I sorprendenti esperimenti sulla settimana corta
Quella in cui si lavora quattro giorni anziché cinque: ci sono ottimi risultati per lavoratori e aziende, da prendere però con le pinze
Il primo esperimento di riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni condotto in Irlanda, e terminato da poco, ha mostrato benefici sia per le aziende che per i lavoratori. È una questione molto ricorrente, anche in Italia, e la riduzione dell’orario di lavoro, chiamata anche “settimana corta”, è stata sperimentata in diversi paesi e aziende. Con la flessibilità sul lavoro ottenuta grazie alla pandemia da coronavirus, la riduzione dell’orario sarebbe un passaggio in più per ottenere un miglior equilibrio tra vita lavorativa e privata.
L’idea è sicuramente innovativa e ci sono molti vantaggi, soprattutto in termini di maggior benessere del lavoratore, ma gli economisti non sono ancora sicuri di quali potrebbero essere gli effetti su produttività e occupazione. E questi esperimenti condotti nelle aziende su scala relativamente ridotta, sebbene siano certamente utili per i diretti interessati e trovino spesso ampia risonanza sui media, non danno però risultati così generalizzabili.
Il progetto pilota irlandese ha coinvolto 33 società e 903 lavoratori, che hanno lavorato quattro giorni invece che cinque con la stessa retribuzione, ed è stato seguito dall’organizzazione non profit 4 Day Week Global, assieme al Boston College, e alle Università di Dublino e di Cambridge.
Nessuna delle 27 aziende che hanno risposto al questionario di fine programma ha dichiarato di voler tornare al vecchio sistema e tutte sono rimaste soddisfatte della produttività e dei risultati dei lavoratori. Il progetto ha mostrato risultati positivi anche sul fronte dei ricavi, che sono aumentati del 38 per cento rispetto all’anno precedente, secondo quanto dichiarato dalle aziende nei questionari.
Anche i dipendenti hanno mostrato soddisfazione: circa il 97 per cento dei 495 dipendenti che hanno risposto al questionario si è detto pienamente soddisfatto del progetto. In generale hanno rilevato livelli più bassi di stress e di affaticamento, oltre che miglioramenti in salute, sia mentale che fisica.
Le altre sperimentazioni
Negli ultimi anni ci sono stati vari esperimenti di questo tipo. In Islanda è stato avviato un test nel 2015 che ha avuto esiti piuttosto promettenti: l’orario di lavoro è stato ridotto per 2.500 lavoratori a 35 o 36 ore settimanali e senza ridurre la retribuzione. Oltre a un maggior benessere dei lavoratori, sembra che i servizi forniti non ne abbiano risentito e che anzi ci sia stata una maggior produttività.
In Belgio a inizio 2022 sono state accolte le richieste dei lavoratori introducendo per gradi la settimana lavorativa corta, ma a parità di ore, che vengono concentrate in quattro giorni invece che in cinque. L’accordo deve avvenire tra dipendente e datore di lavoro che dovrà fornire solide ragioni per poter rifiutare la richiesta. Dopo un periodo di prova di 6 mesi, entrambi decideranno se proseguire o meno.
Sperimentazioni di settimana lavorativa corta sono poi in corso in Spagna, con le ore che passano da 39 a 32, nel Regno Unito con i giorni di lavoro a settimana che passano da 5 a 4 in alcune aziende, e in Giappone dove, nel 2019, Microsoft ha concesso un giorno libero in più a settimana ai propri dipendenti con il risultato che la produttività è aumentata del 40 per cento.
In Italia, al di là di piccole sperimentazioni nelle aziende, non esistono progetti organici di questo tipo. Il Movimento 5 Stelle l’aveva proposto durante l’ultima campagna elettorale, ma non c’è mai stata una discussione condivisa con anche le altre forze politiche.
Quali sono i pro e i contro di ridurre l’orario di lavoro
Gli argomenti a favore di questa misura sono molti. Secondo i promotori, concentrare in meno ore il lavoro garantirebbe un aumento della produttività, quindi nel lungo termine anche delle retribuzioni. Inoltre, sarebbe un passo ulteriore, dopo lo smart working, verso un miglioramento del rapporto tra vita privata e lavoro. E un lavoratore più appagato e meno stressato può essere anche più produttivo.
C’è poi chi sostiene che la riduzione dell’orario di lavoro sarebbe positiva per il raggiungimento della parità di genere, perché aumenterebbe la partecipazione al lavoro delle donne, grazie a una suddivisione più bilanciata della cura della famiglia.
Altro argomento a favore è che ridurre l’orario di lavoro porterebbe a un aumento dell’occupazione. La formula “lavorare meno, lavorare tutti” l’hanno proposta in molti e da tempo, anche se oggi non è questo l’argomento principale dei sostenitori della riduzione dell’orario di lavoro.
Chi invece è contrario alla misura sostiene che concentrare il lavoro in meno ore rischia di sovraccaricare il lavoratore, causando più stress. Se poi la riduzione dell’orario viene introdotta a parità di stipendio, aumenterebbe il costo orario del lavoro, con un conseguente aumento degli oneri per un’impresa che deve assumere più dipendenti per compensare le ore lavorate in meno.
Inoltre, molti fanno riferimento ai lavori su turni, che non possono lavorare per obiettivi e concentrare semplicemente il lavoro in meno ore. Si pensi per esempio agli infermieri e ai commessi: se lavorano di meno devono essere sostituiti, con un aggravio dei costi per le imprese.
In generale, però, si sa ancora troppo poco degli effetti della settimana lavorativa corta per poter provare a darne una valutazione oggettiva. Per ora ci sono solo sperimentazioni e a livello scientifico ed economico non si può dire ancora molto sulla riduzione dell’orario di lavoro, perché non ci sono tanti studi al riguardo e gli esperimenti spesso non sono stati condotti con metodi scientifici.
C’è però una recente ricerca di IRVAPP, l’Istituto per la Ricerca Valutativa sulle Politiche Pubbliche, che ha misurato l’impatto di una misura del genere su occupazione, produttività e salari, analizzando le esperienze su cui ci sono più dati, come quelle degli anni Novanta. Lo studio rileva che ridurre l’orario di lavoro non ha avuto alcun effetto sull’occupazione, quindi né crea né distrugge posti di lavoro. In più, gli effetti positivi in termini di salari e produttività sono talmente piccoli da risultare insignificanti.
Secondo lo studio, quindi, gli effetti da valutare sono per il momento principalmente di carattere qualitativo, e il vantaggio principale è la miglior conciliazione tra vita privata e lavoro.