Da cinque mesi si cerca la verità sulla scomparsa di Daouda Diane
Il mediatore culturale ivoriano era scomparso dopo avere girato due video in un cementificio nel Ragusano: da allora non si sa più nulla
di Isaia Invernizzi
«Tocca uno», dice un bracciante al megafono. «Tocca tutti», rispondono le persone in corteo. Significa che “se tocchi uno di noi, tocchi tutti noi”. Sono le 17 di venerdì 2 dicembre e ad Acate, in provincia di Ragusa, i manifestanti camminano per le strade buie illuminati dai fari delle auto e dai lampeggianti blu della polizia. Da cinque mesi, ogni mese, chiedono “giustizia” per Daouda Diane, un mediatore culturale scomparso il 2 luglio. Nel corteo ci sono le bandiere e gli striscioni dell’USB, un sindacato di base, il più vicino ai braccianti. Ci sono anche esponenti di associazioni e movimenti arrivati dalla vicina Ragusa. Soprattutto, ci sono i colleghi e gli amici di Diane. «Ridatecelo, vivo o morto», gridano.
Diane, 37 anni, originario della Costa d’Avorio, non lavorava alla raccolta della verdura nei campi come migliaia di stranieri qui, nella parte più a sud della Sicilia, tra le province di Ragusa, Siracusa e Agrigento. Era arrivato in Italia su una barca che aveva attraversato il mar Mediterraneo, nel dicembre del 2014. In poco tempo era diventato mediatore culturale nel CAS di Acate, il centro di accoglienza straordinaria. Parlava bene l’italiano, il francese e l’inglese. Non era iscritto all’USB, ma nel sindacato era conosciuto. Per guadagnare qualche euro in più era solito trovare lavori occasionali in aziende o magazzini nei dintorni di Acate. Risparmiava ogni centesimo per portare in Italia la moglie Awa e il figlio di otto anni.
Il 2 luglio, poco prima di scomparire, stava lavorando in un cementificio nella zona artigianale del paese: l’azienda si chiama Sgv Calcestruzzi. È un pezzo importante di questa storia. Dalle 14:38 di quel giorno, l’ora esatta dei suoi ultimi messaggi via WhatsApp, non si sa che fine abbia fatto.
Il 26 luglio la procura di Ragusa, che per una ventina di giorni aveva ipotizzato l’allontanamento volontario, aveva deciso di cambiare direzione alle indagini: «Omicidio volontario e occultamento di cadavere» si legge nell’intestazione del fascicolo, aperto finora senza indagati.
Gli investigatori si sono convinti dopo essere entrati nella stanza di Diane accompagnati dal suo coinquilino, Marcire Doucoure, mediatore come lui. Nel piccolo armadio a due ante hanno trovato una cartella. All’interno c’erano il passaporto, il permesso di soggiorno, le ultime buste paga, estratti conto, soldi in contanti e un biglietto aereo per la Costa d’Avorio. Diane aveva preparato tutto per un breve ritorno a casa fissato il 22 luglio, la data riportata sul biglietto. Non è mai salito su quell’aereo.
Doucoure è una delle ultime persone ad averlo sentito al telefono. Il 2 luglio lo ha aspettato a casa, come ogni giorno, dopo il lavoro. Ha provato a chiamarlo più volte al telefono senza avere risposte. Qualche ora prima, alle 14:38, Diane aveva mandato a Doucoure due video. Nel primo si vedeva l’uomo all’interno di una betoniera: indossava una polo grigia sbottonata per via del caldo torrido, una mascherina chirurgica coperta di polvere e un paio di vecchie cuffie per proteggere l’udito. Reggeva con una mano tremante un martello pneumatico acceso.
Nel secondo video Diane era all’aperto, accanto ad alcuni impianti del cementificio, e diceva in francese: «Questa è una fabbrica di cemento, qui c’è la morte. Quando torniamo nel nostro paese raccontiamo che lavoriamo nella fabbrica di cemento, ma questa è una maledizione. Sono solo bugie, fingiamo di essere felici. C’è un posto dentro questa fabbrica che è molto pericoloso. Se si entra qui si può morire. Stiamo lavorando in luoghi pericolosi. Siamo dentro il pericolo dalla mattina alla sera. Si soffre qui, e poi andiamo al nostro paese a dire che lavoriamo in fabbrica. È una bugia. Ma quale fabbrica? Bugiardi».
Diane era arrivato al cementificio nella mattinata del 2 luglio su un’auto guidata da una persona che talvolta lo accompagnava al lavoro. La Sgv Calcestruzzi non è molto distante da casa sua: si trova sulla circonvallazione di Acate, una strada malmessa che separa il paese dai campi e dagli uliveti. Le betoniere con la livrea gialla fanno avanti e indietro dall’ingresso chiuso con una sbarra. È un’azienda nota in paese: negli ultimi anni ha avuto diverse commesse nei cantieri della zona, i suoi dipendenti sono quasi tutti acatesi e il logo compare tra gli sponsor della festa in piazza in programma a metà dicembre.
La cella telefonica di Acate copre sia il cementificio, sia il centro del paese. Il telefono di Diane era rimasto agganciato a quella cella per due ore dopo l’invio dei video a Doucoure e al fratello, Abou Koné, rimasto in Costa d’Avorio. Koné aveva ricevuto una sua chiamata poco prima di mezzogiorno. La moglie Awa qualche ora prima, in mattinata. Le aveva spiegato i dettagli del rientro a casa, il giorno e l’ora del volo.
Diane aveva un piccolo appartamento in affitto anche a Ragusa, dove aveva registrato la residenza: lo usava quando lavorava in città, ma lì non c’era.
I colleghi dell’associazione Medintegra, per cui lavorava, hanno denunciato la sua scomparsa il 4 luglio. Sapevano che non si sarebbe allontanato senza avvertire. Soprattutto, non se ne sarebbe mai andato senza soldi e senza documenti, il bene più prezioso per un lavoratore straniero. Dal 2 luglio, dicono le forze dell’ordine, non risultano movimenti sul suo conto corrente.
All’ingresso della Sgv Calcestruzzi e nel grande piazzale interno, su alcuni pali, sono installate molte telecamere, come in qualsiasi azienda. Coprono buona parte del perimetro. Ma del 2 luglio non c’è nemmeno un fotogramma. L’intero sistema di videosorveglianza, hanno spiegato i responsabili del cementificio ai carabinieri, non funzionava perché era in manutenzione.
Qualcuno però sembra aver visto qualcosa. Alcuni testimoni, presumibilmente lavoratori, si sono fatti avanti: hanno detto a chi indaga di aver visto Diane allontanarsi a piedi dall’azienda intorno a mezzogiorno. Senza video o altre prove, è una versione impossibile da dimostrare. A cinque mesi dal 2 luglio nessuno dei dipendenti parla della scomparsa di Diane. Alcuni sostengono di non averlo mai visto al lavoro, altri di non conoscerlo.
Gli avvocati della Sgv Calcestruzzi, Luca Pedullà e Mirko La Martina, hanno spiegato più volte ai giornali la versione dell’azienda. Inizialmente sostenevano che Diane non avesse nessun rapporto lavorativo con il cementificio perché la Sgv non stava cercando nuovo personale o aiuti esterni. Poi, di fronte all’evidenza dei video inviati dall’uomo all’amico e ai familiari, hanno detto che Diane aveva chiesto di poter lavorare qualche ora dicendo di essere in gravi difficoltà economiche.
In seguito al rifiuto da parte dei responsabili dell’azienda, si «era offerto di tenere compagnia al personale, rendendosi utile nel limitarsi a spazzare il cortile antistante l’impianto di calcestruzzi». Intervistato dal giornalista Daniele Bonistalli della trasmissione Chi l’ha visto?, l’avvocato Luca Pedullà lo ha definito un «rapporto più di simpatia, ma non certo lavorativo».
In un certo senso gli avvocati fanno intendere che Diane avrebbe eluso la vigilanza dei lavoratori presenti nel cementificio per entrare nella betoniera, non si sa a quale scopo. «Non aveva nessuna autorizzazione», hanno detto. «Perché Daouda è entrato nella parte operativa dell’azienda senza alcuna autorizzazione? Perché fa quel video? Perché imbraccia un arnese da lavoro?». Secondo Pedullà, proprio perché non si può dare per scontata nessuna ipotesi, bisogna allargare l’indagine e cercare in altre zone anziché concentrarsi sull’ultimo luogo in cui Diane è stato visto: «Non si trascurino tutte le altre strade e le altre tracce».
Altre tracce, però, non ci sono. La procura di Ragusa finora si è concentrata sul cementificio soprattutto per via dei video inviati dal lavoratore. Sono stati mandati i cani specializzati nella ricerca di persone morte, o di resti umani, ma soltanto una ventina di giorni dopo la scomparsa. Sono stati utilizzati droni con rilevatore di calore. La betoniera in cui l’uomo aveva fatto il video è stata individuata ed è intervenuto il RIS, il Reparto Investigazioni Scientifiche dei carabinieri: hanno prelevato alcuni campioni di materiale organico non ancora identificato. Si attendono ancora gli esiti degli esami di laboratorio.
I carabinieri hanno fatto rilievi anche in un terreno vicino al cementificio sotto sequestro per reati ambientali. È un’area accessibile a chiunque e utilizzata anche dalla Sgv Calcestruzzi. «Sono state riscontrate solo violazioni ambientali, nient’altro», ha detto l’avvocato La Martina.
Secondo fonti della procura sentite dal Post, tra le ipotesi c’è la possibilità che Diane sia stato vittima di un incidente sul lavoro o si sia sentito male mentre era nel cementificio: secondo alcuni accertamenti, infatti, l’uomo soffriva di diabete. Finora le indagini non hanno dato riscontri.
Un’altra ipotesi valutata da chi indaga è che qualcuno all’interno dell’azienda sia intervenuto dopo aver scoperto Diane mentre stava facendo i due video, ma anche in questo caso finora non è stato possibile provare nulla. Quest’ultima possibilità è meno plausibile: nel video girato all’esterno non si vedono altre persone, inoltre l’uomo parlava in francese e ha mandato i filmati a suoi familiari e conoscenti, senza postarli sui social network come video di denuncia.
Venerdì 15 luglio centinaia di persone hanno partecipato a una manifestazione per sollecitare la procura a indagare e andare oltre l’improbabile ipotesi dell’allontanamento volontario. Ci sono stati alcuni momenti di tensione quando il corteo ha raggiunto la sede del cementificio. Per gli organizzatori non è stato facile contenere la rabbia dei braccianti. «Come può una persona sparire così senza che nessuno dica nulla?», si chiedevano i manifestanti.
La scomparsa di Diane è diventata per certi versi un simbolo dello sfruttamento dei lavoratori e dell’indifferenza delle istituzioni nei confronti di migliaia di persone, molte delle quali irregolari, impiegate come braccianti nella cosiddetta “fascia trasformata”. Si chiama così perché è un’enorme area occupata dalle serre dove vengono coltivati pomodori, melanzane, zucchine e peperoni, verdure acquistate a prezzi irrisori dalle aziende della grande distribuzione e vendute nei supermercati di altre regioni, soprattutto al nord.
Qui uomini e donne, a volte anche i minori, vengono pagati 35 euro al giorno per lavorare 8 o 9 ore in condizioni estreme, esposti a fitofarmaci e diserbanti, e in moltissimi casi senza alcun tipo di contratto. Spesso vivono in baracche costruite vicino alle serre, senza servizi e senza fogne, tra cumuli di rifiuti plastici.
È molto complicato spostarsi, perché i trasporti pubblici sono insufficienti, e per questo i lavoratori non riescono a curarsi quando si fanno male durante il lavoro. Da tre anni e mezzo l’associazione umanitaria Emergency ha aperto un servizio di clinica mobile che si sposta sul territorio per assistere le persone. Senza diritti e con scarsissime opportunità di emancipazione, i braccianti sono facile preda dei “caporali dei servizi”, taglieggiatori che impongono prezzi esorbitanti per gli affitti, gli spostamenti in auto o qualsiasi tipo di assistenza.
Michele Mililli del sindacato di base USB di Ragusa da tempo lavora nella fascia trasformata per sostenere la lotta dei braccianti. Dice che il caso di Diane è emblematico perché mostra i rischi concreti a cui va incontro ogni migrante che lavora in questo territorio: «Non è un caso che Daouda sia scomparso qui. Solo tramite l’organizzazione sindacale è possibile lottare, fare delle domande e chiedere delle risposte alle istituzioni. Altrimenti non c’è nessuno sul territorio che si occuperebbe di loro. Questi lavoratori sono veramente soli».
L’USB è l’unico sindacato davvero attivo nella fascia trasformata. Negli ultimi anni Cgil, Cisl e Uil hanno partecipato a molti incontri organizzati dalla prefettura per cercare di migliorare le condizioni di lavoro: sono stati promossi bandi, anche con un discreto sostegno economico, ma non è cambiato nulla. Anzi, la situazione è perfino peggiorata.
Nel corteo le bandiere dei sindacati confederali non ci sono. Così come non c’è nemmeno un abitante di Acate. Qualcuno si affaccia alla finestra, altri sbirciano dalle fessure delle veneziane. «Acate dove sei?», urlano i manifestanti. In paese si parla pochissimo della scomparsa di Diane e la risposta a un’esplicita domanda non va oltre un’alzata di spalle o un “non so chi sia”. In realtà, dopo le tante manifestazioni organizzate negli ultimi mesi, è difficile che qualcuno non sappia chi sia Daouda Diane. L’omertà nasconde anche una certa rassegnazione. Gli amici e i colleghi di Diane, tuttavia, non si arrendono. Hanno promesso di continuare a scendere in strada ogni mese fino a quando non sarà scoperta la verità.