L’ambizioso piano delle Fiji per spostare i centri abitati più a rischio
L'arcipelago è tra i più vulnerabili agli effetti della crisi climatica, e il governo sta pensando a una soluzione per evitare disastri
Tra i paesi più vulnerabili per via delle conseguenze della crisi climatica c’è l’arcipelago delle Fiji, che è composto da oltre 300 isole e si trova nell’oceano Pacifico sud-occidentale, circa 3mila chilometri a est dell’Australia. A causa degli effetti del riscaldamento globale decine di piccoli centri abitati dell’arcipelago (spesso fatti da case in legno e strutture leggere) rischiano di essere sommersi dall’acqua o di subire danni molto gravi. Per affrontare la questione, il governo sta lavorando da tempo per mettere a punto un piano ambizioso e senza precedenti per spostare i centri abitati considerati più a rischio, non senza complicazioni.
Del piano per definire i criteri e le procedure relative alla pianificazione dei ricollocamenti, chiamato “Standard Operating Procedures for Planned Relocations”, si è occupato in un ampio articolo il Guardian. È un documento su cui negli ultimi quattro anni ha lavorato un gruppo messo in piedi dal governo con la collaborazione di alcune organizzazioni internazionali: è arrivato alle fasi finali delle discussioni e dovrà essere approvato a breve dal parlamento.
L’arcipelago delle Fiji è composto da isole sia pianeggianti sia con cime piuttosto elevate. La maggior parte dei suoi circa 900mila abitanti abita sulle due isole più estese, Viti Levu e Vanua Levu, e due terzi vive entro i 5 chilometri dalle coste, cosa che rende decine di cittadine vulnerabili all’innalzamento del livello dei mari. La frequenza sempre maggiore di eventi meteorologici disastrosi, come i sette cicloni tropicali che hanno colpito l’arcipelago negli ultimi sei anni, mette inoltre a rischio certe aree nell’entroterra. Per questo capire dove e come spostare le case per metterle al sicuro è diventata una questione urgente.
In realtà gli abitanti di sei centri abitati delle Fiji sono già stati costretti a spostarsi altrove per motivi legati al cambiamento climatico: altre 42 comunità sono state segnalate per un potenziale ricollocamento entro i prossimi 10 anni, e non è detto che saranno le sole. Come ha detto Aiyaz Sayed-Khaiyum, il ministro per la Crisi climatica e per l’Economia delle Fiji, tra 50 anni la mappa dell’arcipelago potrebbe essere molto diversa.
Finora alle Fiji la possibilità che un centro abitato venisse spostato dipendeva in buona parte dall’influenza dei suoi leader sugli enti governativi che se ne dovevano occupare, ha spiegato Vani Catanasiga, direttore esecutivo del Fiji Council of Social Services, una ong che collabora con il governo per la realizzazione dei ricollocamenti. In base al nuovo documento, che fu presentato per la prima volta alla fine del 2020 e da allora è stato modificato varie volte, le procedure dovranno però essere standardizzate.
In estrema sintesi il ricollocamento di un centro abitato funziona così. Se c’è il consenso di almeno il 90 per cento degli abitanti, i vari ministeri competenti cominciano a fare una serie di valutazioni sul rischio idrogeologico dell’area, poi stabiliscono le necessità della comunità e valutano possibili alternative allo spostamento, per esempio verificando se sia possibile bonificare le aree circostanti o se le abitazioni si possano rialzare realizzando delle specie di palafitte. In assenza di alternative si opta per il ricollocamento, nella maggior parte dei casi in zone limitrofe.
Uno dei problemi principali del piano è come finanziarlo. Né i centri abitati che avrebbero bisogno di essere spostati né il governo centrale hanno le risorse per poterlo fare. Nel 2019 il governo delle Fiji aveva istituito il primo fondo fiduciario destinato alle persone costrette a migrare a causa della crisi climatica, alimentato in parte con le entrate fiscali: anche le risorse che arrivano dai fondi come questo però non sono sufficienti.
Un altro problema riguarda il luogo in cui spostare le cittadine, visto che secondo la legge la terra che appartiene alle popolazioni autoctone non può essere comprata né venduta, ma può essere data in concessione se si trovano accordi tra i clan e il governo, che però spesso richiedono mesi. Per molti abitanti di Fiji comunque l’aspetto più traumatico rispetto a un potenziale spostamento è quello di doversi allontanare dai cimiteri, e quindi dai corpi dei defunti e dei loro antenati, racconta sempre il Guardian. In certi casi è poi necessario spostare anche scuole, ospedali, servizi vari e infrastrutture, cosa che rende i ricollocamenti operazioni ancora più complicate e onerose.
Secondo Lavetanalagi Seru, uno dei coordinatori della Pacific Islands Climate Action Network, che riunisce varie organizzazioni che si battono per la giustizia climatica nell’area dell’Oceania, il ricollocamento delle comunità «è l’ultima possibilità». Seru, che ha 30 anni ed è delle Fiji, ha ricordato che «la causa principale dei problemi» dei paesi del Pacifico è l’uso ancora esteso dei combustibili fossili nei paesi più sviluppati, che spesso stanno a decine di migliaia di chilometri di distanza.
Durante l’ultima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP27), terminata il 20 novembre, è stato trovato un accordo per un fondo di compensazione destinato ai paesi in via di sviluppo: gli impegni sui combustibili fossili però sono ancora molto vaghi.
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Il Guardian ha raccontato che chi si occupa del progetto sui ricollocamenti lo definisce «un documento vivente», perché il suo obiettivo è quello di anticipare ed evitare i possibili problemi basandosi su quelli già osservati. Nel caso di certi centri abitati che sono già stati spostati, in effetti, ci sono stati sia aspetti positivi che negativi.
La prima comunità delle Fiji a essere stata spostata nel 2014 fu quella di Vunidogoloa, una piccola cittadina di circa 140 abitanti che si trovava sulla costa nell’isola di Vanua Levu, la seconda più grande del paese. L’ipotesi di spostare un centro abitato risaliva agli anni Cinquanta, quando il livello del mare cominciò ad alzarsi, ma le prime discussioni per farlo concretamente furono avviate nel 2004. Adesso la nuova comunità si trova nell’entroterra, a circa un chilometro e mezzo dalla sua posizione originale, e a un’altitudine più elevata.
Le nuove abitazioni sono dotate di fossa biologica, pannelli solari e servizi igienici, ma sono state costruite senza cucine perché il piano prevedeva di aggiungerle in un secondo momento, cosa che non è più accaduta. In più, secondo un residente intervistato dal Guardian, il fatto che il nuovo sito sia vicino a una grossa strada rende più facile raggiungere le scuole, gli ospedali o le città più grosse: al tempo stesso però complica la vita ai pescatori e ha anche facilitato l’arrivo dell’alcol in una comunità dove prima non era diffuso, contribuendo a far aumentare alcuni reati legati al suo consumo.
Il centro abitato di Tukiraki, sull’isola di Viti Levu, fu invece spostato dopo che nel 2012 una frana aveva distrutto alcune case e dopo che nei mesi e anni successivi due cicloni avevano devastato le abitazioni temporanee dei residenti, le infrastrutture e i raccolti. Secondo alcune persone informate sui fatti adesso ci sarebbero tensioni tra gli ex abitanti di Tukuraki e i membri del clan che ha permesso di costruire le loro nuove case nel suo territorio (perché avrebbero servizi migliori delle loro).
Per fare un altro esempio, fino all’anno scorso Nabavatu, un centro abitato di circa 400 persone su una collina di Vanua Levu, non era stato preso in considerazione per essere spostato. Si decise che fosse necessario farlo quando nel gennaio del 2021 venne colpito dal ciclone Ana, che portò piogge torrenziali e provocò colate di fango che investirono strade e abitazioni, danneggiando gravemente anche gli edifici più solidi. Le negoziazioni rispetto all’area in cui spostare il centro abitato hanno richiesto vari mesi. Si deve ancora cominciare a recuperare il legname per costruire le prime case.
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