede anche una protezione per i giornalisti che lavorano nell’Unione europea e che ricevono condanne da tribunali di stati che non ne fanno parte, e penalità per disincentivare il ricorso frequente alle Slapp, tra cui la possibilità per l’accusato che dimostra la sua innocenza di chiedere a sua volta un risarcimento per danni.
L’altra misura proposta dalla Commissione europea è una raccomandazione agli stati membri di attuare misure per favorire questo genere di pratiche anche nelle proprie legislazioni nazionali: la raccomandazione però non ha valore vincolante, e molto dipenderà da se e come sarà recepita in ogni paese.
Nel testo della proposta di raccomandazione la Commissione fa riferimento esplicito all’esempio di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese uccisa 5 anni fa per le sue inchieste sulla corruzione nel governo del suo paese: prima di essere assassinata, Caruana Galizia stava affrontando oltre 40 procedimenti civili e penali per diffamazione.
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Nonostante coinvolgano spesso giornalisti e articoli scritti, le Slapp possono essere presentate per presunte diffamazioni in qualsiasi intervento o dichiarazione. Il giornalista Cesare Giuzzi del Corriere della Sera, che si occupa da tempo di criminalità organizzata, l’anno scorso annunciò che non avrebbe più partecipato a convegni o incontri sul tema, per le troppe cause che subiva ogni volta. «Non posso trascorrere le mie giornate a preparare memorie difensive, ricostruire fatti e documenti e, soprattutto, sperare che alla fine vada tutto bene», scrisse.
Rientra fra questi anche il caso di Sara Manisera, giornalista freelance di 33 anni che nella sua attività ha realizzato, tra molte altre cose, inchieste sulla criminalità organizzata. Lo scorso 8 giugno Manisera era a Cutro, in Calabria, per ricevere un premio giornalistico. Nel discorso della premiazione aveva detto, all’interno di un discorso più ampio, che le infiltrazioni della criminalità organizzata esistevano anche al nord, e aveva citato il comune di Abbiategrasso, in provincia di Milano, tra quelli che le avevano subite.
Poco prima che scadesse il termine di 90 giorni, il comune di Abbiategrasso ha deciso di querelarla per diffamazione aggravata: «Il sindaco non mi ha chiesto né di rettificare, né un confronto pubblico di qualsiasi genere, è arrivata direttamente la querela», dice Manisera. Il sindaco di Abbiategrasso è Cesare Nai, eletto lo scorso giugno in una lista civica e sostenuto dalla destra. L’ordine dei giornalisti ha avuto un incontro con l’amministrazione per cercare una mediazione che convincesse il comune a ritirare la querela: per il momento non ci sono novità.
Per la difesa Manisera si è rivolta all’associazione Ossigeno, che con uno sportello gestito dall’avvocato Di Pietro fornisce assistenza legale gratuita ai giornalisti nelle cause che giudica come Slapp: sia quando hanno a che fare con articoli ma l’editore della testata rifiuta il sostegno legale al giornalista, sia in casi di discorsi pubblici come quello di Manisera.
In sette anni di attività lo sportello di Ossigeno ha aiutato 70 giornalisti, difendendone 41 in giudizio: «Le richieste sono molte di più, ma per i fondi che abbiamo siamo costretti a fare delle scelte», dice Di Pietro, «in ogni caso non restituiscono l’idea di quanto sia ampio il problema». Fino a oggi si sono chiusi 20 dei processi affrontati da Ossigeno, e in 19 di questi i giornalisti coinvolti sono stati prosciolti.
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